Elementi di economia
Ottocento
Con la Rivoluzione
partenopea del 1799
Solofra subì
forti danni di natura economica.
Perdette l'arte
del battiloro e vide molto ridimensionate alcune attività di lavorazione della
pelle: cordami, tamburi e scarpe.
La sua realtà
artigianale si ridusse alla sola concia della pelle
La struttura produttiva solofrana
La sua struttura produttiva
improntata su un sistema di lavorazione tradizionale a basso contenuto
tecnologico, poggiava su piccole e medie imprese a carattere familiare che
proprio per questa caratteristica riuscì a superare le secche dell'economia
meridionale.
.
Un'attività divisa in parti
Come avveniva nel XVI secolo l'attività di concia veniva divisa in parti e svolta singolarmente nelle varie
unità lavorative che poi facevano capo a imprese più grandi.
C'erano imprese
che svolgevano la fase di concia e imprese che eseguivano
la fase di rifinitura. Quest'ultima, che richiedeva
competenze e abilità più specialistiche rispetto a quelle necessarie nella
prima fase della concia, era divenuta una prerogativa esclusiva solo di alcune imprese.
Perciò le 35
imprese documentate a Solofra nel 1832 devono intendersi a capo di una fitta
rete di attività minori la cui estrema duttilità
permetteva di adeguarsi alle esigenze del mercato svolgendo una importante
funzione ammortizzatrice.
Gli imprenditori,
nei periodi di congiuntura positiva, in cui la domanda
eccedeva la capacità produttiva della propria impresa, commissionavano
all'esterno la realizzazione di varie fasi della produzione e non solo quelle
che richiedevano competenze più specialistiche.
Fattori negativi
Questo processo
era gravato da altri fattori come la bassa tecnologia, il lungo tempo di produzione che dipendeva
dal tipo di pelle da conciare ma che non era inferiore a tre mesi e giungeva
fino a un anno e mezzo. Grave conseguenza era il fatto che il conciatore andava incontro a cali di prezzo che gli
impedivano di avere introiti sufficienti a coprire i costi sostenuti
inizialmente. Inoltre questi imprenditori si avvalevano di capitali presi a
credito per sostenere le spese. La mancata copertura dei costi dava luogo a
situazioni di insolvenza creditizia che metteva in
moto i tradizionali meccanismi giudiziari, previsti dalla legge, volti a
salvaguardare gli interessi lesi dei creditori.
Procedure di
fallimento
Coinvolti nella
procedura del fallimento potevano essere sia il piccolo commerciante impegnato
nell'attività di compravendita delle pelli, sia l'imprenditore che svolgeva la vera e propria lavorazione conciaria, sia
l'impresa che aveva messo in commercio capitali più cospicui e soprattutto era
proprietaria degli impianti di produzione sia quella che disponeva di un
capitale più modesto.
Il fallimento
dipendeva dalle caratteristiche strutturali dell'impresa conciaria
ma non concludeva il suo ciclo vitale era infatti l'espressione di
difficoltà temporanee in cui l'economia di mercato trascinava le attività
conciarie.
Le fabbriche e le
industrie esistenti nel 1842:
.
Si conciavano
cuoi vaccini, pelli pecorine e caprine. I cuoi in parti erano
del Regno delle Due Sicilie in parte
straniere. Le pelli pecorine e caprine erano tutte del Regno.
Vi lavoravano
circa 600 operai con un salario da grana 30 in giù per gli uomini per le donne di grana
12.
La quantità di
lavoro in un anno: cuoi forestieri circa 400 cantaia,
pelli caprine 500 cantaia, pelli pecorine 500 cantaia.
Il prodotto si
vendeva nel Regno e all'estero. Le lane tutte nel regno.
(Dalla relazione del
Sindaco Luigi Giliberti fatta il 24 giugno 1842)
°
Nel corso degli
ultimi anni dell'Ottocento le imprese furono investite dalla crisi economica
che colpì in modo più o meno diretto tutte le imprese
operanti nel settore.
Alcuni casi di
fallimento all'inizio del Novecento
Società Giliberti-Romano
La società Ciriaco Giliberti-Nicola
Romano "per
l'esercizio di una conceria di pelli e per la rivendita di lana",
investiva un capitale di ottomila lire.
.
Una tradizione di
famiglia.
Per entrambi i soci la lavorazione conciaria costitutiva una tradizione
di origine familiare il padre di Nicola Romano, Raffaele, aveva infatti gestito per anni una
conceria, ma, quando suo figlio aveva intrapreso l'attività produttiva per
conto proprio, affidò a quest'ultimo i suoi
capitali, limitandosi esclusivamente a fornire prestazioni lavorative in
qualità di semplice operaio presso la sua conceria. Ciriaco Giliberti era in rapporti
di parentela con Vincenzo Giliberti, noto nella
zona come "attivo e intelligente" imprenditore, e da questi Ciriaco ottenne in affitto la conceria di via
Campi con i relativi strumenti di produzione.
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La conceria
La conceria in cui
essi esercitavano l'attività produttiva vera e propria si sviluppava su due
livelli ed era costituita da quattro vani al piano terra e da altri due vani
situati al di sotto del livello della strada. Nel
vano immediatamente adiacente alla porta d'ingresso venivano
effettuate le operazioni preliminari della concia. Qui c'erano cinque
"tavole da steccare", che venivano
utilizzate per eliminare la lana dalle pelli, " un travetto
e uno scanno di legno castagno che serviva per ungere le pelli ". Nella
stanza accanto dove avveniva la rifinitura c'erano altri scanni, quattro
tavole per l'apparecchio dei cuoi, 17 baccelle per
stendere le pelli e una piccola caldaia di rame. Nei vani sottostanti dove
c'erano otto tine di legno
cerchiati in ferro, avvenivano le operazioni di concia vera e propria.
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L'impresa gestita da Nicola e Ciriaco era un'attività a
confine tra l'impresa e il negozio, non aveva solo finalità produttive ma anche attività di vendita dei
residui della lavorazione, tra cui le lane ottenute dalla depilazione delle
pelli grezze che fu oggetto di una vivace e intensa
attività di compravendita. Nonostante ciò i profitti erano comunque
esigui, tanto che spesso fu necessario coprire i costi di esercizio col
credito.
Era una piccola attività di carattere artigianale
impegnata prevalentemente sul mercato locale. Benché la conceria fosse dotata di una struttura adeguata a svolge anche
l'intero ciclo produttivo, la sua produzione realizzava prodotti a mezza
concia, i quali, per poter essere messi in commercio, necessitavano di
un'ulteriore fase di lavorazione: la rifinitura.
I principali acquirenti del prodotto semifinito
erano alcune imprese locali di maggiori dimensioni, in particolare quelle di Pasquale De Vita e di Francesco Buonanno che intrattenevano
con l'impresa di Giliberti e di Romano rapporti commerciali,
.
.
L'impresa di Giliberti e di
Romano acquistava sulle piazze di Salerno e di Napoli le pelli grezze per poi
vendere il prodotto semiconciato alle imprese
più grandi di Solofra. Queste ultime, in forza della loro posizione dominante,
riuscivano quasi sempre a spuntare nelle
contrattazioni di compravendita il prezzo che risultava loro più conveniente. I
margini di profitto dell'impresa in questione risultavano, in tal modo, spesso
modesti, compressi come erano tra il prezzo che si
determinava, a monte del processo produttivo, sui mercati di approvvigionamento
della materia prima, e il prezzo che veniva imposto, a valle, sul mercato di
sbocco locale.
Nel corso del 1902 fu proprio un problema legato alla
mancata realizzazione di un prezzo adeguato a coprire
i costi di produzione che spinse repentinamente l'impresa verso la crisi
economica. Secondo quanto gli stessi imprenditori dichiararono in sede
giudiziaria, nell'ambito del procedimento fallimentare che si aprì a loro
carico, essi andarono incontro al fallimento per aver subito una grave perdita
sul commercio del loro prodotto.
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In tale vicenda l'impresa registrò una perdita di 6.000
lire che generò, come effetto immediato, una situazione di insolvenza
creditizia.
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La ditta Vincenzo e Gaetano Giliberti
Vincenzo Giliberti e suo
fratello Gaetano, sulla base di un atto
donazione, nel 1895 ebbero la proprietà dell'azienda paterna con un capitale
commerciale di 20.000 lire.
Al fine "di regolare più stabilmente per lo avvenire questo stato di comunione a meglio stabilire
l'andamento del loro anzidetto commercio", essi si recarono dal notaio per
stipulare un contratto di società. In questa, occasione venne
stabilito che l'attività sarebbe stata esercitata sotto denominazione sociale
di "Ditta Gaetano e Vincenzo f.lli Giliberto" che sia gli utili che
le perdite sarebbero stati divisi in parti uguali e nel caso uno dei due avesse
avuto necessità di ritirarsi dall'attività, si sarebbe proceduto alla
"liquidazione degli affari" e a una divisione paritaria sia
dell'attivo che del passivo dell'impresa. Inoltre essi si assumevano l'impegno
di effettuare una "regolare tenuta dei libri di
commercio, segnando tutti gli affari fatti a nome della ditta"
Cinque anni dopo, il 24 giugno del 1900, i fratelli Giliberti, ritenendo "che non conveniva loro di
continuare il contratto di società e proseguire in comune le operazioni del
loro commercio, si sciolsero dal vincolo di società che li avvinceva [ ... ],
procedendo ad ogni conto di dare e avere nel rapporto tra di
loro e quello coi terzi".
Il documento notarile non fornisce ulteriori
specificazioni in merito alle motivazioni che furono alla base di tale scelta.
Né è possibile sapere se lo scioglimento della società dette luogo anche a una divisione della proprietà della struttura produttiva.
Nel 1904 Vincenzo Giliberti
risultava proprietario di due concerie e di diversi
magazzini di deposito merci dislocati in varie parti del paese. La conceria di via Campi veniva spesso data in affitto, mentre quella
situata al rione Toppolo, attigua alla sua casa di abitazione, costituiva la
struttura produttiva in cui egli esercitava ordinariamente la sua attività.
Questi era, enfaticamente descritto da un giornale locale (Corriere di Avellino, n. 11) come "giovane attivo e intelligente
che studia tutti i mezzi per migliorare la sua industria e la posizione dei
propri operai" aveva ottenuto, solo qualche anno prima, "lusinghieri
attestati" nelle diverse esposizioni di Bologna, Marsiglia e Baden, "esponendo i suoi montoni lavorati".
.
I locali
dell'impresa
Nell'atrio che
precedeva l'ingresso principale dell'abitazione, immediatamente adiacente
alla conceria, vi erano due magazzini di deposito, " uno
contenente pelli conce, ed un altro pelli grezze". Altri due depositi,
invece, erano situati lontano dal luogo di produzione, uno " alla via
delle concerie" e l'altro alla "via Magnolie".
La conceria di via Toppolo si sviluppava su due livelli. Al pian terreno
vi erano due ampi vani contenenti 18 vasche in muratura, e altri due vani con
vari cavalletti in legno. Al primo piano, invece, a
cui si accedeva mediante una scala esterna, si
trovavano tre luminosi locali adibiti "per l'apparecchio" delle
pelli, più un'area scoperta riservata ad uso di spanditoio.
Su questo stesso piano si trovava anche " uno studietto
in legno contenente libri e carte del commercio
".
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L'attività
Vincenzo Giliberti era impegnato nella realizzazione
dell'intero ciclo produttivo, che andava dalle fasi di concia a quelle di
rifinitura. La peculiarità di quest'impresa
risiedeva soprattutto nella capacità di commercializzare il proprio prodotto
su scala più ampia rispetto alla media delle imprese locali. Giliberti, infatti, disponeva di
una rete di distribuzione che contava alcuni punti di vendita situati a
Salerno, Messina e Marsiglia, la cui gestione era affidata a una serie di
agenti di commercio che operavano anche a Milano, Genova Roma Santa Croce
sull'Arno.
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Nel 1904
l'impresa Giliberti registrò un
passivo del valore di 59.699 lire, contro un attivo costituito dalla modica
somma di lire 7.132. La procedura fallimentare però, grazie all'intervento di
un parente del Giliberti che riuscì a fornire una
solida garanzia per la soddisfazione dei suoi crediti, si concluse
con un concordato che realizzò gli interessi sia dei creditori che del fallito,
ritenuto "dalle autorità giudiziarie meritevole di considerazione perché
vittima di infortuni".
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La Ditta De Santis
Nel 1910 la "Ditta De Santis"
rimase vittima della procedura fallimentare in seguito al fatto che "le
pelli comprate allo stato grezzo ad un prezzo corrente sul mercato, furono con
gran difficoltà lavorate e restarono per molto tempo
invendute, poi si dovettero vendere ad un prezzo inferiore a quello di
acquisto"'.
L'impresa De Santis operava nel
settore conciario dal 1902 e, nonostante la breve interruzione provocata dal
fallimento del 1910, continuerà ad essere attiva fino
al 1932.
La gestione dell'impresa avveniva all'interno del nucleo
familiare e la stessa realizzazione del processo
produttivo vedeva la diretta partecipazione di ciascun membro della famiglia. Nicola De Santis, titolare della ditta, esercitava "con capitali
propri l'industria della concia" in collaborazione con suo fratello Giovanni, il quale si
occupava, tra l'altro, anche di "acquistare e rivendere merce conciata per
fuori Solofra". Allo stesso tempo essi si avvalevano anche delle
prestazioni lavorative fornite dal padre, Michele, che, nonostante
la sua avanzata età, forniva comunque un prezioso contributo alla conduzione
dell'azienda.
"Lo stabile ad uso di conceria" era stato preso
in affitto dal conte Emanuele Garzilli ed era
composto da tre vani situati a pian terreno,
"l'uno a destra del cortile entrando ed in fondo, e gli altri due più
sottostanti a destra ed a sinistra dell'androne che dal detto cortile conduce
al giardino di Emanuele Garzilli". Il primo dei
suddetti vani veniva utilizzato come magazzino di
deposito merci, mentre gli altri due venivano impiegati per effettuare le
operazioni di concia. Qui, infatti, vi erano 11 vasche a muro, 3 botti, 4
tinelli e gli altri attrezzi e ferri del mestiere. La conceria non disponeva della consueta area adibita a uso di spanditoio, né dei tradizionali strumenti di lavorazione
necessari ad effettuare le operazioni di rifinitura.
Michele e Giovanni De Santis,
oltre a comprare pelli grezze e rivendere il prodotto semifinito,
si "industriavano pure a conciare pelli per conto
altrui". Durante le fasi di inventario dei beni
suscettibili di pignoramento, infatti, essi dichiararono che parte del
quantitativo di pelli in fase di lavorazione presente nella propria fabbrica
non era di loro proprietà e che ad essi ne era solo stata affidata la
lavorazione. L'impresa, dunque, operava anche su commissione di
alcuni operatori conciari locali che provvedevano anche a rifornirla
della materia prima necessaria. La produzione per conto terzi
si realizzava "senza alcun, contratto scritto, ma per contratto verbale e
per antica consuetudine".
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La "Ditta Giannattasio"
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La famiglia
del Giannattasio era una famiglia di operatori conciari cui la proprietà dell'azienda era
stata trasmessa di padre in figlio e dove pertanto la gestione dell'impresa
era stata tradizionalmente associata alla proprietà degli impianti di
produzione.
La fabbrica,
situata al rione Toppolo, era di dimensioni medie e presentava la tipica
struttura predisposta a realizzare l'intero ciclo produttivo.
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Nel 1897 Francesco
Giannattasio, si trasferì "a
Buenos Aires chiamato dalla sorella, che dimorava colà con la
famiglia, per collocarlo in una fabbrica di conciar pelli". Nel 1901 dato che in famiglia non vi era nessuno in grado di
portare avanti la gestione dell'azienda paterna, sua madre, in qualità di
legittima amministratrice dei beni dei suoi figli minori Felice e Annina,
concesse in affitto "la fabbrica ad uso di conceria di loro proprietà
".
Qualche anno più
tardi Felice, raggiunta la maggiore età, assunse la gestione dell'impresa.
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Nel corso dei primi anni del Novecento quest'impresa
riuscì a sviluppare una fitta rete di contatti commerciali con quelle che erano
state le aree storiche di insediamento dell'industria
conciaria settentrionale, come Genova, Milano e Torino.
Nell'ambito dei mercati meridionali, invece, i rapporti
commerciali dell'impresa Giannattasio risultavano del tutto assenti con la piazza di Salerno,
mentre erano alquanto intensi i legami con Napoli e in particolare con la
"Ditta Gennaro Maffettone". L'impresa Giannattasio quindi aveva sviluppato rapporti abbastanza
articolati con il mercato, a cui ricorreva anche per il reperimento della forza
lavoro.
Infatti, benché Felice prendesse egli stesso
direttamente parte alla realizzazione del processo produttivo, si
avvaleva anche delle prestazioni lavorative fornite da cinque operai che
percepivano un salarlo di 2 lire e 90 centesimi ciascuno.
Nel 1910 la
Ditta registrò un deficit di 20.000 lire che portò alla
sentenza dichiarativa di fallimento.
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La causa che generò il tracollo economico dell'azienda
fu determinata da una perdita verificatasi in seguito "al ribasso di
prezzo" subito da una partita di pelli che il Giannattasio
aveva acquistato alcuni mesi prima dalla ditta Righetti
di Napoli.
Il fallimento non dette luogo, però, alla definitiva scomparsa
dell'attività produttiva, dato che si fece ricorso
all'istituto giuridico del concordato, mediante il quale si pervenne ad una
mediazione fra la massa dei creditori e l'imprenditore insolvente.
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Superata la situazione critica, il Giannattasio
continuò ad esercitare la propria attività e alcuni anni dopo, nel 1918,
"la sua fabbrica di cuoio per suola" fu tra la
poche imprese solofrane che ebbe modo di
ricevere la visita della "Commissione ministeriale per l'incremento
dell'industria conciaria", nel corso della quale, "osservandosi i
cuoi in corso di concia, tutti ebbero a complimentarsene con il direttore
proprietario".
La ditta Giannattasio continuerà
a essere attiva e comparve negli elenchi degli
espositori irpini redatti dalla Camera di Commercio
di Avellino nel 1931.
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(Da Valeria Ascione, L'industria conciaria di Solofra tra fine
Ottocento e primo Novecento: un caso di distretto industriale, in AA. VV., Manifatture e sviluppo economico nel Mezzogiorno. Dal
Rinascimento all'Unità, a cura di F. Barra,
Avellino, 2000)
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