I LONGOBARDI A SOLOFRA
Il tempo della pieve
I Longobardi nell’Italia meridionale (570-571) occuparono
un territorio che giungeva fino ai monti Mai di Solofra
(Ducato di Benevento).
La
conca fu un avamposto sulla pianura e le sue zone alte ebbero una funzione
difensiva per la fara (famiglia) longobarda
che si insediò a Solofra e che all’inizio conservò
un'organizzazione militare.
L’economia
fu di sussistenza e si poggiò sul sistema curtense organizzato nei due
"arroccamenti" di Cortina del Cerro e di Le Cortine.
La logica dell’autodifesa trovò nella pieve di Solofra un sostegno alle carenze dei tempi
Diventati
fedeli dell’Arcangelo Michele ne adottarono
il culto e la festa (l’8 maggio) aggiungendolo a quello a S. Maria del quindici
agosto già esistente nella pieve solofrana.
Successivamente questo popolo decise di prendere Salerno per cui dovette fortificare
la pianura alle spalle della città. Durante questa opera
il Pergola-San Marco divenne un forte punto di difesa e di presidio con i
castelli di Serino e di Montoro, mentre il castello di Rota (S. Severino) divenne
il centro di un gastaldato che si estendeva usque serrina
de ripileia, cioè fino al complesso roccioso
del Pergola-San Marco.
Dopo
la presa di Salerno la città divenne importante e
prospera: la grande Salerno longobarda.
Nelle
Campagne si svilupparono le attività agricole, artigianali e il commercio. Qui
furono creati centri per la raccolta dei prodotti quindi dei dazi e dei
tributi.
Per
poter controllare la pianura, divenuta florida e ricca, i Longobardi usarono il
sistema pievano, creato dai bizantini. Le chiese divennero sedi di tribunali
locali (curie), centri di raccolta dei prodotti e dei rapporti religiosi con la
chiesa di Salerno.
Adelchi
di Benevento a capo del dominio longobardo più meridionale
Il
territorio di Salerno faceva parte del Ducato di Benevento, che ebbe vita autonoma poiché non finì con la conquista di Carlo Magno.
Qui si creò una realtà culturale molto importante con caratteristiche proprie, che
fu chiamata Longobardia
minore e che non subì l’influsso carolingio.
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Intanto
per il fiorire di Salerno, divenuta più importante della Capitale, si giunse
alla divisione del Ducato di Benevento in due Principati (849).
Solofra
fece parte del più importante Principato di Salerno e, poiché il confine
passava sui monti di Forino-Montoro, si trovò in una
delicata zona di confine, dove furono rinforzati i presidi di controllo. Il
monte Pergola-S. Marco si
arricchì di un altro elemento difensivo (il futuro castello di Solofra) a
sostegno sia del castello di Serino, con cui
comunicava attraverso Turci, che della via che attraversava il passo di Castelluccia.
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La strada che poneva in comunicazione le
due capitali, Beneventum
e Salernum,
passava sui monti tra Montoro e Solofra, attraverso il passo di Taverna-Castelluccia.
Sappiamo che al tempo dei Romani questa via era detta via antiqua qui badit ad Sancte
Agathe
e che era usata dai Sanniti
per trasferirsi con le mandrie in pianura.
Lungo
la strada ci fu una stazione di sosta in località San Miele (S. Michele
di Serino) detta a li pellegrini, per
accogliere coloro che si recavano al Santuario di San Michele del Gargano e che
erano soprattutto mercanti.
La
strada attraversava il Gastaldato di Rota, come allora si chiamava S. Severino, che per l’importanza
del suo territorio fu al centro delle lotte tra i principi di Salerno e quelli di
Benevento e fu esposto alle invasioni saracene. Per questo motivo i principi di
Salerno si poggiarono alla chiesa salernitana che permise loro di controllare la
pianura attraverso il centro religioso di San Massimo, una importante chiesa palatina. Essi possedettero anche direttamente
molte terre tra Montoro e S. Agata.
Questa situazione si realizzò anche a Solofra la cui pieve fu
gestita dalle due autorità: quella politica e quella religiosa.
Nel
documento l’arcivescovo di Salerno e il rappresentante del principe longobardo
consegnano la pieve al prete solofrano Tuppoaldo.
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Gli
altri documenti di questo periodo insieme a quello
della pieve mostrano una realtà economica già viva e ricca e, per la
possibilità retrospettiva che hanno, permettono di risalire indietro nel tempo.
Intenso
fu il rapporto tra Solofra e Salerno
soprattutto per motivi commerciali. Nella città si trasferirono i possessores solofrani che controllavano l’afflusso
al mercato salernitano dei prodotti delle loro terre. Tra questi c’erano i
prodotti della industria armentizia
solofrana tra cui quelli della concia. Anzi fin da questo
periodo Solofra divenne il punto di riferimento per la concia, che dalla città, centro della
grande Scuola Salernitana, fu trasferita lungo il fiume Saltera-flubio rivus siccus.
Solofra divenne una succursale della concia salernitana
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Al
mercato di Salerno, che raccoglieva i prodotti dell’agricoltura e
dell’artigianato delle zone interne, faceva riferimento il commercio della
Repubblica marinara di Amalfi.
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Solofra e S. Agata nel periodo longobardo
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I documenti di Cava e
di Montevergine che riguardano Solofra e S. Agata
permettono di individuare nella conca due territori: il locum
Solofre autonomo, e quello di S. Agata che invece
faceva parte di Montoro.
Il locum
Solofre non era molto esteso, a sud e ad est era
delimitato dai monti, a nord confinava nella parte alta con Serino e la linea
di confine era segnata dal vallone Cantarelle, nella
parte bassa con S. Agata e ad ovest con Montoro. Di esso
dunque non faceva parte tutto il versante del monte Pergola-S.
Marco appartenente a Serino e in parte occupato da S. Agata.
A Solofra c’erano la
pieve con le sue terre e pertinenze intorno alla chiesa e lungo il fiume fino
ai Balsami che erano tenute da Truppoaldo,
figlio del fu Diletto.
C’era il fondo constantini con le
sue pertinenze delimitato a sud dal fiume, a nord dal vallone Cantarelle, ad ovest da altri beni, mentre ad est c’era la
montagna. Esso occupava un ampio territorio praticamente
i Balsami e il Sorbo messi insieme. Il fondo era un seminativo
arborato con castagni e aree ancora incolte verso la montagna ed era tenuto dai
fratelli Maraldo e Alcoino,
figli di Falcone. La parte di Maraldo era tenuta dal
colono Giovanni, figlio del fu Giovanni.
Ad ovest di questa
masseria c’erano le terre degli eredi Olperti che occupavano
la parte centrale di Solofra.
Un altro fondo si
trovava in località ad cerbitu,
nella parte pianeggiante, era circondato ad est e a nord da altri poderi di
proprietari locali, ad ovest, verso Montoro, con una via pubblica, mentre a sud
era delimitato da un vallone ed da un vigneto. Il proprietario era Maione, figlio del fu Donnello, mentre il colono era Falco, figlio del fu
Alessandro.
Accanto a questo fondo
ce n’erano altri due: uno a nord di Cicero e della
moglie Auria, l’altro ad est degli eredi Sparani.
C’era poi il
possedimento castagnano che si trovava
in località fontane sottane cioè nella parte
bassa di Caposolofra ed era di Giovanni; e c’erano i beni del comes Giovanni, figlio del fu Giovanni che non è il
colono citato sopra; le terre di Giovanni Vallense
date a lavorare a Maginolfo di Romualdo.
Infine c’erano delle
terre poste nella parte bassa possedute da Giovanni, figlio di Landoario Vallense, e da sua
moglie Sichelgrima, figlia del fu
Grimoaldo, e lavorate da Maginolfo, figlio del fu Romualdo.
In questi i fondi
c’erano le case sia dei contadini affittuari che dei
proprietari, magazzini per la raccolta dei prodotti sia della terra e
dell’allevamento e per la loro lavorazione.
Sia
questi i fondi che gli individui
costituiscono la prima realtà di Solofra di cui si ha precisa conoscenza. Ad essi vanno aggiunti altre persone come i testimoni che
furono presenti agli atti e cioè Giovanni presbiter,
Giaquinto, Godeni e Disio, il fideiussore Sellitto figlio di Andrea, il giudice Romualdo e il notaio
Iso. Bisogna infine considerare tutti coloro, come i lavoratori di Truppoaldo e come quelli che a vario titolo rendevano
possibile la vita della comunità.
I fondi erano
coltivati sia direttamente dai proprietari che dai
coloni, ma c’erano anche proprietari che risiedevano altrove molto
probabilmente a Salerno, che era un centro mercantile, come il proprietario del
fondo ad cerbitu che mandava i suoi uomini a
ritirare i prodotti della terra. Anche il proprietario
del fondo constantini prevede un suo allontanamento
dal fondo che consegna, per la sua parte, al colono. I contratti erano
stipulati sul posto alla presenza di testimoni, di un agrimensore del notaio
che scriveva l’atto e del giudice che ne assicurava la
validità. In questo periodo a Solofra non c’era la curia, il luogo delle
attività legali per cui esse avvenivano nella pieve
che era dunque il luogo delle assemblee dove si discutevano i problemi comuni.
La chiesa quindi era un centro socio-economico-religioso.
Si può individuare sul
territorio anche un’essenziale struttura viaria costituita da un asse principale che lo attraversava da sud-ovest
(provenendo da Montoro) a nord-est (passo di Turci). La strada proveniva da
passatoia costeggiando a sud Cortina del Cerro, attraversava il fiume alla località
che poi si chiamerà Toppolo e si immetteva
sulla platea (la piazza) la quale in una parte si chiamava Sortito (Capopiazza) da dove si usciva verso Turci (via San
Giacomo).
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Col termine di Sancta Agathe si indicava nel
periodo longobardo un ampio spazio che comprendeva le balze del S. Marco, il
passo di Castelluccia, le colline di Montoro fino a Banzano e che si estendeva in pianura fino a Chiangarola. Ad est giungeva alle falde meridionali del Pergola fin sotto il castello che faceva parte del
complesso difensivo di Serino.
Questo locum era chiaramente definito. Nella zona
pianeggiante tra Torchiati e Solofra, c’erano due ampi territori che occupavano
tutta la valle e che erano il galdo appartenente,
insieme ad altri fondi di Montoro, alla famiglia del
principe di Salerno Gisulfo e il fondo a la selba che
era un vasto territorio, appartenente anch’esso alla famiglia dei principi
longobardi ma anche alla chiesa di S. Massimo. Era diviso in "selva
grande" e "selva piccola", e giungeva fino a Le
cortine. Nel 1043 una parte era tenuta dal colono Roregrimo, figlio di Maraldo.
Emerge su questo
territorio una realtà silvo-agro-pastorale con le
selve di castagni e di querce che scendevano fin nella zona bassa divenendo però più rade per la presenza dell’arborato e del
seminato. Tra le colture arboree si individua inoltre
il frutteto - mele, pere, noci, avellane - diffuso era anche l’oliveto, mentre
nella parte bassa predominava la vite.
L’agricoltura era
strettamente legata alla pastorizia, di cui era parte integrante ed ad essa radicata secondo la caratteristica di tutta la zona.
Tra le pertinenze devono intendersi non solo gli animali, che permettevano il
lavoro dei campi, ma anche quelli dell’allevamento, che sostenevano e
arricchivano l’agricoltura. Nella conca di Solofra il legame
pastorizia-agricoltura, d’impronta sannita, emerge dai dati documentali sia per
la cura con cui si prescrive la buona tenuta delle siepi intorno ai campi per
non farvi entrare buoi e cavalli, sia per i prodotti che
le terre della pieve danno alla curia salernitana. Truppoaldo infatti gode di una parte dei proventi dell’allevamento e
del lavoro dei campi.
Si allevavano equini, pollame, api, bovini questi ultimi usati come mezzo
di pagamento. Già in questo periodo inoltre era sviluppato l’allevamento dei
maiali favorito dall’abbondanza della ghianda. Era praticata la lavorazione
della carne di maiale per la produzione di "ossa persupta" e "longa",
che erano prodotti per il pagamento dei tributi.
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Documenti solofrani del periodo longobardo
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Da M.
De Maio, Alle radici di Solofra, Avellino, 1997
Per prelievi totali o parziali citare lo studio indicato
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