Tradizioni solofrane

 

TRADIZIONI PASQUALI

 

Il triste periodo della Quaresima prepara nello spirito e nel corpo alla Pasqua e alla precedente Settimana santa che comincia con la Domenica delle Palme.

La cerimonia religiosa, che ricorda l’entrata di Gesù in Gerusalemme, è accompagnata dalla tradizione del ramoscello d’ulivo che i bambini portano in chiesa per la benedizione. Spesso il ramoscello è ricco di dolcetti  - i tondi tarallini ricoperti di naspro bianco -  non mancano le uova di Pasqua. Per altri basta un grosso ramo d’ulivo saccheggiato dagli alberi della zona. Quei ramoscelli saranno durante tutto l’anno nelle case un segno di pace.

Comincia la settimana di passione, mentre nelle case iniziano le pulizie di primavera e si controlla la crescita del grano, che è stato seminato per tempo in contenitori bassi pieni di terreno e posti in luoghi oscuri e caldi per avere una piantina gialla ed alta che ornerà il sepolcro di Cristo.

Nell’aria silente di un paese che non conosce ancora i rumori moderni vagano le note prolungate e tristi del corno che accompagnerà la processione del Venerdì Santo. Il fedele, che dovrà suonare lo strumento in quella occasione, si addestra per poi esibire, durante la processione, un lungo, accorato e dolente lamento, come voce che piange lo scempio fatto a Cristo, sottolineato da un secco profondo colpo di tamburo, che mette in risalto tutta la tragicità dell’evento.

Giunge tra questi preparativi il giovedì santo e la cittadina è pronta per lo struscio, cioè per il passeggio dei paesani nei vestiti nuovi della festa per le vie del paese lungo le quali si trovano le chiese dove sono stati allestiti i sepolcri di Cristo.

Dopo la lunga e suggestiva cerimonia liturgica, che termina con la deposizione del Corpo di Cristo nel sepolcro, è uso che si visitino i sepolcri, almeno tre volte, recitando prescritte preghiere. Ogni chiesa ha il suo sepolcro per addobbare il quale sono stati prelevati garofani ed interi rami di camelie dai giardini del quartiere. Ci sono poi lumini e i gialli ciuffi dei lunghi steli delle piantine di grano, che, ornati di fiocchi o intrecciati o semplicemente spioventi creano un magnifico colpo d’occhio.

 

 

La processione del Venerdì santo.

 

Il giorno dopo c’è la festa più caratteristica del folclore solofrano in grado di competere con quella grandiosa del patrono.

Questo giorno di tristezza per tutto il mondo cattolico è narrato dalla pietà solofrana in un rito che conserva un sapore tutto medioevale.

Dal tardo pomeriggio si snoda per le vie del paese la lunga teoria dei Misteri della Passione di Cristo, una suggestiva processione che si svolge fino a sera inoltrata e s’inerpica fin sugli alti rioni risultando, così certamente, la più lunga.

Il sacro corteo denominato processione di Gesù morto ha lo scopo di rappresentare la passione di Cristo ma si trasforma, per la ricchezza di personaggi e di significato, in una Sacra rappresentazione popolare.

Elemento caratteristico sono gli abiti indossati dai partecipanti, lunghe tuniche bianche terminanti sul capo in un cappuccio a pizzo con due fori per gli occhi, tenute in vita da un cordone. Sono i cosiddetti misteri della passione di Cristo poiché ogni personaggio, che indossa questa tunica, reca un segno di quella passione, dai chiodi che trafissero le mani e i piedi, alla corona di spine, alla spugna imbevuta di aceto, alla lancia che trafisse il costato del Redentore. Ci sono ancora le tenaglie e il martello, c’è il gallo che cantò tre volte al triplice tradimento di Pietro, la camicia del Cristo macchiata di sangue, le catene e le funi del flagello, fino alla pesante croce. Ogni incappucciato ha accanto uno o due bambini che recano una lanterna con un cero acceso per illuminare il cammino nella notte. Queste luci rendevano suggestivo il lungo corteo quando l’elettricità non ancora illuminava le vie.

Tutto questo allestimento scenico riempiva interamente le vie strette dei rioni antichi. Quelle tremule fiammelle nella notte rivelavano le bianche ombre degli incappucciati, che or comparivano or scomparivano nelle ampie ombre in cui si intuivano più che vedere delle presenze. Avanzava il corteo con il lugubre richiamo del corno, con le dolenti note della banda, con il pianto del canto popolare. Poi il catafalco col Cristo straziato, quel volto di dolore, quelle spine di sangue. Tutto questo, nello scarno ambiente delle vie antiche, creava un’atmosfera di pesante tragedia ed, anche se in modo sfocato, esprimeva bene quella che accompagnava tali manifestazioni in tempi lontani.

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La processione del Venerdì santo è una processione-dramma, in cui si sono fusi i due elementi. A questo tipo appartengono anche i cortei carnevaleschi. Essa esprime l’esigenza del popolo di dare un’immagine reale al grave evento che quel giorno ricorda, perciò fin dal Medioevo ha assunto forme di drammatica rappresentazione in cui il fedele è spettatore ed attore nello stesso tempo. Accanto ad essa tutta una serie di atti che hanno lo scopo di sottolineare il giorno di lutto (Toschi). I flagellanti laici per esempio, che si diffusero nel XIII secolo, per espiare le colpe della comunità ripercorrevano le vicende della Passione di Cristo indossando l’abito con cappuccio e corda in segno di castità. Il bisogno di partecipare alle sofferenze del Cristo che spingeva a riprodurre realisticamente la Passione risponde anche a un vero e proprio meccanismo di identificazione nel Salvatore, al desiderio di partecipare in proprio all’opera della salvezza, attraverso l’espiazione dei propri peccati e di quelli dell’intera comunità.

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In tempi più recenti nella processione sono stati introdotti elementi nuovi che ampliano il discorso storico-religioso. Sono personaggi in costume che raccontano figurativamente altri momenti della passione, in episodi dislocati nel tempo, ma fermi nello spazio breve del corteo.

Ci sono i dodici apostoli, i farisei con il Gran sacerdote. C’è Giuda con la borsa delle monete, pronto al tradimento. Ci sono i soldati romani, che scortano Gesù incatenato prima della condanna. Viene poi Pilato che si lava le mani e di nuovo Gesù curvo sotto il peso della Croce che cade e si rialza e che viene aiutato dal buon Cireneo. C’è la Madonna con le pie donne che segue Gesù verso il Golgota. I vari episodi sono legati sapientemente in un’unica rappresentazione plastica, ma viva nell’attualità, distanziata nel tempo, ma non nello spazio.

Ecco quindi Gesù sul letto di morte, il corpo straziato e sanguinante, sul viso il sublime senso del sacrificio. Recano a spalle il sacro giaciglio dieci portatori con una lunga veste a righe ed un alto bastone in mano che ne accentua il grave incedere. Dietro le autorità in mesto corteo, una banda musicale che manda le note di un inno funebre.

Segue il simulacro della santa Vergine Addolorata vestita di nero, il cuore trafitto da dodici spade.

Infine la folla dei fedeli che canta a gruppi

Primo gruppo:

Gesù ch’è morto in croce

per i peccati miei.

Perdonami, Signore,

perdonami, per pietà.

 

Secondo gruppo:

0 Madonna addelurata

stai afflitta e sconsolata

ai piedi della croce

cercando pietà.

 

 

Al primo gruppo risponde il secondo, uniti entrambi nel ricordare l’uno il sacrificio di Cristo, l’altro il dolore di Maria.

I fedeli recano grossi ceri accesi, che nelle lunghe e strette viuzze accentuano la misticità dell’episodio che si vuol ricordare. Nelle vie principali, invece, c’è il contrasto tra la mestizia della rappresentazione e le grosse luci dei negozi, tra cui spiccano le macellerie che espongono gli animali uccisi di recente, oggetto del pranzo pasquale. Hanno il vello scuoiato a metà e sono ornati di camelie rosse e bianche. Altri capretti belanti, i piedi legati, giacciono ai lati delle botteghe. Completano l’addobbo sopressate, salsicce, pezzentelle e cervellate tutti prodotti locali della tradizione pasquale che attendono la benedizione del sacro corteo.

Oggi si suole illuminare i balconi al passaggio del corteo con bianche cascate di bencali dando alla manifestazione un’aria più festiva e moderna.

Terminata la processione la gente suole recarsi in chiesa a baciare il corpo santo e prelevare dal sepolcro di Cristo un garofano o una camelia da conservare in un cassetto come reliquia.

 

Il sabato santo

Il sabato santo una volta era un giorno giulivo poiché si attendeva, a mezzogiorno lo scampanio festoso che di chiesa in chiesa, annunziava la Resurrezione di Gesù. Si diceva spara la gloria e tutti si affacciavano al balcone interrompendo le attività, si facevano il segno della croce, si pregava anche in ginocchio.

Ecco il racconto dell’ora della Resurrezione nel 1913.

Ora di alta giocondità serena, come altrove, forse più che altrove,è, in questa nostra magnifica valle irpina, l’ora della Resurrezione. Cento campane al segnale della campana maggiore, rompono giulive da cento parti, intrecciando loro squilli festosi in un concerto vasto, vario, disteso, trionfale. Dopo un silenzio penoso di due lunghi giorni, la prima a lanciare, nell’aria dolce della primavera adolescente l’annuncio gaudioso: è la grande campana della Collegiata. Questa come presa da un impeto folle, si dimena di qua e là in vetta a quel massiccio e quadrato colosso di pietra che è il campanile di S. Michele, mostra, per un momento, nell’arco dei finestroni, l’ampia sua bocca rotonda e vibra nell’aria un rimbombo ponderoso. Svegliasi al rumore una sua vicina dal timbro d’una più grave armonia, accordandosi all’altra in bella cadenza ritmica. Più giù, due campanine chiacchierine si danno a garrire in vivace gaiezza infantile. Entra, poi, nel coro, l’umile campanella dei Cappuccini, tutta sola, nella remota insenatura di una montagna. Lenta, flebile, velata ripete la novella gioconda alle selve e ai valloni, alle greggi e ai falchi: e le selve con l’eco delle caverne, le greggi con le campane appese al collo rispondono: Osanna, Osanna: ecco la Pasqua! Indi scoppia il trillo vivido, celere, cristallino delle piccole campane di Santa Teresa. Sopraggiunge con l’espressione d’una gioia lenta e tranquilla, la campana di S. Agostino. Or si, or no, su un’onda lunga, tenue, inerte, giungono pure i concerti dei due villaggi di Sant’Agata. Si ridesta, ultimo il sonnacchioso campanone della Fratta che sbadiglia tuttavia da tutte quattro finestre. E il cielo, intanto è irrigato di latte e fiorito di giacinti. La terra non meno (da "Le Rane").

 

In una prosa dalla liricità spontanea e sentita, l’autore ridesta ricordi che sembravano sopiti d’un suono giulivo di campane in un incalzare trascinante di rintocchi.

C’era tutto un cerimoniale in quel trionfale momento: l’ordine d’entrata delle campane nel festoso concento, era conosciuto precedentemente ed individuato di volta in volta in una gara non meno gioiosa. Quelle campane divenivano la voce della pietà religiosa di tutta la valle che si univa nell’inno di gloria alla vittoria di Cristo sulla morte.

Da notare come all'inizio del secolo Solofra presentasse una realtà agricolo-pastorale che ora è completamente scomparsa.

 

Pasqua

La domenica di Pasqua serba gli auguri, il pranzo pasquale in cui non mancano piatti di rito. La pizza rustica fatta con uova e salame, il pane con le uova sode, il famoso tortano. Ma la cosa più caratteristica, che riempiva le case di odori di garofano, cannella e vainiglia, era la pizza di grano. Non se ne preparava una ma tante, poiché se ne dovevano offrire ad amici e parenti.

Il pranzo pasquale aveva una nota ormai perduta, poiché era d’abitudine che il capofamiglia benedicesse il desco con un ramoscello d’ulivo bagnato in acqua santa presa in chiesa durante la funzione del giovedì santo.

Allora le poesie e le letterine dei bimbi avevano un diverso valore.

 

Pasquetta

Il giorno dopo Pasqua è pasquetta, si andava sulla Scorza, la località montana più caratteristica di Solofra, solitaria e remota, tra castagneti e acqua fresca, quando non ancora era stata invasa dalla cittadina in espansione.

Il martedì dopo Pasqua si concludevano le festività con un doveroso pellegrinaggio al Santuario dell’Incoronata, che sovrasta la cittadina di Montoro Superiore.

 

 

 

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