Massimiliano Murena
Muro 1728-Napoli 1781
Figlio
di Ferdinando e di Teresa de Cittis di Muro
Giureconsulto e filosofo solofrano-napoletano
Partecipò al movimento riformatore del Settecento napoletano
Fu un moderato che pensava di rinnovare le strutture della monarchia e della religione con una mediazione tra tradizione e modernità.
Nel secolo del cartesianesimo si
pose il problema dell’origine della legge che regola gli atti umani, indice
dell’aspirazione ad uno stato di diritto, affrontandolo in diversi scritti.
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Pubblicata nel 1761
nella "stamperia simoniana", ricevette, per gli argomenti
affrontati, la "licenza de’ superiori" e l’"imprimatur"
ecclesiale. Nelle note "al leggitore" afferma che è stato spinto a
riflettere su un argomento in cui "antichi pagani o moderni
eretici" "si sono discostati dalla nostra religione". Il
Murena conduce la sua argomentazione cercando nel pensiero e negli eventi del
passato una conferma al fondamento naturale dell’ordine sociale. |
Per
lui le azioni umane sono regolate da un diritto naturale, che viene prima di
ogni organizzazione politica e giuridica e che l’uomo deve seguire e difendere.
Sono diritti naturali, dice, molti diritti umani persino quelli del commercio.
La
legge naturale indica al sovrano quali sono i suoi compiti:
"la
salute dei cittadini", "l’esercizio della giustizia", "il
buon governo", "la tutela del popolo"
e
impone al suddito di combattere tutto quello che è contro natura, quindi i
privilegi che diventavano soprusi, le disuguaglianze e tutte le prevaricazioni
esistenti.
La ribellione diventa una legge naturale
Un’opera che risente dei tempi nuovi
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Il Murena sostiene
l’esistenza di un diritto naturale, razionale ed anteriore ad ogni
organizzazione politico-giuridica. L’impostazione meramente giusnaturalistica è
inquadrata in una visione religiosa, infatti, dice il Murena, la legge naturale
è creata da Dio e dipende solo dalla ragione, che è in grado di conoscerla e di
seguirla. Il diritto naturale è, dunque, una questione di ragione; la giustizia
è "legge" della ragione e "basta che sia palesata" da essa
"per obbligare l’uomo”. Dipendendo solo dal suo creatore la ragione umana
è "libera" e "autonoma", e libertà e autonomia sono
condizioni indispensabili per ogni progresso umano. Tale problema lo portò a
cimentarsi con il padre del giusnaturalismo, Ugo Grozio - uno degli autori del
Vico - di cui condivise la proposizione che il diritto naturale è legge vitale
e primordiale dell’uomo, scolpita nel suo cuore, ma non condivise la tendenza
del pensatore fiammingo a separare i due elementi: "legge di natura"
e "legge divina"; e con l’illuminista tedesco Samuel Pufendorf del De
jure naturae et gentium (1672), di cui recepì il concetto che le società
civili poggiano su convenzioni, che non possono essere in opposizione col
diritto naturale. Non fu d’accordo, invece, con gli estremi esponenti di questa
corrente, quando affermavano il distacco dalla religione, perché, dice il
Murena, tenendo presente Leibniz nel suo tentativo di fondare la giustizia
nella natura immutabile delle cose, che il diritto naturale è voluto da Dio,
che è "il Legislatore", ed è posto nell’uomo, che ne è l’oggetto, con
la ragione. Dunque dalla volontà di Dio nasce la legge, e "con essa il
buono, e l’uomo ha solo questa volontà da seguire ed è in grado di farlo col
solo strumento della ragione”. Sulla strada di un accesso a Dio per via di
ragione ("della cui esistenza l’Uomo non è affatto in dubbio, parte colla
ragione del principio, e tutto colla relazione delle cause" [...]
"non solo la ragione ma li sensi stessi convincono" della esistenza
di Dio), il Murena afferma che "il dominio che ha Dio sopra dell’Uomo
[...] nasce dalla ragione della sua origine", per cui l’ateo, che
"non conosce Dio, non si toglie dal suo dominio essendo legge intrinseca
che ve l’obbliga"; che "l’errore della sconoscenza di Dio è
volontario", infatti "ogni uomo di sana mente abbastanza lo conosce
co’ lumi naturali per mezzo della ragione"; che "chi non si serve
della ragione, pecca nella legge naturale e il peccato è d’ingiustizia";
che "negare Dio" è "peccato contra
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Altra opera è Trattato delle leggi dell’onore, pubblicata
nel 1769 dal Raimondi.
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Approfondendo nel Trattato
delle leggi dell’onore il concetto della legge di natura, che obbliga
ciascuno ad elevare le proprie azioni fin dove l’ingegno e le mani glielo
permettono, il Murena afferma che "la virtù umana è una parte della forza
regolatrice dell’universo", per cui è "irregolare, tirannico e fiacco
quel governo nel quale il meritevole venga escluso da qualsivoglia sua
parte". Genovesianamente dice che la disciplina dell’anima è disciplina
della volontà, e significativamente sottolinea che la grandezza degli inglesi
deriva dal fatto che sanno trattare gli uomini per il loro merito, mentre la
miseria dei paesi è data dal fatto che "i nobili sono semidei e tutti gli
altri semibruti". Ed ancora afferma che "fallisce lo Stato per la
prodigalità e lo scialacquamento delle rendite"; che si devono distribuire
giustamente gli onori, altrimenti "l’immeritevole ne fa cattivo uso",
e si tentano mezzi immeritevoli per averli"; che i principi dovrebbero
creare nobili solo quelli "che sono virtuosi e che agiscono per il
pubblico bene"; e dei ministri dice che dovrebbero avere un’unica virtù:
"il consiglio e la mediazione". Alla "civil tirannide", che
opprime la virtù e la dignità dell’uomo, dice che è vano avvilire l’uomo
virtuoso, "perché la fame spande e conserva quell’onore" "che
non si può cancellare per impostura", e perché "la forza di tal
diritto da sé gli sostiene fra le menzogne e le oppressioni". Se è vero
che "la quiete delle repubbliche non consiste tanto nel vero quanto nel
certo", è anche vero che in due modi si perde nello Stato l’onor civile:
fare certe azioni dichiarate disonorate ed esercitare offici vili ed
infami". Stiano dunque attenti questi Stati che, se l’onore viene offeso,
allora nasce l’ira, la vendetta, lo sfogo. È una significativa analisi di una
situazione che ha toccato limiti estremi cui l’autore oppone una società
idealizzata che si staglia su uno fondo tradizionalistico.
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Secondo il diritto
naturale e civile il Murena affronta ancora il problema della guerra e della
difesa pubblica e privata nella dissertazione Delle pubbliche e private
violenze, pubblicata a Napoli dai fratelli Simoni nel 1766 che ebbe
il giudizio positivo del Genovesi per l’imprimatur.
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I Doveri
del Giudice è una dissertazione che a pieno titolo entra a far parte
dell’Illuminismo napoletano e si lega direttamente all’opera maggiore del
Murena. |
Il Murena pone la giustizia alla base della
felicità delle genti e addita tutte le responsabilità della giustizia corrotta,
vendicativa ed ingiusta, sottolineando, anche qui, uno dei mali della società
del tempo.
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Come "offiziale
della real segreteria di Stato di Giustizia e Grazia di Ferdinando IV",
scrisse una Vita di Roberto re di Napoli, pubblicata a Napoli nel 1770
presso Gravier. Un libro storico che risente dei tempi nuovi, in cui
vichianamente afferma di aver scelto un argomento esemplare, utile "pel
governamento comune della vita civile" per toglierla dall’oscurità
"de’ fatti passati", e di volerla scrivere "scevra da ogni
riguardo", secondo "la felice franchezza de’ nostri giorni e i
chiarissimi lumi della moderna letteratura"; e perché in quel "tempo
prosperoso" la figura del re angioino richiamava il "re
nazionale" che "ci signoreggia e governa con santa manoÜ
Nell’opera anche sottolinea, non dimenticando lo stato in cui versava il
meridione, che i principi devono "sacrificare le proprie passioni
all’utile dello Stato".
Fu amico del
Genovesi con il quale condivise l’opposizione all’atteggiamento antireligioso
degli illuministi e la convinzione che la ragione non è contraria alla
religione, come pensavano tanti altri illuministi, avvertendo, dunque, il
problema del loro accordo, che affrontò in uno scritto del 1776 Panegirico
della santissima religione cristiana cattolica pubblicato a Napoli nella
stamperia Raimondiana, in cui afferma che la ragione è "ancella della
divinità", creata da Dio nell’uomo che è "animale ragionevole"
attaccando l’ateismo dei suoi tempi
Non
visse gli eventi della Rivoluzione del 1799 ma contribuì col suo
pensiero a prepararli anche se, come gran parte dell’intellettualità
napoletana, non si mosse in opposizione alla corona pensando di rinnovare la
monarchia dall’interno.
Apparteneva
ad una famiglia impiantata a Solofra fin dal XIV, che aveva sostenuto il
governo degli Orsini di cui erano stati erari, e che ora con questo suo
rappresentante si pone in opposizione alla feudalità vista come il vero
ostacolo al rinnovamento.
A Napoli fece parte
dell’Accademia Palatina (Società storica delle Province napoletane, V, p. 353)
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