Tradizioni solofrane

 

Le tradizioni di Carnevale

 

 

LE CARCARE DI SANT’ANTUONO ABATE

 

Si era da poco spento l’eco delle festività natalizie che un’altra festa dava inizio ad un nuovo periodo di baldoria e spensieratezza. Il peso del quotidiano era tale che bisognava trovare altri motivi di distrazione. Arrivava così la festa di Sant’Antuono Abate e con essa, come in un romanzo a puntate, una lunga serie di appuntamenti giocosi di domenica in domenica fino a Carnevale.

Il santo monaco raffigurato con un maiale ed un rametto di ebano in mano, reo di essersi recato all’inferno per rapire, a favore degli uomini, il fuoco, era al centro di una sentita devozione locale dai molteplici significati. Emerge la funzione del santo come mediatore e controllore del fuoco, elemento essenziale e pericoloso. A lui la tradizione cristiana trasferisce compiti e prerogative di precedenti divinità. In quella temperie culturale diviene il santo custode del focolare, baluardo contro gli incendi, protettore degli animali, a cui, come per il fuoco, era legata la vita degli uomini. Ecco allora la sua immagine puntellare strade, androni e case, in cappelle votive murali mai prive di un fiore o di un lumino. Ed ecco la sua caratteristica festa: quella delle carcare, del 17 gennaio.

Nella leggenda la figura di S. Antonio è legata a quella di Prometeo. Il fuoco ha il significato di una forza benefica in quanto purificatrice e distruttrice nello stesso tempo, quindi da dover considerare sacro. Il viaggio del santo nel mondo degli inferi fa parte dei riti di iniziazione, che si facevano all'inizio del ciclo riproduttivo e significava un andare a seguire la germinazione del seme.

La raccolta della legna per i falò iniziava per tempo e diventava una gara, in cui non erano impegnati solo i ragazzi. C’entrava il nome di tutto il rione, per cui nessuno si faceva indietro nel partecipare, nell’approntare la fascina più grossa o i cipponi più vecchi, che dovevano fare più fuoco e fiamma.

Ogni rione aveva il suo teatro della festa, ove si approntava la catasta a forma di piramide con l’ossatura fatta di grossi pali. C’erano gli specialisti del fuoco, che doveva essere abbondante e scoppiettante. Né mancavano i fuochi d’artificio, che dovevano scoppiare nel carcarone quando questo era più grosso.

Famoso era a gatta e ’o surecera cupe ’e coppa, il gatto e il topo della cupa di sopra, cioè via Garzilli. I botti uscivano dalla carcara e come missili luminosi si rincorrevano da via Garzilli fino alla vicina piazza, proprio come fanno il gatto e il topo.

Si era al centro della festa, si confrontavano le altre carcare in una gara che vedeva or questo ora quel rione prevalere sull’altro. Ma il significato della festa era tutto lì: un motivo per stare intorno al fuoco nel cuore dell’inverno, per lasciare la solitudine dei camini di casa, per divertirsi insieme.

Le alte lingue rosse, lo sciame di scintille guizzanti in mille altre più piccole, il bagliore che tingeva quei crepuscoli, che ormai già cedevano alla notte, quel crepitio che si annunziava nelle vie che menavano allo spiazzo della carcara, le fresche risate, il chiacchierio festoso, rinnovavano la tradizione.

Non c’era chi non si portasse a casa un braciere di tizzoni ardenti e con essi la benedizione del santo.

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Da una testimonianza lontana giunge la descrizione della festa di Sant’Antuono Abate e della sua carcara.

Nel grigio nival vespro di gennaio, 
al ciel che terso e livido risplende, 
vertiginoso al par d’un arcolaio, 
da gran catasta d’assi il fumo ascende,
 
e, fuor de l'erta mole, alza e protende 
i rossi suoi tentacoli con gaio 
ruggir, la vampa, e tutta poi l’accende, 
ed avviluppa come in flamenco saio.
 
Baldo ed allegro omai l’incendio ferve. 
Appaion fiochi intorno i lampioni. 
Splendon le case; irrompe un pandemonio.
 
Impugnan tizzi fumidi le serve, 
cancaneggian guatteri e garzoni; 
grida la folla: evviva sant’Antonio!
 

(Carmine Troisi, Sonetti volanti, 1913)

 

 

Ecco questa del 1916 da "Le Rane":

 

Anche quest’anno nell’antichissima chiesa di S. Croce, si è celebrata, col consueto fervore e gran concorso di popolo, la tradizionale festività di S. Antonio Abate. Ebbero luogo in diverse piazze, i rituali falò, accompagnati dal tripudio dei monelli e dalla distribuzione della bragia a titolo di devozione. La chiesa pomposamente parata, ebbe una singolare animazione dalla frequenza delle messe, e dallo splendore della cerimonia. Predicò il molto rev. can. don Carmine Troisi con parola degna ed attenta audizione del numeroso pubblico. Diverse batterie e fuochi di altro genere posero termine alla ricorrenza festiva, in onore di quel santo verso cui antica e profonda è la venerazione del nostro popolo.

 

Se si va più oltre negli anni, dove non può giungere il ricordo vediamo intorno alle carcare balli e canti, ’a tarantella c’o pere pe’ dinto, i primi frizzi e lazzi carnevaleschi.

Sant’Antuono maschere e suoni, dice un proverbio anche solofrano, infatti in questo momento dell’anno, iniziavano le sfilate di Carnevale per proseguire, di domenica in domenica, fino al parossismo finale del martedì grasso.

Sant’Antuono e Carnevale erano strettamente uniti in un unico desiderio di colorare il grigiore quotidiano in un tempo in cui scarseggiavano i divertimenti.

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CARNEVALE

 

La tradizione carnevalesca solofrana era ricca e, per cominciare, vale citare un’ampia nota del teologo solofrano in un carme in cui l’esimio latinista in versi latini, da lui stesso traslati in italiano, parla di Solofra e delle sue glorie. Ecco, dunque come racconta Antonio Giliberti, nel 1886, il carnevale solofrano.

 

Da tempo immemorabile si cominciò a cantare nel Carnevale da persone mascherate le così dette Zingarelle, da Solofrani poeti composte, semplici e leggiadre poesie; e specialmente le Satire virulenti (i Carnevaletti) in dialetto, che non saprei come tollerati; ragionevolmente fatte in prosieguo scomparire, per essere ancora nelle attuali suscettibilità a più Famiglie, vituperose. […] Non si fecero desiderare drammatiche produzioni in forma normale lucibrate, e da attori solofrani artisticamente rappresentate: massime la Tragedia della passione di Gesù Cristo opera di Marco Pasquale Garzillo, rappresentata nel 1812 in questo palazzo Ducale. Apposito scenografo ne preparava le decorazioni: il vestiario relativo fu fatto venire da Napoli; si costruirono intorno, intorno alle pareti convertati di arazzi anche i palchi: si ebbe una competente Orchestra musicale, nè mancò agli Istrioni la perizia nel rappresentare. Lo spettacolo fu splendidissimo, tanto da meritare plauso lusinghiero da chi non era a simili scene profano; e bisognò più volte, a richiesta di molti stranieri, replicarlo. E mi credo nel debito altresì di non lasciare digiuna la posterità della notizia delle Quattro Stagioni, mascherata quivi eseguita ripetutamente dal 1820 al 1830. Era una lunga pagina di Mitologia; in cui vennero personificate alquante divinità: come il Sole, la Luna, la Primavera, la Està, lo Autunno, lo Inverno, e via via; ad imitazione di quella in tempi più remota rappresentata. Circa 30 erano i Mascherati, tutti a cavallo, e ciascuno de’ quali aveva due pedoni similmente mascherati, uno a destra e uno a sinistra, sia per guida del cavallo, sia per compimento della rappresentazione. Gli ornamenti erano rispondenti alle personalità rappresentate, nobili, eleganti, con Simboli propri delle relative Divinità pagane. Chiudeva la scena la persona della Morte, cui avresti detto uno scheletro vivificato, seguita, come per corteggio, da una folla di simili figure: siccome l’apriva il Tempo. Transitavano per le vie principali del paese placidamente, spargendo a destra, e a manca confetti di zucchero. Fu d’uopo replicare la comparsa ne’ singoli Carnevali, almeno tre volte anche per compiacere ad innumerati forastieri accorsi allo Spettacolo.

 

La cura che metteva il solofrano nell’esprimere il suo animo faceto nei lazzi carnevaleschi delle domeniche che precedevano il famoso martedi, facevano accorrere gruppi mascherati da Montoro o da altri paesi del fondovalle, che si univano ai gruppi solofrani e ballavano per le strade ’a ’ntrezzata cioè l’intreccio o la quadriglia. L’altro ballo era la campagnola o culo a culo. C’erano quelli che dirigevano il ballo ed erano sempre gli stessi per molti anni.

Dalle finestre le ragazze osservavano i giovanotti nelle evoluzioni carnevalesche, lanciavano loro coriandoli e confetti e, poiché a loro non era permesso scendere in piazza, questi baldi, con una molla allungabile, che recava in cima una pinza porgevano alle ragazze in finestra o in balcone i primi fiori.

Non mancavano i caratteristici carretti trainati da cavalli addobbati con nastri e frasche. Su di essi i giovani cantavano suonando la chitarra, il violino, il mandolino. C’era tra questi un menestrello solofrano che tutti chiamavano a zitella per le movenze femminlli e lo stato di eterno scapolo.

Il funerale di Carnevale era un momento importante, poiché segnava la fine del lungo periodo di festa. Un grande pupazzo rappresentava Carnevale che veniva portato in processione su un carretto a mo’ di carro funebre oppure su di una scala posta orizzontalmente a mo’ di lettiga. Dietro veniva la folla di mascherati che cantava a mo’ di pianto addolorato:

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Carnevale pecchè si’ muorto 
pane e vino nun ti mancava 
’a ’nzalata era nell’uorto 
Carnevale pecché si’ muorto?

 

Intorno al carro c’erano delle persone vestite di bianco, dietro una donna molto magra a lutto che piangeva: era la Quaresima.

 

I canti di lamentazione intorno a Carnevale morto sono un modello di lamento funebre il cui scopo è quello di elogiare il morto di cui si ricordano azioni e relazioni con i presenti e non presenta toni drammatici. In questa lamentazione c'è il modello del planctus campano.

 

 

QUARESIMA

 

Dopo il chiasso carnevalesco, succede il silenzio triste della Quaresima, periodo molto sentito dalla tradizione popolare, come al suo opposto il Carnevale.

 

Si sospendono canti e danze, si rimandano le feste e la gioia che dovrà accompagnare l’esplosione delle campane pasquali. Tempo di magra e tempo di preghiera, in cui ogni manifestazione della vita deve esprimere la tristezza del periodo di preparazione alla passione di Cristo. Tutto comincia appena terminati i bagordi carnevaleschi, con la festa delle Ceneri, in cui il cristiano ricorda eri cenere e cenere diventerai. Quel pizzico di cenere che il sacerdote pone, in una mistica funzione sul capo del penitente con in mano il cero acceso simbolo di fede, ha il potere di innescare un corso a ritroso di penitenza e di purificazione fino alla catarsi finale della Pasqua di Resurrezione, nella quale il cristiano può finalmente gioire ed iniziare una nuova vita. Questo lungo lasso di tempo viene scandito da un uso contadino: quello di appendere alla porta di casa una zucca in cui sono state conficcate tante penne di gallina quante sono le settimane della Quaresima che saranno asportate, appunto, una ogni settimana. Una breve nenia accompagna questo atto:

Quaresima secca secca, si mangiaie le paste secche. Le dicette: "Dammene una". Mi mannaie dint’e matune. Le dicette: "Damene ’nata"". me mannaie ’na zucculata.

Nelle famiglie non contadine si conserva con cura una grossa zucca nella fredda cantina oppure si usa uno di quei meloni "di pane" che pendono come provoloni dalle pertiche delle dispense. Le penne di gallina sono quelle dell’animale che si consuma il giovedì grasso o a Carnevale. È come un gioco dai bimbi costruire quella specie di calendario rudimentale. La zucca o il melone viene vuotato del contenuto attraverso un’apertura sulla parte superiore. Su un lato di questa poi si producono dei fori a mo’ di bocca, di occhi, di naso, formando così una testa con un viso, che viene illuminato con un mozzicone di candela acceso posto nell’interno. In questo modo la Quaresima somiglia ad una testa di morto e si trasforma in uno spauracchio per i bimbi un più turbolenti.

Questa donna magra, che nonostante l’astinenza mangia dolcetti, ed avara, poichè non concede agli altri il suo dolce, struzzica la fantasia dei bimbi a cui sembra che tutta quella astinenza prescritta in Quaresima fosse per nutrire la perenne avidità di quell’essere che dal buio della dispensa di cucina, dove è collocata, manda un sogghigno vittorioso (1950).

Ecco come si celebrava la Quaresima a Solofra nel 1915 in un documento dell’epoca. Da notare i raduni in chiesa per ascoltare i "predicatori", più d’uno, "perchè tutti potessero dirsi appagati nei loro giusti desideri".

In questo tempo si sente più vivo il bisogno di raccogliersi nel sacro Tempio, e di godere dell’influsso soprannaturale della Grazia. Nella nostra Chiesa Collegiata di S. Michele quindi, come negli altri anni, avremo la divina parola al popolo credente nei Venerdì e nelle Domeniche, per ridestare nei cuori i sentimenti della Fede e ritemprare lo spirito nelle lotte della virtù. E perchè tutti possano dirsi appagati nei loro giusti desideri, verranno fra noi i Padri Passionisti, i quali dopo la predica del Purgatorio nella quarta domenica terranno un corso di esercizi spirituali dal giovedì seguente fino alla Domenica delle Palme.

 

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Da M. De Maio, Tradizioni popolari e religiose di Solofra, Solofra, 1988.

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La vera morte di Carnevale

 

Che nel mondo nulla sia stabile e che persino la morte sia da ascriversi ad un naturale processo evolutivo è un assunto acquisito che non dovrebbe generare meraviglia. Se, però sperimentiamo il mutamento nei riguardi di quelle certezze che costituiscono l'ancoraggio essenziale della nostra realtà, necessariamente rimaniamo smarriti in attesa di cercarne delle nuove, un aiuto può venirci da un mondo in cui tutto cambia più velocemente dei nostri attuali ritmi di assuefazione.

È il caso delle tradizioni, che sono un po' il terreno in cui affondano le nostre radici, costituendo una di quelle certezze essenziali di cui paventavamo il cambiamento. Altro é, infatti sapere che esse cambiano, altro è costatare i tempi brevi del mutamento, come se queste subissero la stessa legge che domina il nostro mondo.

Il Carnevale è una delle manifestazioni più antiche, arricchitosi perciò di vitale pregnanza e divenute uno di quei punti sicuri di riferimento di cui dicevamo. Non che esso non abbia conosciuto cambiamenti, però da quando era un lungo momento propiziatorio legato ai riti agresti a quando subì le modificazioni del cristianesimo colorandosi, in seguito, anche di valenze psicologiche e sociali, il suo processo evolutivo, pur radicale, è avvenuto in modo sempre non percettibile alla quotidianità.

Oggi, invece, nel breve arco di qualche decennio la festa dei frizzi e lazzi ha visto innegabili mutamenti, senz'altro con valide motivazioni, ma che lasciano quel senso di smarrimento di cui dicevamo, almeno che non si abbia già acquisito un rapido ritmo di assuefazione alle nuove realtà che ci permette di seguire i veloci cambiamenti di oggi come quei galletti che una volta si usavano per individuare la direzione del vento.

Spinti da un nostalgico bisogno siamo andati per le strade della nostra Irpinia in cerca del Carnevale, non abbiamo trovato il divertimento carnevalesco che era travestimento spiritoso, burla faceta, beffa allegra, divertimento che era soprattutto corale e pubblico. Le strade, molte strade, si erano trasformate in impraticabili arene in cui potevano indisturbati scorrazzare, perché protetti dal lecito carnevalesco, gruppi di chi aveva scambiato questo momento di divertimento, che fu essenziale ed anche tragico, in espressioni senza freno di inciviltà ed ineducazione. Il Carnevale non impazziva più nelle strade ma si era rinchiuso nell'angustia di questo o quel gruppo, si era rintanato nello stretto ambito di questo o quell'ambiente. E se sopravvivono episodiche manifestazioni di vero Carnevale esse sono come monconi di un corpo ormai senza vita.

Sulla stampa irpina, 1989