Gabriele Fasano
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Autore de
Lo Tasso Napoletano Traduzione in dialetto napoletano della Gerusalemme
Liberata di Tasso |
La nascita e la sua famiglia
Gabriele Fasano nacque a Solofra il 7 luglio del 1645 da
Alessandro e Livia Murena, ma risiedette
essenzialmente a Napoli definendosi "napolitano",
aggettivazione da lui stesso apposta sul frontespizio della sua opera che fa pensare ad una volontà di volersi distinguere dalla
famiglia originaria.
Questo fatto, che entra nella mentalità del secolo, non favorì un
serio approfondimento sulla sua origine e determinò le carenze
della sua biografia riscontrate in tutti gli studiosi della sua opera. Si è
giunti persino ad attribuirgli come luogo di nascita Vietri,
che invece fu solo quello della sua morte. L’errore è
in uno studio di Salvatore Milano, che ha dimostrato il legame tra i Fasano cavesi e i Fasano napoletani, e che invece ignora quello
che sia gli uni sia gli altri avevano coll’originario
ceppo solofrano.
Vedi
la correzione di questo errore in uno studio più
approfondito
Le carenze biografiche hanno inciso
nella stessa lettura dell’opera del Fasano, le cui caratteristiche, quelle
proprie di una traduzione in dialetto napoletano, sarebbero state meglio
esaltate se si fosse potuto cogliere quel denso sottofondo popolano che
permette di gustare più a fondo tutta la genuina e vivace napoletanità
propria delle zone meno cittadine, di una provincia però molto napoletanizzata, come quella cui apparteneva Solofra.
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La famiglia
Fasano all’epoca di Gabriele era al centro di una fiorente attività
mercantile sostenuta da una bottega per la concia delle pelli, a cui erano
legate le macine per la preparazione della mortella e del sommacco e da forni
per la produzione della calce, da una bottega di battiloro, attività che il
padre Alessandro svolgeva insieme ai figli Giovanni Battista, Bartolomeo,
Filippo e ai nipoti Giuseppe ed Emilio.
La tradizione medica che aveva distinto la famiglia continuava
nella "spezeria" guidata da Giovanni
Camillo, "speziale singolare nella medicina" e fratello di Gabriele,
il quale fu amico con Francesco Redi, medico e grande
conoscitore e studioso delle virtù delle piante, in una comune unione di
interessi e di conoscenze. Anche nell’opera fasaniana ci sono ampi richiami all’arte medica, frequenti
citazioni di medici del tempo e passi in cui è presente persino la "spezeria" paterna.
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Gabriele dopo i primi studi, seguiti nelle scuole private locali
che avevano una tradizione antica perché legata ai bisogni della mercatura,
aveva abbracciato lo stato clericale e si era trasferito a Napoli nella
residenza di famiglia, mentre l’incombenza della cura dell’Abbazia di S. Maria di Vietri lo fece
risiedere anche nella cittadina metelliana.
Negli ambienti della costiera amalfitana
ai quali la famiglia Fasano era legata con rapporti parentali, Gabriele, che fu
un uomo colto ed erudito, conobbe lo speciale rapporto che questi avevano avuto
con Torquato Tasso per gli anni vissuti dal poeta a Sorrento e per i legami del
poeta con l’aristocrazia locale. C’era in questi ambienti un orgoglio ed un
trasporto diffuso verso il Tasso che avevano creato un’accesa atmosfera in cui
la vicenda letteraria del poeta riceveva un riflesso tutto particolare con
strascichi che erano ancora vivi ai tempi del giovane Gabriele e che emergono
nelle pagine introduttive dell’opera fasaniana.
Intorno al Tasso si cementò anche l’amicizia con Francesco
D’Andrea, giureconsulto nativo della costiera, animatore di Accademie
ed eminente uomo di cultura, col quale il Fasano partecipò alla vita culturale
napoletana. E fu il D’Andrea a fargli conoscere Lorenzo Magalotti
e Francesco Redi, con i quali si creò un fecondo sodalizio testimoniato da un
importante carteggio, che fa parte dei "vivaci
scambi culturali e letterari fra Firenze e Napoli nel secondo seicento" e
che chiarisce il contributo che i letterati fiorentini, esperti e interessati a
problemi linguistici, dettero al poeta solofrano-napoletano nel momento più
ricco della sua attività culturale. Essi infatti
sostennero e seguirono la traduzione della Gerusalemme liberata in
dialetto napoletano, che fu una vera e propria operazione linguistica
espressione della querelle tra la lingua toscana e il vernacolo
napoletano.
I rapporti del Fasano con i due rappresentanti della corte
medicea ebbero aspetti più amicali se si pensa che il Redi citò scherzosamente
il Fasano nel Bacco in Toscana accanto al D’Andrea
quando disse che "Egli a Napoli sel bea /
del superbo Fasano in compagnia", riferendo nelle annotazioni un episodio
che esprime la familiarità di questa amicizia e cioè che l’amico, mostrandosi
in collera perché nel Ditirambo non erano stati lodati i vini di Napoli,
disse: "Voglio fa venì Bacco a Posileco, e le voglio fa vedè,
che differenza ’nc’ è tra li vini nuosti,
e li Pisciazzelle de Toscana". Il Fasano infatti aveva intenzione di aprire col Redi un confronto
letterario scrivendo un Bacco a Posileco ad
imitazione dell’opera rediana parlando dei vini
antichi e moderni del Meridione, opera che però non vide la luce forse per la
precoce morte dell’autore. E questo deve essere il
motivo che non portò il Fasano alla traduzione del Bacco rediano in lingua napoletana, come gli aveva proposto il
D’Andrea.
I rapporti continuarono poiché nel
gennaio del 1686 il Fasano mandò ai due amici la traduzione del XVI canto della
Gerusalemme, chiedendone un giudizio cosa che il Redi fece con
espressioni entusiasticamente positive, mentre il Magalotti
gli inviò "un vero e proprio commento con consigli e giudizi
lusinghieri". Ancora il Fasano mandò all’amico aretino in omaggio un suo
sonetto di argomento enologico ancora scherzando sulla
diatriba sui vini e poi ricambiò la cortesia citando il Redi nel canto XIV
della sua opera, l’amicizia tra i due rimase se il Redi nella edizione
definitiva della sua opera aggiunse altri versi che parlano dell’amico.
Ci furono altre persone, che seguirono l’opera del Fasano prima
della stampa quando brani de Lo Tasso erano
letti nelle case dell’aristocrazia napoletana dove si dibattette
anche lo spinoso e controverso problema della scrittura della lingua che
accompagnò l’intera traduzione.
La lunga gestazione dell’opera e soprattutto il citato carteggio
con gli intellettuali fiorentini, ancora il fatto che lo stesso Fasano fu
consulente di operazioni letterarie dialettali, lo
mostrano come un accademico impegnato in polemiche e problemi linguistici e
letterari, in grado di disporre di molto tempo da dedicare alla sua opera, alle
sue amicizie e alla vita del letterato gaudente, cosa che concorda benissimo
anche col suo stato clericale.
Gabriele Fasano, che fu autore di sonetti in napoletano ed ebbe
anche un imitatore, morì a Vietri nella frazione Dragonea, a cui apparteneva la chiesa di S. Maria di Vietri, nel
Ne Lo
Tasso Napoletano è presente Solofra con le sue attività e il suo ambiente |
Interessanti sono i riferimenti all’ambiente solofrano contenuti ne Lo Tasso napoletano che sono molto più precisi
delle citazioni di luoghi napoletani e cavesi
contenuti nella stessa opera.
Al di là di qualche elemento del
paesaggio, il primo riferimento e il più caratterizzante è quello che riguarda
la concia
delle pelli,
della quale sono usati termini tecnici, che solo chi ne aveva diretta
dimestichezza poteva conoscere.
Si considerino i versi: "Ecco lo scuto
suio c’havea
fi a sette / sole una ncoppa
ll’autra de mezina", dove
il termine "mezina" traduce l’espressione tassiana: "dure cuoia di tauro",
con in nota la spiegazione che le "mezine"
erano i "cuoi da solar scarpe", e con
l’aggiunta che "suolo di mezina" era
"la parte più doppia del cuoio".
Ancora il verso, in cui Armida, visto che il suo strale non aveva colpito Rinaldo, pensa che le sue membra siano coperte
di diaspro ("Vestirebbe mai forse i membri suoi di quel diaspro ondei l’alma ha si dura"), è tradotto: "Besogna che lo cuorio ll’haggia muollo",
attingendo alle conoscenze sul comportamento del cuoio, che, solo
"molle", cioè bagnato, può essere trapassato più facilmente.
Altro riferimento molto preciso si trova nell’invettiva di Argante che si prepara al duello contro i cristiani:
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Po
dice: "Hann’a bedè sti pisciavine mo mmo
che dde Tancrede nne fa Argante. E boglio
spestellà ss’autre
assassine, justo comme se fanno fave frante, voglio fa de le ccoiera marrocchine e cordovane, e dde
le ddoppie addante: la carne a ccane
e l’ossamma ch’avanza nfarinole la voglio mannà nFranza.
(VII, 54). |
Qui il Fasano, allontanandosi completamente dal testo, dice tra
l’altro che vuole fare dei cristiani "ccoiera marrocchine e ccordovane" e
"ddoppie addante", dove, ai termini, che
indicano tecniche precise di concia, si aggiunge l’uso che ne fa l’autore, e
che corrisponde esattamente ad un’invettiva solofrana: "fare
la pelle" (nel senso di "conciare la pelle"), riferita in modo
minaccioso a quella di persone nemiche.
In altro luogo lo stesso traduce il tassiano
"barbaro è di costume" così: "de le ccoire farria sole de
scarpe" (XV, 28), dove c’è un chiaro riferimento non solo alla concia e
alla confezione delle scarpe - altra attività solofrana - ma alla rozzezza del conciapelle, che solo uno del posto poteva usare
spontaneamente ed per celia. Ci sono ancora altri precisi riferimenti a questa attività e ai suoi prodotti, per esempio tutte le
volte che il Fasano usa il vocabolo "cuoiere",
che era un preciso termine locale, o "correa" (VII, 107), con cui si
indicava una cinta di cuoio, o "scardosa"
(XV, 48), che non è aggettivo di scarda ma un
sostantivo indicante un preciso tipo di pelle ruvida, come lo stesso spiega in
nota; quando cita la mortella (VI, 51), l’erba conciante venduta dalle spezerie solofrane; quando parla della lana - prodotto
principe dell’allevamento e della concia - nelle espressioni: "de lana no ballone" o "a la balla ch’ammassa lana" (XI,
40), e poi: "si nne cardaste lana" (XII,
38), "e saie cardà la lana" (I, 47);
riguardanti, le prime due, una modalità di conservare e vendere la lana, le
altre, una delle operazioni elementari su questo prodotto, la cardatura; quando
menziona le "carcare" ("ma fa la notte
peo de sei carcare",
"so ddoie carcare ll’uocchie"), cioè le fornaci per la calce - addirittura
sei - , il che dimostra che l’autore conosceva quest’attività
e questo prodotto essenziale in conceria; e infine quando nomina il
"cantaro", una tinozza per la concia (X, 56).
Altra attività solofrana presente nei versi del Lo Tasso napoletano è la salatura delle carni, specie quelle di maiale,
produzione molto diffusa a Solofra e che richiedeva la presenza di diverse
botteghe per la macellazione delle carni. La espressione:
"e dde nnemmice fecemo salate" [dei nemici facemmo una strage] (VIII,
13), ed altre simili richiamano, nella loro significazione, proprio la grande
quantità di animali uccisi per questa attività; mentre la frase: "nè a lo mercato fanno strille
tale / ciento mmorre de puorce a ccarnevale" (XV,
51), si riferisce al fatto che per Carnevale, essendo il maiale pronto per la
macellazione, ne cominciava la vendita, tanto che questo era anche un tempo di
scadenza dei contratti di compravendita; né mancano riferimenti al lardo, un
prodotto usato essenzialmente nella concia.
Si trova l’ambiente solofrano nei richiami alle attività pastorali e alla lavorazione del latte; quando si parla del visco, prodotto usato
nell’uccellagione e nella concia; quando ci si riferisce al rapporto dell’artigiano col
garzone ("fare
lo masto"), e persino
all’emancipazione, quell’atto
legale col quale il padre liberava dalla patria potestas
il figlio per renderlo autonomo nella contrattazione mercantile (XV, 8).
Infine come non vedere il mulino, che i Fasano avevano nelle loro terre,
nella citazione di un particolare, cioè del "taccariello",
un legno che stava sulla ruota e che, girando, faceva un rumore stridulo (V,
25)?
E si trova Solofra in tutta una serie di
citazioni, di proverbi, di paragoni che costituiscono un habitat
dominante, e che, se potevano benissimo essere anche napoletani, erano
sicuramente presenti anche a Solofra.
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La
decadenza della famiglia.
Gabriele Fasano può considerarsi l’ultimo rappresentante di
questa famiglia che dopo di lui sarà insignita da Ignazio Fasano, Abate in Andria e poi a Montecassino e da
Filippo che prese parte attiva nella lotta condotta dall’intera comunità, tra
la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII contro il potere feudale.
Dice una testimonianza coeva che la famiglia Fasano patì "molti
travagli nelle liti avute contro il comune Padrone del feudo Don Domenico
Orsino Padre dell’odierno Principe Don Filippo" e cadde in disgrazia
"per il che li Maggiori del Reggimento della Universita di detta terra in ossequio della sua fedele
attenzione hobbligorno la medesima Universita a contribuire ai suoi figli [di Filippo], per 10
anni, ducati 36 l’anno di provvisione in vigore di pubblica conclusione fatta
nel solito Archivio dalli Maggiori del Regimento e
Consiglio delli Trenta della medesima Universita".
Da questo momento la famiglia cadde in "bassissimo stato
rispetto alli tempi passati" visse di pochi beni
e dell’arte del battiloro, nè potette più avvalersi
dei privilegi poiché si "bruggiò
lo studio di Paulo Fasano", restando in possesso solo del beneficio di S.
Filippo e Giacomo con sepoltura nella Collegiata.
I Fasano nel 1722 secondo la testimonianza coeva a cui si è
attinto erano solo 20 persone distribuite in 4 fuochi impegnati nell’attività
del battiloro, mentre il catasto onciario del 1754 censisce
un solo fuoco con nove membri e la medesima attività.
Continua di questa famiglia il ramo napoletano che
però non riconosce più l’origine solofrana del ceppo forse proprio per
la cattiva sorte toccata alla famiglia solofrana e del quale si conosce Tommaso
Fasano professore all’Università di Napoli.
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Il Fasano ebbe anche un imitatore nel 1779 come si può considerare la tragicommedia sacra in dialetto
napoletano di Pietro Pascale, La Gerusalemme
liberata, perché il Pascale fu a Solofra come
governatore e giudice sostenendo la costruzione di un "teatro per uso
d’Istrioni e cantanti", e perché nell’opera si nota la presenza del
Fasano.
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Per
completare lo studio di questa famiglia vedi
Fratello di Gabriele
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Da M. De Maio, Gabriele
Fasano e Lo Tasso napoletano, in
"Riscontri", XXI, n. 3-4, luglio-dicembre 1999.
Per prelievi totali o parziali citare
lo studio indicato
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