Gregorio Ronca

Dalle Antille alle Gujane e all’Amazzonia

("Rivista Marittima", Roma, 1908)

N. B. Sono state eliminate solo alcune parti relative alle tabelle presenti nel testo che vengono indicate di volta in volta.

 

Avvertenza: Nel pubblicare queste mie note particolari intorno al viaggio della R. nave "Dogali" da me comandata dal febbraio del 104 al luglio del 1905, desidero richiamare l’attenzione del lettore sulla qualifica particolare che ho dato alle note stesse, perché esse nulla hanno, né possono avere di comune con i miei rapporti ufficiali, onde io espongo le mie impressioni o le mie osservazioni come le sentii sui luoghi e come un qualsiasi viaggiatore. Gregorio Ronca (Capitano di Vascello)

 

VERSO LE ANTILLE

 

Armai il "Dogali" a Venezia alla fine del febbraio 1904 e nell'aprile seguente portai il Ministro degli Affari esteri, S. E. Tittoni, al Convegno di Abbazia.

 Lo scopo ed i risultati politici di questo breve viaggio del nostro Ministro degli esteri ormai sono troppi noti, perché io abbia ad occuparmene qui: dirò solamente che le mie impressioni del momento si possono facilmente riassumere. Il Ministro, nello scendere a terra, per visitare il collega austriaco, aveva l'aria di chi, recandosi ad uno scontro, ha piena coscienza delle sue forze, ma è pur compreso del grave atto che sta per compiere: al ritorno a bordo appariva sereno come persona che ha compiuto con soddisfazione cosa di grande importanza. Ora parmi che queste impressioni non fossero errate.

Finito lo scambio delle visite politiche, lasciammo l’incantevole rada, in cui ci eravamo fermati meno di due giorni, e ci recammo prima ad Ancona per sbarcare il Ministro, e poi a Gaeta e a Napoli per riunirci alla squadra. Avemmo così occasione di assistere alle mirabili feste che Napoli, col suo nobile e schietto entusiasmo, aveva preparato per dire ai vecchi amici di Francia, da qualche tempo perduti di vista, ma mai dimenticati, la gioia di rivederli. E ci fu dato di ascoltare anche le nobili parole che S. M. il Re rivolse al capo della repubblica amica, che suonarono nel mondo come un giulivo inno di pace, e che per noi, marinai del "Dogali", significarono, data la sicurezza di lasciare la patria in piena tranquillità, la possibilità di dedicarci interamente alla nostra campagna all’estero, a quelle missioni civili che incombono alle navi da guerra nel fecondo periodo della pace.

Prima però di partire avemmo l’alto onore di ricevere sulla nostra nave la visita di S: M: e di sentirci augurare la Lui fortuna per il nostro viaggio. E quell’augurio ci rimase impresso nel cuore come il più caro ricordo della patria nelle lunghe, lontane peregrinazioni, ed in ogni circostanza ci ispirò sicurezza nel successo e ci fu di incitamento al dovere.

Lasciammo quindi l’Italia con l’animo pieno di speranze, ed a Gibilterra, dove prima approdammo, ci si presentò l’occasione di assistere all’arrivo della Squadra inglese ammirevole per ordine e potenza, e composta di ben 67 navi.

Le principali di queste passarono a poca distanza dalla mia, e mi fu possibile leggere i loro nomi scritti a grandi lettere d’oro sulle poppe. Ognuno di quei nomi ricordava un eroe od una vittoria, onde mi pareva di vedere passare la gloria dell’Inghilterra, e che la sua storia grandiosa si svolgesse dinanzi ai miei occhi. Chiuso negli stretti confini delle sue isole il popolo inglese visse, quasi povero e poco temuto, finché per spontaneo impulsi si slanciò sul mare, e col potere navale conquistò gloria, grandezza e potenza meravigliose. Nel mondo infatti, è sempre prevalente chi sul mare sa affermarsi, ed in quel momento sognai con più entusiasmo il giorno in cui questo giovane e forte popolo d’Italia, che seppe imporre all’Europa attonita le sue aspirazioni alla libertà, saprà imporre a se stesso la volontà di raggiungere una grandezza pari al suo valore, e quindi vorrà possedere e possederà una marina capace di fargli acquistare nel mondo l’influenza cui ha diritto.

Mentre le ultime navi pigliavano il loro posto cadeva la sera, e nella incerta luce tutte quelle navi, serrate pressi i piedi del vecchio monte turrito di Gibilterra, acquistavano forme fantastiche ed ispiravano confusi pensieri di fragorose battaglie e di splendidi trionfi. Ed appena l’oscurità fu piena, parve che la lotta fosse lì per impegnarsi, perché vidi passare sulle navi i bagliori di una luce lontana come canne di cannonate.

Erano i bagliori del fanale di Ceuta che arrivavano fin lì, quasi a rammentare che uno dei più grandi pericoli per la pace è in quell’Africa misteriosa, che vedevo perdersi nel fosco orizzonte di quella suggestionante notte. Invero allora già si destavano a Tangeri i prodromi dei fatti che tennero recentemente assai agitata l'Europa, la cattura dell'inglese Varley e dell'americano Perticaris per opera del brigante Raissuli, teneva molto agitati gli animi, e la politica se ne avvantaggiava per mille svariati interessi. Notevole, fra gli altri era il fatto che una forte Squadra americana si trovava sul posto, assai lieta forse di aver qualcosa da fare nel vecchio mondo, ed il brigante, conscio dell’agitarsi delle nazioni, acquistava ogni giorno maggiore baldanza.

L’arrivo quindi di ogni nuova nave faceva crescere le sue pretese, e più gli Americani diventavano esigenti più egli si persuadeva che a chiedere e a pretendere aveva buon giuoco.. Noi però non facilitammo questo giuoco, perché, dopo Gibilterra, ci fermammo a Tangeri, per poco tempo, e proseguimmo per l'arcipelago delle Canarie, dove, fatta una breve sosta a Las Palmas, intraprendemmo la traversata dell’Oceano, diretti a Barbados. 

A questo punto è bene che io tracci brevemente il mio itinerario.

 Le istruzioni che mi furono consegnate al momento della partenza, e che, se mi fosse lecito, vorrei definire un modello di sapienza civile e militare, mi ingiungevano, fra le altre cose, di visitare le Antille e l'America centrale, regolando però l'itinerario e scegliendo, i porti da toccare, in modo che le visite ad essi, oltre a soddisfare anche alle nostre esigenze e ai nostri interessi generali, riuscissero utili alla prosperità nazionale.

Lusinghiero era quindi il compito che mi si assegnava, ma grave assai, e nel tentare la soluzione del difficile problema, pensai che tra i fatti che concorrono a formare la nostra prosperità e di cui io poteva occuparmi, erano da annoverare il commercio e quella meravigliosa attività emigratrice della nostra gente; mercé la quale la nuova Italia ha potuto spargere per il mondo 4 milioni dei suoi figli senza risentirne danni anzi. traendone benefizi. Ma più che altro mi parve di dover studiare gli interessi della emigrazione, perché nel maggior numero dei casi avviene che la espansione del nostro commercio si manifesta dove essa si è stabilita. Noi quindi non possiamo dire come gli Inglesi che il commercio segua la bandiera e per ciò ci conviene cercare nobilissimo compito questo tra quelli che competono alle navi da guerra che l’emigrante segua la bandiera, perché ad essa possa poi utilmente seguire il commercio.

Si suole sostenere che non è possibile sottomettere l'emigrazione a regole stabilite; ma se ci limitassimo ad indirizzare i migliori verso le terre più propizie, sarebbe facile far sparire la detta impossibilità, perché i loro successi invoglierebbero gli altri a seguirne l'esempio. E ciò avverrebbe tanto più facilmente in: che è un fatto dimostrato che gli emigranti (se gli speculatori non li attraggono altrove) seguono le vie prese dai loro compaesani. Si potrebbe quindi raggiungere il gran risultato di sommare le forze e gli sforzi dei nostri coloni e farle tendere verso scopi determinati, mentre ora sono spesso in contrasto fra loro E così facendo in un tempo non lontano potremmo avere al di là dell’Oceano interi paesi, come S. Paolo, colonizzati quasi esclusivamente dai nostri, e quindi uniti a noi con legami indissolubili di interesse e di sangue. Si avrebbe perciò in essi una vera ricchezza per noi e si compirebbe col lavoro una conquista civile non meno gloriosa. di quelle che l'Italia nostra compì prima con la spada e poi con l'ingegno, nelle sue precedenti manifestazioni.

Mi parve però, a priori, ed ebbi occasione di convincermene poi, che l'America centrale ed il Venezuela, troppo insalubri per l'infierire di malattie letali ed esotiche, non possano interessare, dal punto di vista dell'emigrazione nostra e che similmente non interessano le Antille, per le speciali condizioni del lavoro locale, onde i paesi veramente da studiare, perché mai, o assai scarsamente, tentati, erano le Guiane e l'Amazzonia. Delle Antille quindi mi bastava visitare solamente qualcuna per vedere se vi potesse essere un poco di posto per il nostro commercio, e per osservarne le differenze dipendenti dalla loro varia nazionalità.

 Scelsi perciò, nelle piccole Antille inglesi, Barbados e Santa Lucia, ed in quelle francesi la Martinica. Tralasciai le Antille danesi, perché ora in decadenza, e nelle grandi Antille, scelsi Ponce nell'Isola di Portorico, o nel nuovo possesso nordamericano, Port-au-Prince nelle Repubbliche nere, Santiago e Avana nella giovane repubblica di Cuba, e Kingston nell'isola di Giamaica. E tutto ciò stabilii di fare rapidamente, perché il mio programma mi spingeva a tornare a Sud al più presto, per rifornirmi a Trinidad ed iniziare subito la visita alle Guiane e all’Amazzonia, risalendo l’Orenoco (Guyana venezuelana), il Demerara (Guyana inglese), il Surinam (Guyana olandese) e finalmente, poiché nei fiumi della Guyana francese non c'era acqua per la mia nave, l'Amazzonia. E verso l’immenso bacino di quest'ultimo mi sentivo attratto maggiormente, perché su di esso presto si porterà l'attenzione di tutto il mondo civile, e mi parve un bene che fra le prime ad arrivarci fosse la nostra bandiera. 

Premesso così il mio programma che fortunatamente ebbi modo di svolgere per intero, salvo per ciò che riguarda l’Orenoco, perché quando vi arrivai la stagione era troppo inoltrata, e non c’era più fondo sufficiente pel "Dogali", ritorno senz’altro al racconto del viaggio a cominciare da Barbados.

Barbados

Quest’isola ha la forma di una pera, con la base (larga al massimo 12 miglia circa) a Sud, e va assottigliandosi gradatamente verso Nord fino a 'ridursi ad una larghezza di 5 miglia. La massima lunghezza compresa fra South Point e North, Point è di 28 miglia, e la sua superficie è di 106,470 acri inglesi (un acre vale circa 0,004 kmq), di cui 32,470 coltivati a frutteti, orti, ecc.; 10.000 tenuti a pastura, 35.000 piantati annualmente a canna di. zucchero ed i rimanenti tenuti in riposo o in via di avere la canna, tagliata, oppure di essere preparati per la raccolta del prossimo anno. Si può quindi dire che tutta l'isola è co1tivata, onde essa é una delusione per il navigante che sogna, le meravigliose foreste del tropico. Ed, invero. sono oramai trascorsi dei secoli dacché furono abbattuti i suoi alberi giganteschi, ornati da. lunghe frange di liane, quasi ricche barbe cadenti da esse, e che suggerirono agli immaginosi marinai portoghesi, che primi. li videro,. il nome attuale dell'isola.

Questa solerte opera di coltivazione fu iniziata dagli Inglesi perché gli Spagnoli, che seguirono i Portoghesi, rispettarono gli alberi, ma distrussero gli abitanti, con. quella politica. che fece segnare col sangue di 15.000.000 di Indiani il loro cammino. Gl'Inglesi perciò, nel 1605 la trovarono disabitata, e ciò fu causa che vi si potessero stabilire senza spargimento di sangue. Questo fatto, abbastanza notevole nella storia coloniale, fu auspicio di fortuna per la nuova colonia, che prosperò rapidamente ; ma col volgere degli anni le lotte interne ed esterne non mancarono anche ad essa. Le prime ebbero origine dalle rivalità dei Lords che se ne contesero il possesso, dalle guerre civili della madre patria che si ripercossero anche nel suo seno, e dalle agitazioni degli schiavi; le seconde derivarono dalle guerre inglesi, perché i coloni fedeli sempre alla Corona, vi concorsero come meglio poterono, e videro spesso nella loro baia di Carlisle poderose squadre. Vi fece sosta anche Nelson, quando compì la famosa crociera delle Antille, ed i coloni memori forse di quella visita, eressero una statua al glorioso ammiraglio, e chiamarono Trafalgar la piazza in cui sorse. Ma ciò menoma, a mio giudizio, l'importanza del ricordo. Nelson fu grande a Trafalgar, ma la Storia ricorda ammiragli che lo valgono in imprese simili, e non può sostenersi che la tattica, da lui vittoriosamente applicata, fosse, nel suo concetto fondamentale, sorta unicamente dal suo cervello. Nella crociera delle Antille, invece, egli si rivelò in tutta la grandiosità del nome di ammiraglio, ed al suo spirito d'iniziativa dovranno ispirarsi i marini di tutti i tempi. Bellissimo quindi sarebbe stato, se la semplice data della visita avesse ornata la statua, e la piazza si fosse chiamata Nelson; la Little England - come i coloni orgogliosamente chiamano . l'isola - avrebbe così, con meravigliosa saviezza, elevato il monumento, all'atto più geniale dell'ammiraglio.

 La mancanza di nativi costrinse gli Inglesi - che non resistevano al lavoro dei campi - a requisire fuori dell'isola la gente per coltivarla, e fino dal 1636 la schiavitù vi fu ufficialmente istituita; la popolazione allora crebbe rapidamente, ed ora si contano 198.792 abitanti, né potrebbe starcene comodamente un numero maggiore, perché ciò equivale già a circa 1200 persone per kmq. Di questa popolazione, 15.000 sono bianchi, 50.000 di mezzo colore e 130.792 neri. 

Come in tutto il resto d'America, questi ultimi furono tratti da una delle razze più basse dell'umanità, e non sembrano suscettibili di grandi progressi. I loro fanciulli spesso appaiono intelligenti e precoci ma, giunti alla pubertà, si determina un arresto subitaneo nel loro sviluppo intellettuale, onde assai pochi sono gli individui neri che riescono ad emergere e spesso, quando ciò avviene, si scopre che è entrato nella loro famiglia, più o meno direttamente, del sangue de bianchi.

 Quando dalle nazioni d'Europa - più preoccupate di sfruttare le Antille che di farle progredire - furono strappati dal loro paese in generale occupavano delle posizioni inferiori e più spesso erano già schiavi; quindi col mutar paese non fecero che mutar padrone, e spesso non peggiorarono molto. Ma il nuovo ambiente valse a far loro intendere meglio la miseria in cui vivevano, e questa nuova cognizione e differenza di razza, inasprirono loro un sentimento di odio verso bianchi che nulla varrà ad estinguere. L'educazione non è riuscita a modificare i caratteri predominanti della loro razza, e resta sempre in essi l'assenza di sentimento morale e di ogni nobile ambizione, la paura, ma non il rispetto della legge, la superstizione, la brutalità, l'indolenza fisica e morale, la tendenza irresistibile all’ozio. Ed infatti appena fu abolita la schiavitù, avvantaggiandosi del fatto che le terre erano a disposizione di tutti, ed è facile trarne quasi senza fatica frutta e farine, si abbandonarono in generale al dolce far niente.

Ciò condusse a danni non pochi ed a grandi squilibri finanziari dei padroni delle piantagioni; a Barbados però, essendo l’isola quasi tutta coltivata e quindi le terre divise tra i proprietari che ne esercitavano il regolare possesso, i neri furono costretti, per quanto di mali voglia, a seguitare a lavorare. Ma per quanto le mercedi sieno basse (tra uno scellino o uno scellino e mezzo) essi ne hanno abbastanza per vivere se in una settimana lavoravano solamente per qualche giorno. Però anche ridotti cosi i giorni lavorativi, dato il numero degli operai, i padroni riescono a far coltivare le piantagioni, come dimostra la tabella seguente delle produzioni di alcuni anni, tra i quali è segnato il 1840,ossia quello in cui ebbe termine qualsiasi involontaria schiavitù personale.

[…]

Ben diversamente andarono in generale le cose nelle altre isole; l'ozio oltre l'abbandono delle terre determinò. altri grossi mali: ne sono prova le cattive condizioni della Martinica, i dolorosi casi di alcuni Stati del Nord-America dopo le guerre di secessione, e le miserie di Haiti. 

I 50 o 60 anni di libertà che hanno goduto gli antichi schiavi, non sono stati capaci di metterli in grado di governare un paese dove vivono in società coi bianchi; anzi si può affermare che mai acquisteranno le attitudini a ciò necessarie. Se quindi fossero messi alla pari coi bianchi, e grazie al suffragio universale, con essi concorressero alla conquista del potere in un governo autonomo e indipendente di queste isole, per la supremazia del numero diventerebbero i veri padroni, ed in poco tempo (se ne sono avuti degli esempi) farebbero delle leggi tali da costringere i bianchi a disertare. Allora da per tutto ed anche in una isola come Barbados, troverebbero le terre necessarie senza lavorare, le Indie occidentali tornerebbero alla barbarie e bisognerebbe riacquistarle tutte alla civiltà, come sarebbe purtroppo tempo di fare per Haiti.

 Questi pericoli sono sentiti da tutti i bianchi si pare si vadano accentuando, e ne sono prova, i torbidi che si verificano di tratto in tratto. Per esempio, quattro anni fa la rivolta di Trinidad fu assai grave, se non ci fosse stata in un porto una nave da guerra, e se non fosse presto, arrivato da Barbados un reggimento inglese, si sarebbe avuto assai probabilmente un eccidio di bianchi. Occorrono quindi seri provvedimenti per risolvere il grave problema dei neri, perché se è necessario che i bianchi restino la razza predominante è necessario pure ai neri condizioni tali da impedire una reazione che porterebbe ad una lotta di razza con terribili conseguenze.

Oltre i neri, come ho detto, vi sono a Barbados individui di mezzo colore provenienti da ogni sorta di incrociamenti, ed anche dai discendenti (ormai anche essi incrociati) dei poveri Indi strappati in malo modo dalle vicine Guiane. E finalmente vi è un numero abbastanza rilevante. di bianchi, tra i quali bisogna annoverare da una parte i nipoti di quei disgraziati che gli odi politici durante la guerra civile inglese, fecero deportare nelle Indie occidentali, e vendere - benché alcuni fossero nobili e preti - come servi, il che, triste a dirsi, li metteva in condizioni peggiori degli schiavi, e d'altra parte i degni: discendenti dei primi arditi coloni, o di quegli uomini pieni di forza e d'iniziativa, amanti del lavoro e della libertà, che senza lasciarsi snervare dal clima tropicale, resero Barbados la perla delle Indie occidentali inglesi.

Dato il gran numero anzidetto di abitanti, risulta che nell'Isola non vi è posto per gli stranieri, ed. è perciò fortuna che non vi sieno lavoratori italiani, ed importa che i nostri emigranti sappiano che devono tenersi lontani anche dalle altre Antille e dalla Guyana inglese, perché anche dove necessitano le braccia, non, sarebbero né graditi, né pagati. Gl'Inglesi non amano di veder lavorare i bianchi insieme con la gente di colore, e provvedono ai bisogni specialmente dell'agricoltura con la immigrazione dei coolies. Qualche operaio o qualche pescatore bianco potrebbe trovare ancora da fare, ma non troverebbe mai condizioni molto propizie, e tutto ciò può ripetersi anche per le Antille di altre nazionalità: il lavoratore bianco, si trova da per tutto, con gran disagio, confuso ai: neri, e fin d'ora posso dire in generale che i nostri emigranti (non parlo di quelli che hanno un capitale) è necessario che seguitino a tenersi lontani da tutte le isole in parola. 

***

I primi coloni trassero dalle isole indaco, zenzero, aloe, legno e specialmente cotone; ma presto si diedero alla coltivazione quasi esclusiva della canna da zucchero, e ciò ci appare subito anche dal mare, perché vedemmo le colline tagliate a terrazze, e tutte coperte dal verde tenue della detta canna.

Queste colline sono allineate da Est ad Ovest ed elevate al massimo 130 m. Al Nord di esse vi è un’estesa vallata, poi la terra sale verso la sommità centrale, e si mantiene per parecchie miglia abbastanza elevata, con creste che raggiungono anche i 400 m. La base di tali elevazioni è corallina, ma il terreno che le ricopre è molto fertile e la sua coltivazione è facilitata dai molti corsi. d'acqua sotterranei. 

L'opera quindi del colono è assai facile, e noi, seguendo la costa Sud, ammiriamo, magnifiche piantagioni, rese più ridenti da molte case e ville, che si fanno assai più spesse a misura che ci avviciniamo alla punta Needham, estremità S.O. dell'Isola. Girata questa, raggiungiamo rapidamente la baia dì Carlisle - la principale dell'isola - e diamo fondo nella parte meridionale di essa, al Sud cioè della boa della Royal Mail, perché quel posto suole essere riservato alle navi da guerra.

 Vediamo nella rada parecchie navi mercantili, tra vapori e velieri, ed altri velieri s’intravedono nel piccolo bacino interno, o nel Carenage, come al solito sogliono chiamarsi nelle Indie occidentali queste piccole darsene di poco fondo, che si trovano un po' dappertutto e che servivano un tempo per abbattere i bastimenti in carena e per tenerli a ridosso nella pericolosa stagione degli uragani.

 L'ancoraggio nella stagione secca, da novembre a giugno, è abbastanza sicuro, ma diventa pericoloso in quella degli uragani, e spesso nei forti cicloni i velieri mercantili, se non provvedono in tempo, hanno strappater le ancore e sono sbattuti sulla costa della vicina S. Vincenzo. 

L’isola ha una posizione assai fortunata rispetto al mar Caraibico, e non è lontano il tempo in cui i velieri accorrevano nel suo porto per cercarvi contratto per tutto il detto mare; ora però, causa l’estensione presa dalla navigazione a vapore, il movimento di Carlisle è assai diminuito, e come avviene per tutte quelle isole, si nutrono, non su con quanta giustezza, grandi speranze sull’apertura del canale di Panama. Però anche adesso le condizioni sono assai buone come appare dalle cifre seguenti […].

Date queste condizioni, è chiaro che una nave trova facilmente a Barbados di che rifornirsi, e può anche ottenere legumi e vegetali freschi, acqua dalla buona conduttura della città e fare qualche piccola riparazione (con grande spesa però) in una officina ivi esistente: solamente la qualità di carbone, quando c'ero io almeno, lasciava molto a desiderare. Non credo però si trattasse di un fatto eccezionale, perché, tolta la Martinica, dove, per cortesia, ebbi delle ottime mattonelle della marina militare francese, e Kingston, dove trovai del carbone discreto, nelle altre Antille ho sempre avuto da lagnarmi.

Per quanto ho detto sopra, lo zucchero costituisce la principale merce di esportazione, e quindi anche Barbados ha risentita la grave crisi economica che ultimamente colpì i paesi che si occupavano unicamente della sua coltivazione. 0ra grazie ai patti stipulati a Bruxelles, le cose sono migliorate, ma nell'isola si pensa seriamente di ritornare alle vecchie colture del cotone, ed a ciò forse spinge anche il Governo, preoccupato dal colpo che l’americano Sully portò ai cotonieri inglesi con l’aver accaparrato tutto il cotone americano. E benché il Sully sia fallito, l’idea di mutar cultura si è estesa anche ad altre isole; intanto però si seguita a produrre molto zucchero e quello di Barbados va quasi tutto nell’America del Nord, sia perché, grazie alla differenza dei noli, i produttori possono ottenere migliori patti, sia perché lo zucchero di Barbados è della qualità che si chiama moscovado, ossia è ricco di melassa, e cala assai nel peso durante il viaggio, onde conviene mandarlo il più vicino possibile. A tal proposito bisogna rammentare che in generale i coltivatori di Barbados non hanno trovato conveniente, non so con quanti giustezza, di sottomettersi alle spese di un macchinario molto costoso, e si servono ancora di mezzi assai primitivi, compresi i mulini a vento, per estrarre lo zucchero, onde i loro prodotti non sono fra i migliori.

Sarà bene ora, per mostrare le vere condizioni economiche dell'Isola e del suo commercio di fornire qualche cifra a cominciare dal bilancio del Governo della colonia.

[…] (pp. 14-16)

 Noi quindi non figuriamo nel commercio di Barbados, ma per la via d’Inghilterra qualche articolo nostro, e principalmente cappelli e telerie, vi arriva. Anche i Tedeschi non vi appaiono in condizioni prospere, ma essi solamente da poco tempo hanno rivolto gli occhi su questa isola, e con la loro abituale serietà, per ora si limitano a studiare la piazza, e già vi hanno assunto una posizione molto stimata. Noi invece seguitiamo a far nulla o quasi nulla, e se mandiamo in giro un commesso viaggiatore, lo facciamo seguire da un campionario già bello e preparato. Questo a mio giudizio, è uno degli errori del nostro commercio di esportazione; e che questo errore sia profondamente radicato lo dimostra il fatto che si è pensato e si pensa seriamente a mandare in giro per il mondo un bastimento avente a bordo una esposizione dei nostri principali prodotti. Ma non si comprende come si possa seriamente pretendere d'introdurre in un mercato, dove siamo sconosciuti, delle cose nuove, solamente perché ci prendiamo l’incomodo di mostrarle, come in una fiera.

 Chi già possiede il dominio di un- mercato e non teme la concorrenza può imporre la sua produzione, ma, chi vuol conquistare un mercato, è necessario, che cominci col provvedere le merci che nel mercato sono maggiormente richieste. E’ necessario perciò istituire Case di rappresentanze o d'inviare sul luogo persone competenti che , invece di portare con loro un campionario, vadano sul posto a formarsene uno con le cose che il mercato richiede e che i loro rappresentati sono al caso di provvedere a prezzi di concorrenza, tenuto conto dei mezzi di comunicazione tra i paesi che si considerano e l'Italia. Solamente quando il campionario stesso è stato riprodotto nelle. condizioni, economiche sopraddette, si può tentare la piazza; ma non vi sono cure che bastino per riuscire bene, ed oltre una grande esattezza. nelle spedizioni, occorrono speciali attitudini per immedesimarsi nel vero. stato locale e dei relativi bisogni. Così, per citare un esempio semplicissimo, dirò che se un negoziante dei nostri oli andasse a Manaos con la speranza di battere facilmente ì Portoghesi con l'offrire a prezzi minori di quelli correnti i nostri migliori oli, limpidi e perfettamente inodori, certamente sbaglierebbe, perché i Brasileri sono abituati ad un olio che per noi puzza, ma che ad. essi piace. 

Si suole dire poi che il nostro commercio è scarso in tutte le .Antille, perché non abbiamo comunicazioni dirette con esse; viceversa, poi le Compagnie di navigazione sostengono che non torna conto di stabilire quelle comunicazioni, perché non c'è commercio, e così restiamo in un circolo vizioso. Ma è chiaro che l'iniziativa spetta ai commercianti, e per cominciare gli affari potrebbero utilizzare la linea esistente Genova-Trinidad, istituendo in questa ultima isola la base della nostra importazione, e distribuendo poi le mercanzie nelle altre mediante le linee locali. La cosa forse è più semplice di quello che non possa apparire, e quando il commercio fosse avviato, le linee nostre di navigazione aumenterebbero naturalmente.

 Per fare meglio apparire come potrebbe esserci posto anche per i nostri prodotti nel commercio di Barbados, ricorderò i principali articoli di esportazione e specificherò meglio gli. articoli di importazione, facendo, presente che le steste cose su per giù si importano anche nelle altre Antille, perché scarse o nulle sono le industrie. locali e bisogna portarvi tutto quello che occorre alla vita.

[…] (pp. 18-20)

Tutto il movimento commerciale sopraddetto si svolge nella baia di Carlisle che è il vero porto dell’isola, e quindi nella città di Bridgetown che ivi sorge. 

Come avviene in tutte le Indie occidentali, salvo le bellezze naturali, questa città non ha, nulla di notevole: le costruzioni predominanti sono in legno, o legno e ferro, poche in pietra; solamente si possono ricordare, come di una certa importanza, i palazzi del governatore, del Municipio, del Parlamento, del club principale, del Marine-Hotel (situato nelle. vicinanze della città e che attira molta gente durante l'inverno), del Sea View-Hotel e del Ice-House, una istituzione speciale delle Indie occidentali. trattandosi di una Casa che ha al piano terreno una vendita di ogni sorta di conserve alimentari, ed al primo piano un bar, un restaurant, ed un albergo frequentato specialmente dagli uomini di mare.

 Le vie cittadine sono discrete, le comunicazioni con l'interno sono buone. (vi sono trams a cavalli nella città e sobborghi, una ferrovia e buone strade tra la città e i punti più importanti dell'isola); le linee di comunicazione con l'Europa e con le Americhe sono rapide e frequenti, ed i servizi telegrafici e telefonici sono bene stabiliti; anzi questi ultimi rendono molto, perché costa pochissimo l'abbonamento. Finalmente la città, come tutta l'isola, é sana, e le nuove condutture di acque potabili hanno quasi fatto sparire le infezioni tifose. Ciò non ostante, essendo questo il primo porto delle Antille che toccavo, volli si cominciasse senz'altro l'applicazione a bordo di alcune speciali norme d'igiene che avevo fatto preparare per i climi tropicali, e siccome ne ebbi grandi vantaggi, cosi credo opportuno rammentarle facendo presente che nella loro essenza sono state tolte dall’ottimo e notevole libro sulle Malattie tropicali del mio carissimo amico tenente colonnello medico della R. Marina. prof. F. Rho.

1°. Tutti i mezzi disponibili devono essere messi in atto per una buona ventilazione di tutti gli ambienti.. In porto gli osteriggi, i boccaporti, i portelli, glo oblò devono essere tenuti costantemente aperti e spalancati anche di notte. Il massimo numero di manicaventi di tela, di metallo ed elettrici deve essere impiegato in modo da ottenere la massima efficienza; 

2°. le tende devono essere sollevate od imbrogliate per qualche tempo ogni mattina. e così pure un'ora prima del tramonto per ventilare la nave, ma si devono rimettere poi a posto insieme alle cortine per evitare di giorno il sole e di notte per gli effetti della rugiada. Quando il tempo è piovoso le tende devono essere fatte in modo da tenere il bastimento più secco che sia, possibile;

3°. I ponti devono essere accuratamente lavati, ma anche accuratamente asciugati, e subito dopo la lavanda vi si devono. distendere appositi sferzi di tela. Occorre evitare l'umidità nei locali inferiori e perciò non vi si terrà alcun oggetto suscettibile di assorbire umidità, e si asciugheranno bene tutte le volte che, per una ragione qualsiasi potranno bagnarsi;

4° . In. porto la gente prenderà il primo pasto subìto dopo la formazione delle pavesate. La lancia ai viveri non si scosterà da bordo prima che l’ufficiale di guardia si sia assicurato che tutti coloro che s'imbarcano abbiano preso qualche alimento;

5°. L'acqua ottenuta dal distillatore sarà la sola impiegata per bere e per. le cucine; quella presa a terra deve servire unicamente, per la lavanda e per la macchina, e non si deve mai depositarla nella stiva ordinaria. Le casse di questa devono essere pulite e lavate spesso e con la massima cura, e finché è possibile si deve distribuire acqua alla gente con molta larghezza; 

6°. Il battello dei fruttaioli deve essere visitato ogni giorno dal medico, per assicurarsi che le frutta vendute all'equipaggio siano mature e. di buona qualità. Prima della visita del medico, quindi, nessun battello da fruttaiolo dovrà accostare;

 7°. La gente di giorno, deve vestire la tenuta. dei climi tropicali (tela), ma quando la temperatura sarà molto alta si ordinerà di fare a meno del camisaccio di tela. La notte però deve sempre indossare la tenuta di fatica di mezza stagione (camicia di lana), e sempre porterà la maglia di cotone sulla pelle e la fascia addominale. Dopo eseguiti lavori faticosi i marinai devono cambiarsi avendo cura di lavarsi e di asciugarsi bene;

8°. Ogni giorno e prima della cena tutti gli individui devono prendere la doccia con acqua di mare, ed al mattino, quando è possibile, devono fare lavande complete con sufficiente acqua dolce;

 9°. Durante i pasti deve essere fatta alla gente una distribuzione di ghiaccio e di acqua fresca; 

10°. Il vino deve essere quello che le norme regolamentari stabiliscono per i climi tropicali, anche. per i paesi ai tropici vicini, e che in queste regioni hanno temperature elevate e cattive condizioni sanitarie. A tal proposito devesi tenere presente che è pericoloso mutare il regime dietetico a cui si è abituati; ciò che occorre è di essere moderati in tutto, e si deve spiegarlo alla gente perché si regoli quando va a terra ed eviti le bevande spiritose, ed ogni sorta di stravizi;

11°. La gente deve imparare dai graduati la necessità alla pulizia personale e l'indispensabile pulizia dei locali e del materiale; 

12°. Le latrine devono essere lavate continuamente e disinfettate con latte di calce od altro;

 13°. Qualsiasi individuo dell'equipaggio (personale borghese compreso) non deve rimanere a terra dopo il tramonto. Per le ore dei permessi diurni della gente si sceglieranno quelle del mattino o quelle pomeridiane secondo che nelle varie località meglio conviene al loro svago, ma in ogni caso non si manderà gente a diporto prima di aver raccolte serie e veritiere informazioni sanitarie del luogo, e bisognerà sospendere in massima i permessi appena le dette informazioni risultano dubbie o poco soddisfacenti;

14°. Devesi spiegare alla gente che al minimo cenno di cefalalgia, di diarrea o di altro disturbo gastrointestinale, devono ricorrere al medico per evitare gravi pericoli personali.

L'attenta applicazione di queste regole, e la lodevole sobrietà della gente (in 18 mesi una sola volta si ubriacò un individuo), hanno fatto mantenere ottime sempre le condizioni, sanitarie della nave in tutta la campagna e finanche nell'Amazzone, dove c'erano manifestazioni delle più gravi malattie, tutto andò benissimo, anzi proprio sul detto fiume, per parecchi giorni non ebbi, caso eccezionale sulle navi neanche un uomo esente di servizio. Ciò dimostra di quanta utilità possano, essere le misure profilattiche, e come sia più facile prevenire anziché curare le malattie, e specialmente le epidemie.

Santa Lucia

 Il 2 luglio di buon mattino lascia Barbados, e nel pomeriggio ero già in vicinanza della costa Sud di Santa Lucia (120 miglia da Carlisle a Castries). Se Barbados è una delusione per chi ama le terre tropicali, Santa Lucia è invece una festa.

Di origine vulcanica, deve avere acquistato il suo assetto attuale in seguito ad una serie di cataclismi e di convulsioni che l'hanno resa molto varia ed accidentata. Al centro si eleva una catena di montagne che supera i 1000 m. e manda diramazioni in ogni direzione, è un succedersi continuo di valli profonde e di colline dirupate si spingono fino alla spiaggia anche essa rotta e frastagliata.

Attratto dal meraviglioso spettacolo, segui assai da vicino la, costa meridionale dell'isola e presto, girata la sua punta occidentale, intravidi i famosi Pitoni, due immensi coni che hanno la loro base quasi a livello del mare e si elevano arditamente fino a 800 m., coperti da una magnifica foresta vergine. Oltre la Soufière, il famoso vulcano continuamente in ebollizione, essi sono a buon diritto ritenuti la meraviglia dell’isola e meritano che chi passa da queste parti faccia, occorrendo, una piccola deviazione dalla rotta per vederli.

 Il fondo delle valli che sboccano verso il mare ci appare coltivato ed abitato, e vediamo graziosi paeselli nelle varie insenature che si succedono. Primo tra questi ci appare a ponente di Moul a Chique (la punta più meridionale dell'isola), Vieux Fort, villaggio di 1700 abitanti circa, circondato da un piano abbastanza esteso, tutto coltivato a canna da zucchero e con una fattoria che è la più antica ed una delle più importanti dell’isola; seguono Salarie con 800 abitanti Choiseul con 400, con terre molto fertili e con buone coltivazioni di cacao e legumi, e la Soufrière, circa un miglio al nord del Piccolo Pitone ed a 20 minuti di cavalcata dal vulcano. Ha 2400 abitanti e fino ad una ventina d'anni fa era molto importante per il commercio dello zucchero, ma ora è decaduta. Nel 1774 ebbe anche uno stabilimento termale assai noto, distrutto poi nelle guerre seguenti, e mai più riedificato : ora però si cerca di utilizzare un'altra sorgente che dicono abbia proprietà analoghe alle famose acque di Aix-les-Bains.

Intanto, proseguendo sempre a nord, vediamo le belle caserme delle truppe bianche costruite recentemente sul Morne Fortune o sulle colline vicino a Castries e poi il piccolo promontorio della Vigie, che finisce ad ovest come la prora di una corazzata e limita al nord la entrata del porto di Castries. Il limite sud invece dell'entrata stessa, Tapion Rock, ed il relativo fanale, si distinguono malamente, perché questa punta è più bassa della prima, e, per chi, viene da. sud, si proietta. su di essa. Ma la Vigie è sufficiente per atterrare, salvo ad avere l'avvertenza di mantenersi un poco larghi, per presentarsi bene sull’allineamento di entrata che passa assai vicino a Tapion Rock, ed è costituito da due piccole piramidi bianche e nere messe all'estremità di due armature metalliche: l'una ben in vista sulla banchina, innanzi alle case della città; l'altra più alta ed un po’ confusa sul verde della montagna. Prima di giungere a Tapion Rock, passiamo ancora innanzi all'insenatura di Roye ed al villaggio omonimo, ed a quella del Gran Cul de Sac (che ha una buona fattoria di zucchero e due villaggi).

***

La differenza tra la natura di Barbados e quella di Santa Lucia, decise i destini delle due isole. La prima, poco accidentata, con porti aperti, ma in posizione fortunata per il commercio del mar Caraibico, ma fu sfruttata economicamente, e fu fonte, di grande prosperità; la seconda, rotta, accidentata, ma provvista dì un buon porto ed in posizione strategicamente importante, fu molto stimata militarmente, e divenne il teatro di fiere guerre, prima tra i bianchi ed i nativi Caraibi che difesero strenuamente la loro terra, e poi tra Francia ed Inghilterra, che se ne disputarono il possesso per 160 anni. L’isola, quindi, benchè abbia una superficie di 238 miglia quadrate ed un suolo fertilissimo e bene irrigato da numerosi ruscelli, non fu mai molto coltivata, nè molto abitata. La popolazione, compresi gli emigranti dalle Indie orientali, è cresciuta invero assai lentamente […] e buona parte delle terre sono ancora incolte. Nelle poche coltivate si cominciò col mettere tabacco, zenzero e cotone; ma, verso il 1700 si passò allo zucchero, al caffè e al cacao, e questi sono. anche i prodotti odierni, benchè ora si curino pure con vantaggio i legumi e le frutta. I sistemi agricoli però sono sempre imperfetti, ma si cerca di migliorare le cose, ed a tal uopo sono state messe in vendita, a condizioni vantaggiose per i coloni, le terre della Corona, o quasi un quarto della superficie totale dell'isola, e si nota un sensibile aumento di capitali inglesi impiegati nella coltivazione.

[…] (pp. 25-26)

La baia di Gran Cul de Sacm, dove Rodney esegui uno sbarco nel 1778, Morne Fortune, che serba le ruine della cittadella intorno alla quale furono combattute tante battaglie fino al 1803, le alture del Tapion e della Vigie, su cui si ergevano i- forti tante volte attaccati dalle squadre inglesi, l’isola Pigeon, dai cui bastioni Rodney sorvegliò De Grasse ancorato a Martinica, e vistolo partire l'inseguì e lo vinse, e mille altri luoghi che sarebbe lungo rammentare, dicono quante guerre costarono le Indie Occidentali e mostrano l’importanza che assegnavano i rivali a Santa Lucia.

 "È sempre stata intenzione di Francia - scriveva un ufficiale a Napoleone - fare di Santa Lucia la capita le delle Antille e la Gibilterra del Golfo del Messico"; dall'altra parte fin dal 1772 Rodney aveva scritto: "una di queste isole (Martinica o Santi Lucia) nelle mani dell'Inghilterra, deve, finché questa rimane una grande potenza navale, farla sovrana delle Indie Occidentali". Non è strano quindi che ad ogni rottura di ostilità dal 1660 in poi (il primo stabilimento francese nell'isola fu impiantato nel 1651), gl'Inglesi attaccassero S. Lucia; ma è strano che, pur riuscendo sempre sfortunati i loro sforzi, alla fine della guerra restituissero sempre la nuova conquista, cosicché ogni volta la Francia riaveva per un colpo di penna l'isola che l'Inghilterra le strappava a colpi di cannone. Ciò avvenne per ben sei volte; ma dopo l'ultima conquista (1803) rimase definitivamente all'Inghilterra e recentemente questa ha voluto fare di Castries una stazione di rifornimento protetta, riedificando nuovi forti (pare abbastanza potenti e certo molto ben mascherati) sulle ruine dei vecchi. Ma nelle mutate condizioni della marina, mentre è cessata per gli Inglesi la necessità di avere dei forti eretti in faccia dì quelli di Martinica, é diminuita anche l'importanza militare di S. Lucia, e si deve credere che, prima di aver completate, tutte le opere, gli Inglesi stessi ne abbiano convenuto e si siano decisi e non proseguirle. Sul posto si diceva che li avesse arrestati il pericolo dell’imbottigliamento, ma non era necessario che dopo l’episodio di Santiago si inventasse la parola sopraddetta, per intendere che delle navi sorprese nell'angusto porto di Castries da un nemico intraprendente, si sarebbero trovate a mal partito. La ideata stazione di carbone doveva servire per una flotta in essere e predominante, come si suppone sempre nel concetto inglese, e le opere e gli sbarramenti dovevano, ed a ciò sono sufficienti, difenderla e conservarla in assenza delle navi. L'arresto dei lavori deve quindi più logicamente ascriversi da una parte alla ragione detta qui innanzi e dall’altra ad un nuovo indirizzo della politica inglese.

La difesa delle Indie Occidentali inglesi potrebbe invero appoggiarsi indipendentemente da S. Lucia, a due grandi basi: Giamaica e Trinidad. Forti, sbarramenti, ostruzioni, tutto un sistema difensivo ed un arsenale esistono nella prima, ma la Trinidad è indifesa, eppure essa ha un golfo meravigliosamente disposto per la guerra. Nelson stesso accennò alla sua importanza, e devesi ritenere che questa non è sconosciuta neanche oggi, altrimenti non si comprenderebbe perché gli Inglesi abbiano contrastato al Venezuela il possesso del piccolo scoglio di Goos. Infatti tutti i passi (Bocche dei Dragoni) che dal Nord immettono nel golfo di Paria possono facilmente essere difesi, salvo l’ultimo (Bocca Grande), perché uno degli estremi (Capo Penas) è venezuelano. Ma l'isoletta di Goos, dove potrebbe sorgere un forte corazzato all'inconveniente perché non può pensarsi, date le condizioni del Venezuela stesso, che questo eriga a Penas delle opere a contrasto, né può preoccupare il fatto che pure venezuelana è tutta la costa ovest del golfo stesso perché non esistono comunicazioni interne tra essa e il resto del paese, e la foresta è barriera insuperabile.

Difese le bocche dei Dragoni, eretti dei forti a dominio dell’ancoraggio, costruito un bacino, delle officine di riparazione, dei depositi di carbone e delle banchise verso il Carenage, legata questa località a Port-of-Spain con la ferrovia, resi facili alla navigazione i passi del Sud (Bocche dei Serpenti) ed a loro volta difesi, si avrebbe a Trinidad una magnifica base di operazione. E di tutto ciò si avvantaggerebbe anche il commercio, perché ora le navi sono costrette ad ancorare, per il poco fondo, molto lontano dalla città, mentre al Carenage ed a Chaguaramas potrebbero accostarsi ai pontili. Ma ora si pensa solamente alla parte commerciale, e l’attuale governatore, Sir E. Jackson, che molto se ne occupava, sperava di ottenere il bacino, le officine e le banchine per le operazioni di carico e scarico in breve tempo e di avere così modo di attirare a Trinidad le navi che si dirigeranno verso il nuovo canale di Panama. Di forti nessuno parla, anzi anche l’arsenale di Giamaica è stato chiuso, ma ciò si riferisce ad un fatto generale di alta politica. Una difesa attiva è in essere di tutte le colonie inglesi costerebbe enormemente, e, nonostante i sacrifici, dipenderebbe le forze della madre patria; quindi si è saggiamente pensato che aumentando queste forze, col concentrarle, si sarebbero economizzati denari, e si sarebbe provveduto con una politica forte, perché fortemente sostenuta, alla difesa dei possessi lontani assai meglio che con disposizioni militari locali.

Ecco quindi spiegato perché l'incantevole porto di Castries d’ora in poi dovrà cercare una nuova forma di fortuna nel commercio. Benché sia molto ristretto, le navi, data la costanza del vento dominante, senza inconvenienti possono ancorare a breve distanza fra loro, onde vi è più posto di quel che non pare. Ma per accrescere questo posto é stata costruita una estesa banchina, presso la quale possono accostare anche vapori di 26 piedi di pescagione, ed inoltre parallelamente alla parte Est-0vest della banchina stessa è stata sistemata una fila di boe su cui le navi possono ormeggiarsi poppa e prora. Così fu possibile nel 1899 alla squadra dell'ammiraglio Sampson (3 corazzate e 5 incrociatori) insieme ad un bastimento tedesco di stare contemporaneamente nel porto, e di fare acqua e carbone, senza, e lo dicono con vanto i negozianti locali, interrompere il movimento ordinario del porto, perché nei tre giorni che durarono le operazioni, poterono rifornire successivamente altri 10 vapori. Facile invero è il rifornimento, ciò che non avviene a Barbados, specialmente per la svogliatezza dei mori, e la qualità del combustibile stesso se non è la migliore, certo non è la peggiore di quella delle altre Antille. Il porto poi è tanto chiuso e sicuro che durante il forte ciclone del 1898 (che fece gravi danni nella parte orientale dell'isola stessa) si poté seguitare a lavorare e compiere il rifornimento di due vapori. L'acqua si ha a 1 buon mercato, si possono avere anche viveri freschi e provviste, e fare piccole riparazioni. Grazie a tutto ciò il movimento delle navi é sempre in aumento: nel 1891 ve ne entrarono 651, e 930 nel 1900.

[…] (p. 29)

Dietro la banchina dianzi citata, nell’angolo sud-est del porto su di un piccolo piano ed ai piedi delle scoscese montagne è edificata la città. E’ assai semplice e poco interessante: le costruzioni predominanti sono in legno, le strade si tagliano ad angolo retto, vi sono un ospedale, due Banche, degli Asili per i poveri ed uno per i pazzi, una libreria, dei Clubs, delle Associazioni per le corse ed altri Sports (immancabili dove sono gl'Inglesi), delle Società di mutuo soccorso, un Comitato e varie istituzioni per l'incremento dell'agricoltura, scuole per il primo insegnamento ed una scuola agricola con numerosi allievi. Ma la parete più ricca della popolazione abita, giusto il saggio e comodo uso inglese, in graziose ville nascoste tra i boschi delle vicine colline, e tra queste ville , notevole per bellezza ed eleganza è quella del Governatore, situata sul versante settentrionale di Morne Fortune. Tutte oi tanto qui che nelle altre Antille britanniche, sono costruite con quella meravigliosa conoscenza che hanno gli Inglesi dei bisogni e delle necessità dei paesi intertropicali, onde i loro padroni trovano nelle case veramente il riposo, e si agguerriscono, direi, per la dura lotta contro il clima snervante.. Ma a Santa Lucia vi è un clima abbastanza tollerabile, la temperatura media non supera i 26° C. e le condizioni generali sono discrete e abbastanza facili per i bianchi. Esistono poi le condizioni necessarie per determinare lo sviluppo di una flora lussureggiante e meravigliosa, ma, come in tutte quelle isole, la fauna è invece assai povera, e solo numerosi sono i serpenti, compreso tra essi il "Fer de lance", che ha costituito, più o meno con ragione, per tanto tempo lo spavento di quest'isola e della vicina Martinica. Ora però hanno introdotto per combatterlo la mangusta, e l’ardita e graziosa bestiolina ha impegnato una guerra a fondo con il terribile rettile e lo ha relegato, si può dire nell’interno delle montagne.

Tra poco s'incomincerà a dar la caccia anche alla mangusta, perché questa, spariti i serpenti, comincia a non disprezzare le galline.

 

MARTINICA

 

Un breve tratto di mare separa S. Lucia dalla Martinica, onde, nel lasciare la prima di queste isole (5 luglio 1904), già ci appare la seconda e in poco tempo la raggiungiamo.

La costa Sud è frastagliata e, mentre ci avviciniamo, vediamo staccarsi da staccarsi da essa lo scoglio Diamante, quasi alta colonna che si erge arditamente sul mare, e che è celebre nella storia delle guerre franco-inglesi, perché l'Ammiraglio Hood trovò il mezzo di farvi arrampicare degli uomini e di provvederli di armi, di viveri, di munizioni e di una bandiera che essi spiegarono con grande meraviglia dei Francesi di Martinica. Dopo ciò le navi inglesi si allontanarono; l’Ammiraglio dispose che lo scoglio, così armato fosse iscritto nel ruolo delle navi da guerra sotto il nome di H. M. Sloop of war "Diamond Rock" ed i marinai, compreso il significato di quest'ordine, si difesero come se veramente fosse loro affidata la difesa e l'onore di una nave della patria, e, pur costretti dalla fame, si arresero solamente quando ottennero tutti gli onori di guerra.

Proseguendo la nostra rotta, corriamo lungo la montagnosa penisola che forma l'angolo SW della Martinica, e poi penetriamo nella rada che ora si chiama di Fort de France, ma che sotto i Governi monarchici si chiamava di Port Royal, perché tanto essa quanto la città omonima hanno avuto la strana prerogativa di cambiare nome al mutare della forma di governo della madre patria.

Bella è questa rada e comprende molte insenature che offrono in generale buoni ancoraggi. Il più frequentato è quello dei Flamands, a ponente di Fort France; ma più sicuro specialmente nella parte Nord, benché assai angusto, è quello di Carenage, separato dal primo da una stretta lingua di terra su cui si elevavo il vecchio forte di S. Louis.

Siccome al mio arrivo era prossima la stagione dei cicloni, mi ormeggiai nel secondo; ma a questo proposito è bene rammentare, per non far perdere tempo a chi arriva, che non vi si può entrare senza il permesso delle autorità e senza prima pigliare pratica dell’ancoraggio di Flamands.

Nella parte settentrionale del Carenage stesso vi è un bacino […], l’arsenale di riparazione dello Stato, il cantiere ed il dock della Compagnia transatlantica, i depositi di carbone del commercio (di qualità assai scadente), e quelli militari costituiti essenzialmente di ottime mattonelle.

Nei due porti in parola vi è un movimento di 100 a 1200 navi all’anno, vi capitano anche molti velieri nostri, ed al mio arrivo fui salutato da una vera flottiglia di essi.

Tutte quelle bandiere italiane, alzatesi ad un tratto, ci rallegrarono molto, ma quel momento di soddisfazione mi procurò in seguito molta amarezza, perché mi diede occasione di accertare parecchi mali di una parte della nostra marina mercantile a vela.

Dopo la visita dei capitani, chiesero e vennero da me parecchi marinai a reclamare, qualcuno per maltrattamenti, altri per contratti non regolari, altri perché non ricevevano le paghe. Aggiustai le cose come meglio potei, ma tutto ciò mi diede occasione di notare che capitani e marinai sono trattati poco bene; che se i marinai dei velieri reclamavano perché non ricevevano la paga mensile, i capitani non ci avevano colpa perché non ricevevano i denari, e che molte navi mancavano degli strumenti più indispensabili per la navigazione, fino al punto, mi fu assicurato, , che certe volte hanno un orologio di poche lire invece di un cronometro! E ciò accresce i pericoli a cui sono esposte queste navi, pericoli tanto più gravi quanti che alcune sono così vecchie e malandate che non trovano in generale chi le assicura. Da ciò si trae profitto per fare i noli assai bassi e mille altre speculazioni, che certo non valgono a far buon nome alla nostra marina a vela, onde, confondendo il buono col cattivo, purtroppo avviene di sentirne parlar male nelle Antille.

Fra i due porti citati si estende Forte de France, assai importante anche per il suo movimento commerciale, benché questo non progredisca come dovrebbe ed abbia avuto dannosi arresti […].

Anche qui dunque lo zucchero è il principale prodotto dell'isola, e la coltivazione della sua canna è fatta sia dai proprietari delle fabbriche, sia dai coloni, i quali poi la vendono alle fabbriche stesse.

La produzione è buona, ma occorre concimare la terra; le piantagioni più estese si trovano al Nord, le principali fabbriche (ve ne sono in tutto 28) si trovano presso Fort de France, la Trinité e les Francais, ecc. Come conseguenza della lavorazione dello zucchero, le fabbriche producono anche rhum e quelle della Martinica sono tra le più stimate.

Il caffè è buono, ma è stato colpito da malattia e la produzione quindi è scarsa; il cacao, benché favorito da premi, si è poco esteso; gli altri generi di esportazione sono di poco conto, ma il suolo fertilissimo favorisce gran quantità di altri prodotti che si consumano in paese, come manioca, ogni specie di frutta dei climi tropicali ed anche dei nostri, ottimi legumi e verdure trapiantati dall'Europa.

Siccome industrie locali non ve ne sono (eccetto gli zuccherifici, le distillerie di rhum, una segheria, una tonnara, una fabbrica di ghiaccio. un'officina per la luce elettrica di Fort de France), si deve, come per le isole precedentemente considerate, far venire di fuori quanto occorre alla vita; e la Francia provvede quasi a tutto, e solamente gli Stati Uniti e l'Inghilterra vi concorrono in parte.

Questo mercato quindi non ci può interessare, come l'isola non c'interessa in nessuna maniera per l’emigrazione.

Fort de France è centro principale del movimento commerciale, ed è anche la capitale dell'isola. E’ costruita in piano e le sue case sono basse ed abbastanza robuste per cercare di resistere ai cicloni: una volta erano quasi tutte in legno, ma dopo l'incendio del 1890 s'incominciò ad usare su più larga scala la costruzione in legno e ferro.

Le strade sono abbastanza regolari; mancano però le fognature, e perciò sui loro margini scorrono in appositi canali dei rivoletti (alimentati dall'acqua che viene dalla montagna), in cui gli abitanti gettano le lordure.

Vi è una savana, o piazza pubblica, abbastanza bella, con terreno erboso ed intorno viali alberati, ma non vi sono edifizi o monumenti importanti. Tuttavia si possono ricordare la biblioteca, la residenza dei Governatore, situata in una località bellissima, la fontana Gueydan che appare assai graziosa, addossata, com'è, alla rupe che chiude la strada principale, tre ospedali ed una casa che si suol far notare perché edificata sulle rovine di quella in cui nacque l'imperatrice Giuseppina. La città poi ha scuole per l'insegnamento superiore (si può avere la licenza di diritto), per l'insegnamento secondario (liceo), per l'insegnamento elementare (in tutta l'isola vi sono circa 11.000 allievi), per le arti ed i mestieri e per gli operai meccanici; vi sono inoltre due Banche, varie Compagnie di assicurazioni, diversi Circoli e Società e vi si pubblicano sei bollettini e giornali.

I dintorni di Fort de France sono assai belli e pittoreschi; per la squisita cortesia del Governatore ebbi occasione di visitarne alcuni e specialmente i campi di Balata e di Colson. Questi sono situati molto in alto ed in mezzo a boschi magnifici, e posseggono belle caserme per alloggiare i soldati nell'estate o durante le epidemie (1). Vi conduce un'ottima strada militare che passa vicino alla Fontana Calda (una delle sorgenti termali dell'isola più frequentate), e che dopo Colson, procede verso l'interno superando la montagna a traverso la foresta. La vegetazione, a misura che si procede nell'interno, diventa sempre più florida e rigogliosa, e le foreste, che acquistano tutto lo splendore tropicale, sono bene conservate, perché una provvida legge limita il diboscamento. Come però accade in tutte le isole vulcaniche, anche qui i boschi sono abitati da pochi animali, quindi, per quanto è ricca la flora, altrettanto è povera la fauna terrestre (i pesci invece sono numerosi), vi sono numerosi serpi e specialmente il Fer de Lance (Bothrops lanccolatus, vipera gialla della Martinica), tanto temuto, ma che ora si combatte con le manguste.

_________

(1) 1 Francesi tengono nell'isola un buon numero di truppe; la divisione navale dell'Atlantico con 4 navi vi ha la sua base; anche recentemente sono state costruite delle opere di difesa in terra e sono stati messi dei buoni cannoni sui vecchi forti come quello di S. Louis. Quest'ultimo provvedimento può parere strano, ma giustamente dicono gli ufficiali: noi non fondiamo la difesa su quei forti; ci è costato poco l'armamento (forse sono stati impiegati cannoni usati) e potranno esserci utili al principio dell'attacco. Se i loro colpi, in quel periodo iniziale, saranno ben diretti, la nostra spesa sarà largamente ricompensata, altrimenti ritireremo la gente ed il nemico farà per noi la spesa di demolirli.

___________

L'isola è amministrata quasi come un dipartimento della Francia, e costituisce un gouvernement diviso in due arrondissements: il Governatore è contemporaneamente il capo della Colonia ed il rappresentante del Governo centrale. A sua volta l'isola è rappresentata nelle assemblee nazionali francesi da due senatori e da un deputato; inoltre ha un Consiglio generale che, tra le altre cose, compila i bilanci, ed in ogni Comune vi è un Consiglio municipale ed un maire. Come in Francia, i rappresentanti ed i membri dei Consigli citati sono eletti col suffragio universale, e vi sono 43.000 elettori su di un complesso di 147.700 abitanti; ma siccome la maggioranza di questi sono neri, quasi tutti gli eletti appartengono a quest'ultima razza. Ci troviamo così innanzi ad un esempio rilevante dell'azione dei neri nel Governo locale delle colonie e pur troppo appare che la prosperità dell'isola ne soffra.

Gl'Inglesi invece, pur avendo date molte franchigie ai neri di Barbados, hanno saputo conservarsi abbastanza diritti per mantenere, almeno per ora, l'amministrazione nelle mani dei bianchi, e grazie alle loro speciali attitudini, le cose vanno ancora bene. Ciò stabilisce la differenza fra le due colonie, e persone assai elevate mi dicevano che con l'aver dichiarato i neri cittadini francesi, mancano non solo i mezzi legali per ben governare l'isola e metterla sulla via del progresso, ma forse anche per impedire che vada perduta per la Francia, come avvenne di Haiti.

Per meglio intendere lo stato delle cose, importa tener presente che l'isola (lunga 8o km. e larga 3 1) ha una superficie di 987 kmq, di cui un terzo è coltivato, un suolo di una grande fertilità, una densità di popolazione di 150 individui per kmq, compresi i lavoratori fatti venire dalla Cina e dalle Indie orientali, un clima abbastanza buono per le Antille (stagione fresca da dicembre a marzo, temperatura media 24°,5; stagione calda, ma sana, da aprile a luglio, temperatura media 26°; stagione calda e piovosa, hivernage, dalla metà di luglio a novembre, temperatura media 27.5°), condizioni sanitarie relativamente buone (vi è poca malaria, la dissenteria si mantiene nei limiti delle isole vicine, e la febbre gialla è in diminuzione), abitazioni molto salubri nei punti elevati, facilità ed economia di vita materiale, una rete di buone strade (600 km. circa di strade coloniali oltre quelle comunali e 182 km. di linee ferroviarie per l'uso interno delle piantagioni), telefono e telegrafo tra i vari punti dell'isola, due canali navigabili che uniscono i Comuni di Lamantin e della " Rivière salée " col mare, servizi marittimi locali con i punti più importanti delle coste, ed infine linee di navigazione e telegrafiche che la mettono in comunicazione con l'Europa, l'America del Nord ed il rimanente delle Antille. In queste condizioni potrebbe progredire assai più di quello che fa, né vale ricordare le lunghe serie di disgrazie sofferte recentemente (l'immane catastrofe di S. Pierre, l'incendio del i 1890, e l'uragano del 1898), perché l'isola ha grande vitalità, e se i neri non intralciassero l'opera dei bianchi, sarebbe almeno possibile far diminuire l'attuale malessere. Invece molte piantagioni sono man mano abbandonate, o vendute all'asta, e, per decisione del Consiglio generale, si suddividono in piccoli lotti e si concedono a condizioni anche troppo vantaggiose. Ciò permette ai neri di diventare proprietari con le conseguenze che dissi, la coltura ne scapita ed i mali generali e le difficoltà dei bianchi vanno sempre crescendo.

La Martinica, dunque, che ha moltissimi elementi per essere felice, è contristata da molti mali derivanti dalle amministrazioni indigene, e pur troppo un triste fato la colpisce sovente con grandi disastri: cicloni, incendi, terremoti, eruzioni.

Ma più dolorosamente vivo tra queste sciagure è il ricordo dell'immenso disastro di S. Pierre, e non potrò mai descrivere la mestizia che provai quando ci recammo, quasi per doveroso pellegrinaggio, sul punto dove pochi anni prima sorgeva piena di vita e di ricchezza la graziosa cittadina. Ed allora non pensavo che più tardi avrei dovuto rivivere più fortemente quella tristezza, visitando, poco dopo il mio ritorno in patria, le terre incantate che circondano la mia Napoli, che un altro mostro dì fuoco aveva devastate.

Mentre mi avvicinavo a S. Pierre, il vento soffiava forte da terra e la copriva di uno strato pesante di vapori che andavano mano mano addensandosi a misura che si elevavano, fino a formare un nero strato di nuvole che gravava sulle montagne e nascondeva il vulcano onde il paesaggio invece di rifulgere nei vivi colori del tropico, appariva ammantato di un denso e triste velo grigio, quasi rivestisse ancora il lutto della grande disgrazia.

Son noti ormai a tutti i particolari del disastro: il vulcano da molti anni taceva e nel suo cratere si era formato il grazioso lago des Palmites, sulle cui rive i touristes andavano a godere la fresca brezza dell’Oceano e a deliziarsi nel meraviglioso panorama che corre dai Pitoni di S. Lucia alle coste della Dominica. Ma un giorno il mostro, stanco forse del lungo riposo, ebbe un’inaspettata agitazione e seppellì la ricca fattoria di Guerine. Gli abitanti delle terre circostanti ne ebbero un grande spavento, e si affollarono in S. Pierre, ma non si credette ad un pericolo imminente, ed il Governatore accorse sul posto a calmare gli animi. Però era un chiedere continuo ed affannosos di notizie da tutti i luoghi dell’isola, e ripeto le parole di un signore di Port de France: "L’8 maggio 1902 chiesi col telefono ad un mio amico di S. Pierre come andavano le cose. Oggi non c’è male mi rispose, pare che… ma s’interruppe e subito dopo, attraverso il telefono stesso l’intesi gridare in modo straziante: Dio, siamo perduti…" : Poi più nulla. Vi fu un istante angoscioso di silenzio e poscia un rombo strano, immenso terrificante percosse l’aria: S. Pierre era distrutta; pochi secondi erano bastati per uccidere 40.000 uomini e seppellirli sotto le loro case. Mai forse la Morte, oa grande livellatrice, aveva agito tanto rapidamente e con maggiore precisione. Un piano immenso si era formato dove prima esisteva una fiorente città, ma ora con l’esuberante vita dei tropici, di già la natura trionfa con sulla morte, e cominciano a spuntare le pianticelle che presto si trasformeranno nella foresta che coprirà per sempre la grande tomba.

Intanto il silenzio regna sovrano sul quel piano di morte; solo di tratto in tratto s’incontrano dei neri che scavano svogliatamente sotto la sorveglianza di qualche bianco salvato per miracolo, e che si ostina a cercare nella sabbia che seppellì i suoi beni e i suoi cari qualche avanzo delle antiche ricchezze. Ma il mostro compì l’intera opera sua: nulla, proprio nulla è restato; tutto, uomini e cose, furono confusi e trasformati in polvere: più disgraziata di Pompei, S. Pierre è sparita per sempre senza lasciar traccia di sé.

Una tristezza infinita mi spinse a lasciare quel luogo di morte al più presto possibile, ma la mia nave mi conduceva a vedere altre distruzioni.

Qui. avevo visto una città distrutta, a Portorico, avrei visto distrutto il secolare dominio di Spagna e non so quale dei due spettacoli mi parve più miserando: preziosissima è la vita degli uomini, ma la natura ricolma i vuoti; sommo bene e meta suprema della vita è la gloria, ma essa non torna a chi se la lasciò sfuggire.

PORTORICO

Resto in mare dal 10 al 12 luglio, ed il mattino di quest'ultimo giorno, avendo percorso le 360 miglia che separano S. Pierre da Portorico, atterro all'isola Muertos, e riconosciuti i segnali dei secchi che appaiono molto in ordine, entro nel porto di Ponce e mi ancoro vicino al paese stesso dalla parte S. W., dove si ha un buon ridosso pure nei cattivi tempi, rimanendo anche coperto, dal secco che parte da punta Penoncillo.

 

Lo stato del porto lascia a desiderare, perché presso la banchina vi è poco fondo e le barche che devono lavorare per caricare e scaricare i vapori, stentano, assai spesso, ad accostare. Inoltre le comunicazioni con l'estero sono poche e lasciano a desiderare, perché essendo le linee di navigazione col Nord America, o col principale mercato dell'isola, considerate come linee di cabotaggio degli Stati Uniti, tutto deve essere trasportato in American bottoms, ed una sola Compagnia ne ha assunto il monopolio. Manca quindi la concorrenza, i prezzi sono alti ed il servizio scarso e difettoso.

Questi inconvenienti non sono sfuggiti agli Americani; ma nei rapporti dei Governatori ho visto solamente la proposta di scavare il fondo tanto qui che a Maiaguez e S. Juan. Eppure urgenti invero sarebbero questi ed altri lavori e provvedimenti, perchè Ponce è uno dei migliori e più importanti porti dell'isola ed ha buona ragione per contare sopra un prossimo sviluppo, tanto più che ricco assai é il suo territorio.

Presso il porto vi è solamente la parte della città (Playa) più specialmente destinata al commercio e che contiene molte case che trafficano nel caffè; l'altra parte, la più popolata, dista dalla prima circa 2 miglia ed è riunita ad essa da un tram elettrico. La città fu fondata nel 1692; fino al 1824, compreso il circondario, ebbe appena 9.868 abitanti, ma in seguito si sviluppò, ed ora ne ha 78.000, di cui 25.000 in città.

Le costruzioni cittadine sono molto semplici, benché gli abitanti facciano notare, con qualche soddisfazione, alcune chiese, il palazzo del Municipio ed un teatro, a cui cercano di accrescere gloria col ricordare che è opera di un artista italiano. Manca ancora un sistema di fognatura e le strade lasciano a desiderare rispetto ad alcune di campagna recentemente costruite, e che erano invece assai ben tenute.

Vi sono: un buon condotto d'acqua (alla pressione di 25 0 3o lib.), delle fabbriche di sigari fini, una Camera di commercio, delle Case bancarie e diverse Società di beneficenza, di mutuo soccorso ed operaie; le navi possono fornirsi di viveri e di acqua pigliando questa (gratis per le navi da guerra) da uno sbocco presso la banchina, ma non trovano, o almeno non trovavano nel 1904, carbone, e non potevano fare riparazioni.

Noi arrivammo nella stagione morta, ossia quando il porto di Ponce è quasi vuoto, ma il suo movimento ed il suo commercio risultano dai seguenti specchi, nei quali, per quei prodotti che ho potuto, ho indicato anche il loro rapporto, rispetto a quelli di tutta l’isola

[…] (p. 38).

Ma non solamente il distretto i Ponce, bensì tutta l'isola di Portorico, come fertilità e ricchezza di terra, non ha nulla da invidiare alle sue fortunate vicine, ed ha buone condizioni per sviluppare e progredire. Vi sono città di una certa come S. Juan, Ponce, Maiagúez, Arecibo e Humacao, ha clima sano e buono per le Antille, una popolazione di 953.243 abitanti (589.426 bianchi e 363.817 di colore), di cui l'80% abitano la campagna, ed una superficie di 3668. miglia q. di cui il 20% sono coltivate, il 22% sono occupate da strade, città, fiumi, foreste, il 51 % é coperto da boschi o utilizzato dalla pastorizia, ed il 7 % solamente è costituito da terre inadatte alla coltivazione. Delle terre coltivate 1/5 è devoluto allo zucchero, un poco più di 1/3 al caffè, 1/10 al tabacco, un poco meno di 1/3 al riso, ai fagioli, ecc., 1/18 alle frutta, ma molta parte della terra boschiva o occupata per pastorizia potrebbe essere coltivata.

I principali prodotti sono lo zucchero, il caffè, il tabacco, e nei 4 anni che seguirono l'occupazione americana rappresentarono un'esportazione annuale media rispettivamente di dollari: 4.520.740, 2.916.000, 3.676.200. Ma si esporta anche frutta con buoni guadagni, vegetali, verdura, ecc., ed il suo sottosuolo, benché in quantità non rilevanti, ha ricchezze minerarie (sabbia aurifera, rame e piombo) e guano di discreta qualità.

[…] (p. 39)

Importa però notare che il principale dei prodotti dell'isola era ultimamente il caffè; ma il ciclone del 1899 distrusse, specialmente nelle vicinanze di Ponce, dove è maggiormente coltivato, molte piantagioni, arrecando danni gravissimi, da cui l'isola non ha ancora potuto rilevarsi. Ciò é causa di malessere e di vera miseria ed è difficile rimediarvi, perché mancano i capitali e gli Stati Uniti non pare mettano troppo buona voglia nei provvedimenti.

Gl'isolani, invero, vedendo questa rimunerativa industria minacciata di morte, hanno chiesto agli Stati Uniti di avvantaggiarsi delle loro leggi protettive anche per il caffè. A tal uopo sostengono che se politicamente non sono cittadini americani, economicamente lo sono, in quanto ché, provvedendosi essi per la maggior parte sui mercati americani, subiscono i gravami delle loro leggi protettive e quindi possono pretendere di goderne anche i benefizi. E ciò pare loro tanto necessario, in quanto ché hanno bisogno di rimediare alla perdita del mercato spagnolo e di resistere alla concorrenza del Sud America, dove, per le vicende del cambio, la mano d'opera costa assai meno.

E la protezione in generale, già per qualche articolo concessa, si imporrebbe anche se si dovesse mutare la coltivazione del caffè in qualche altra, altrimenti non si avrà modo di resistere alle inevitabili ristrettezze a cui si andrebbe incontro nel periodo transitorio, visto che la maggior parte dell'isola viveva quasi sul caffè. Ma, fino al momento in cui lasciai quel luogo, non pareva che gli Americani fossero disposti ad ascoltare queste domande, e non ho trovato nei rapporti dei Governatori alcun cenno ad esse favorevole. Anzi nei rapporti stessi si nota una certa tendenza a ricordare che in altri tempi (10 anni prima del ciclone) era lo zucchero che teneva il primo posto, invece del caffè, che oggi tende a riguadagnarlo, e anche che i capitali americani, nell'agricoltura in genere e nella sistemazione in particolare di fabbriche di zucchero (erette in nuove piantagioni o in sostituzione dei primitivi mulini), troverebbero ottimi impieghi. Ed in vero i principali zuccherifici dell'isola, recentemente impiantati, funzionano con capitali americani, e si diceva dunque, benché io non possa affermarlo, che gli Americani fanno di tutto per trasformare la coltura dell'isola. Comunque sia, questa versava in tristi condizioni economiche, la gente non trovava lavoro e cercava di emigrare, ed i nostri coloni, sia ben noto agli emigranti, si trovavano in grandi strettezze e non desideravano che di andarsene. Erano essi in generale operai stagnini e venditori ambulanti, che al tempo degli Spagnoli stavano abbastanza bene.

Naturalmente il partito anti-americano fa risalire agli Americani la colpa di questa crisi economica, ed ho letto molti articoli e pubblicazioni in cui era sostenuto che i risultati della guerra sono stati dannosi ai Portoricheni, che questi non hanno fatto altro che mutar padrone, e che col cambio hanno perdute molte libertà politiche. Sono note infatti le vicende storiche dell'isola: nel 1809 la "Junta Central " spagnola dichiarò che le colonie formavano parte integrale della nazione e con le loro rappresentanze al Parlamento nazionale dovevano concorrere al governo popolare della patria comune. Da allora le libertà politiche dell’isola subirono le vicende di quelle della madre patria, ed i suoi rappresentanti andarono in Ispagna, oltre che nel 1812, dopo le rivoluzioni del ’20 e del ’33. Ma nel ’37 le Cortes li esclusero insieme a quelli di tutte le altre colonie, sostenendo che occorrevano alla loro felicità leggi speciali, e solamente nel ’68 furono richiamati, e vi restarono finché nel '97 fu concessa l'autonomia..

In tutti questi avvenimenti, non spiegarono i Portoricheni grandi energie, e non fecero sforzi notevoli per la conquista della loro libertà e per conservarla dopo l'occupazione americana.

Ceduta, non conquistata, l'isola, perché di poco valore furono i fatti d'arme ivi svoltisi, gli Americani dichiararono (strana coincidenza con quanto aveva dichiarato Ferdinando VII) che i Portoricheni non erano pronti alla libertà, perchè erano poveri ed ignoranti, e che conveniva, per la loro felicità, che fossero governati da altri. Un Governo militare fu allora, istituito nell'isola; il Governatore ammoni gli abitanti che il miglior cittadino di Portorico era quello che non si occupava di politica, e facendo astrazione da ogni considerazione politica, le condizioni generali migliorarono.

Si ripararono le vecchie strade, se ne aprirono delle nuove (vi sono anche ferrovie che partono da Ponce e da S. Juan e che dovranno congiungersi circondando tutta l'isola, e servizi regolari di vapori costieri), si fondarono istituzioni di beneficenza e di pubblica utilità, si aprirono nuove scuole (da 539 che erano prima della guerra, nel 1902 erano salite a 939 con 45.000 alunni) e si migliorarono le condizioni igieniche. Inoltre una onesta amministrazione e la sana amministrazione della giustizia, provvidero non solo al bene economico, ma anche alla educazione morale e civile del popolo, ed il progresso fu così sensibile che il. 25 luglio 1901 l’isola si trovava in condizioni di sopperire alle sue spese, onde gli Americani poterono mantenere le promesse di concedere, nel 1900, il Self-Governement e nel 1901 il libero commercio con l’America.

Secondo la legge Foraker, l'isola ha un Governatore, assistito da un Consiglio esecutivo di 11 membri di cui 6 sono a capo delle varie amministrazioni e 5 non hanno incarichi. I membri di questo Consiglio, di cui una parte può essere americana, sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti e costituiscono la Camera alta, che amministra le rendite da essa votate, e per la sua costituzione riunisce le attribuzioni del potere esecutivo e di quello legislativo, ossia regna e governa. Vi è però una Camera elettiva, con 35 membri, ma non ha diritto a molte iniziative; le imposte non hanno origine da essa, e la Camera alta si fa da essa, per cortesia, aiutare nella compilazione dei bilanci. Gli Stati Uniti, infine, si riservano il diritto di annullare tutte quelle leggi votate dal Governo locale che non crede utili all’isola o non opportune. Date queste istituzioni, molti Portoricani sostengono che la loro non é libertà, e si sono formati due partiti: l’uno repubblicano, che è al Governo, favorevole agli Americani; l’altro di opposizione (federale) agli America contrario, ma, per ora almeno, questo secondo si limita a semplici declamazioni e, data l’apatia dei Portoricheni, benché molti malumori vi sieno, non credo esagerata l'opinione dei Governatori che il popolo rispetta le leggi e le nuove istituzioni, che è gentile e ben disposto, che l'isola è in progresso e che le sue condizioni morali ed intellettuali hanno molto migliorato. Mi parve perciò come di sentire i prodromi di una vita nuova, promettente un prossimo avvenire fecondo di progresso e di libertà, onde ben diverse furono le impressioni che provai nella vicina Haiti.

HAITI

Lasciai Ponce la mattina del 14 luglio, ed il 16 ero a Capo Tiburon. Nella notte raggiunsi l'isola di Gonave, e, passando nel canale al sud di essa, dopo un percorso di 135 miglia, andai a far fondo a Port au Prince nel pomeriggio del 17. 

Il porto è sicuro, e la città, disposta ad anfiteatro, con ricca vegetazione tutta intorno, ha bell'aspetto, ma guai a vederla da vicino! Le case sono mezzo corrose, le strade in completo abbandono ed ogni specie d'immondizie e di rifiuti è abbandonato in mezzo ad esse, lasciando al sole l’incarico di dissolvere ogni cosa, ed al vento ed ai corvi quello di portar via ciò che possono.

 I bianchi sono pochi e vivono fuori città; anche la nostra colonia fortunatamente è poco numerosa, e sarebbe utile dire a tutti di guardarsi da questa isola disgraziata.

Le navi poi, tolti i viveri freschi, è meglio non facciamo affidamento nelle risorse di Port au Prince, e per avere dell’acqua da lavanda. ben inteso, devono mandare un'imbarcazione al fiumicello, che è al sud della città, provvista di pompa e lunga manichetta, perché il fondo è poco, e bisogna stabilire la presa a monte del posto occupato dalle lavandaie. 

Non fornisco dati economici od industriali per questo porto e per tutta la repubblica di Haiti, perché la confusione è tale che nulla di preciso potei appurare. Posso solo dire che la Germania tende ad assorbirne la maggior parte del traffico e che i prodotti principali sono il caffè, il cacao ed il campeggio, ma in quantità assai esigua rispetto a quelle che I' isola potrebbe produrre. Essa infatti non rivali per varietà di suolo, di produzione e di clima e per bellezza di paesaggio, onde devesi annoverare tra le più fertili delle Antille. Il caffè viene in abbondanza e cosi pure lo zucchero, il cacao, il cotone, la vainiglia, i banani ed ogni specie di frutta. Il suolo è ricco di minerali, ed una buona coltivazione ed un razionale sfruttamento renderebbe questa terra un vero paradiso terrestre.

 Al tempo dei Francesi (le conquiste dei buccaneers furono riconosciute nel 1696) v'erano infatti moltissime piantagioni, e nel 1779 si esportarono 161.000.000 di libbre di zucchero; 8.000.000 di libbre di cotone, e 88.630.502 di libbre di caffè; ora invece lo zucchero è quasi abbandonato, la produzione del cotone non arriva a 1.000.000 di libbre ed il caffè è poco e cattivo, per la nessuna cura con cui si raccoglie. Il paese allora aveva strade e buone comunicazioni, ma adesso ogni traccia di viabilità è quasi sparita tra le varie città, e non sono neanche degni di menzione i 45 km. di ferrovia esistenti.

 I bianchi una volta possedevano grandi ricchezze, e la città di Capo Haitien, che allora era la più florida, si vantava di gareggiare con Parigi per la magnificenza dei suoi equipaggi, nei quali si adagiavano le belle creole, mettendo in mostra il loro lusso notevolissimo; oggi invece la miseria é tale che 100 dollari americani ne valgono 530 del paese.

 Tutto è distrutto; Jacmel, Cayes, Gonaive, Capo Haitien e la capitale Port au Prince.si fanno solamente notare per la loro sporcizia ed il loro disordine.

 Quando il nero Toussaint Louverture levò la bandiera della rivolta in nome dei principi di libertà proclamati in Francia dalla Rivoluzione allora vittoriosa, i neri percorsero il bel paese come una valanga terribile, spargendo da per tutto l’incendio, la distruzione e la morte. I bianchi che non riuscirono a sfuggire furono uccisi, i vincitori si assisero al loro posto, ancora sporchi di sangue, e, scimmiottando gli usi e le vanità degli Europei, giunsero fino a creare tutoli nobiliari come quello di Principe della Marmellata e di Duca della Limonata; costituirono quello strano esercito che un francese di spirito chiamò dei generali, perché questi sono quasi più numerosi dei soldati ed iniziarono, pur avendo in t4eoria istituzioni modellate su quelle di Francia, quel mal governo che ha prodotti i mali e le miserie attuali.

E, a compiere l'enumerazione delle miserie di Haiti, ricorderò esser credenza assai diffusa tra i viaggiatori e gli scrittori che il misterioso culto di Vandoux domini sempre nell’isola e che annualmente si compiano in suo onore sacrifici umani e scene di cannibalismo. Io ho sempre esitato a prestar fede a questi racconti, ma il direttore della Polizia di un'isola inglese, persona naturalmente assai colta e seria, mi affermava che ciò constava a lui personalmente.

Cuba

Lasciai quindi (20 luglio) Port Prince, senza rimpianti, e l'indomani (220 miglia fino a Santiago ero a Cuba.

Quest'isola ha forma molto allungata da levante versoi ponente, con una lunghezza massima da Capo Maisi a Capo S. Antonio di 730 miglia, una larghezza massima di 110 miglia nella provincia di Santiago ed una minima di 25 miglia presso Avana. Ha ottimi porti naturali perfettamente chiusi tra le terre, ma con anguste entrate come Guantamano, Santiago, Cienfuego, Bahia-Honda, Habana, Porto Padre, Nipe, ecc., e la sua costa sud tra Capo Maysi e Capo Cruz è libera da ogni pericolo ed è assai elevata. Tutta la provincia di Santiago del resto è molto accidentata per le montagne che la attraversano, e notevoli tra esse e visibílì dal mare sono la Sierra del Cobre, presso la città di Santiago stessa, e quella Maestra più a ponente, con parecchie montagne di 5000 piedi ed alcune di 8300. Ma dal Capo Cruz quasi fino a Capo S. Antonio la costa diventa in generale bassa e paludosa (eccetto presso Cienfuegos dove si eleva una catetia di montagne e sorge una foresta quasi impenetrabile (1) ed è circondata, da una lunga serie di banchi e di isole tra le quali l’ampia isola di Pinas.

_____

1. Altre elevazioni notevoli sono quelle di Pinon del Rio (2500 piedi) ed il terreno ondulato delle province di Matanzas ed Avana.

_________

 Parecchi corsi d'acqua irrigano l'isola, tra i quali il più notevole è il Cauto, con un corso di 150 miglia, e l'isola in generale non difetta di acqua potabile. Il clima è caldo, la temperatura media è di 26°, ma è poco variabile, tanto che le oscillazioni medie risultano di 6°, le temperature estreme però notate eccezionalmente all’Avana sono 11° e 44°.

Una volta l’isola era poco salubre, e terribili risultavano specialmente le epidemie di febbre gialla; ora le condizioni sono molto cambiate ed il paese può dirsi in genere risanato ed è certo molto più sano del. Brasile.

Fertilissima è la terra e grandissima la varietà delle sue piante tanto che oltre le esotiche se ne contano fino a 3500 specie, ma molta parte del suolo (quasi la metà). non è coltivata. Scarsa invece è la fauna: molti animali come cervi, conigli, ecc., sono stati importati; una certa varietà solamente si nota negli uccelli e nei rettili, e tra questi molte specie di coccodrilli, camaleonti, serpi, ecc. Ma di animali velenosi quasi non ce ne sono, anzi si può dire che, fatta eccezione di una specie di scorpione, che non produce però ferite mortali, non esistono nell’isola animali pericolosi.

All’epoca della scoperta si valuta vi fossero tra uno o due milioni di Indiani, appartenenti ad una razza superiore a quella delle altre Antille; ma al solito furono distrutti dagli Spagnoli tanto che non rimangono superstiti. Presto quindi cominciò la importazione degli schiavi africani e quando si promulgò l’abolizione della tratta, si. ricorse ai cinesi, dei quali pochi ora sono rimasti. Tra bianchi e gente di colore, la popolazione si faceva ascendere prima della ultima guerra ad 1.800.000 abitanti occupati principalmente nell’agricoltura, ma vi sono anche miniere di ferro, di rame, di argento, di oro, di asfalto, ecc.… I prodotti, principali dell’isola sono lo zucchero ed il tabacco e poi frutta, legumi, vegetali, granturco, riso, caffè (di questo però solamente quanto basta al consumo interno) e piante tessili. Prima della guerra v'erano circa 100.000 piantagioni tra. grandi e piccole (a cui corrispondevano numerosi zuccherifici) orti e pascoli e nell’anno 1894-95 si ebbero i massimi prodotti di zucchero e tabacco, e cioè 1.054.000 tonn. del primo e 62.000.000 di libbre del secondo, ma si potrebbe avere almeno 5 volte tanto, e c’è posto per una popolazione molto più fitta (almeno 5 o 8 milioni). Occorre però molto tempo ancora per giungere a questa prosperità, perché la Spagna non provvide al benessere dell’isola, e le guerre per l’indipendenza hanno prodotto grandissimi mali. Queste guerre durarono moltissimo. Le concessioni fatte ai Cubani dagli Spagnoli subirono vicende analoghe a quelle ricordate per Portorico, ma i Cubani mostrarono maggior energia nel cercare di conservarle La prima rivoluzione il ristabilimento dell’assolutismo scoppiò nel 1823,1 e poiché la Spagna non seppe trovare altri mezzi per calmare il giusto risentimento del popolo che le violenti repressioni, si formarono Società segrete e crebbero i malcontenti. Seguirono i moti del 1830, e poscia le agitazioni, oltre che sul posto, furono preparate nella vicina America. Si ebbero così tentativi di sbarco di insorti tra il '49 e il ’51, e molti moti "nel '52 e '59, e poiché le tentate riforme delle commissioni del 1865 a poco approdarono, scopiò nel 1865 la guerra dei 10 anni. In seguito ad essa furono concesse libertà e facilitazioni ed i rappresentanti di Cuba riebbero il posto nelle Camere spagnole, ma le applicazioni pratiche delle concessioni, furono assai difettose, e ad accrescere il malcontento concorsero i disagi economici derivanti dall'abbassamento del prezzo dello zucchero, dalla abolizione della schiavitù, dalle gravi imposte e dall'enorme debito pubblico (400.000.000 di pesos nel 1897).

Osservano perciò i Cubani che poco potevano fare i loro rappresentanti alle Camere, perché la maggioranza apparteneva alla Spagna propriamente detta, onde essi erano sfruttati a beneficio di questa, ed a prova ricordavano che dei 25.000.000 di pesos che da essi si pagavano, solo il decimo era speso sul posto. Tutto ciò doveva condurre, ed infatti condusse, ad una nuova rivoluzione e nel 1895 alla guerra per l'indipendenza.

Gli Stati Uniti fin dal 1825 avevano dimostrato le loro simpatie per la causa cubana: col manifesto di Ostenda offrirono alla Spagna venti milioni di dollari, perché lasciasse l’isola e durante la guerra dei 10 anni il presidente Grant minacciò l’intervento a favore dei Cubani. Ma più attivi si mostrarono fin dall'inizio della nuova guerra, subito offrirono i loro. buoni uffici, intervennero amichevolmente a favore dei reconcentrados e, dopo lo scoppio del Maine, iniziarono la guerra. Allora gli avvenimenti precipitarono: il 14 giugno 1898 sbarcarono le prime truppe, il 3 luglio fu distrutta la flotta spagnola, il 16 capitolò Santiago ed il 10 dicembre si firmò, la pace di Parigi. Ogni dominio spagnolo cessò così nell'isola ma infelici assai erano le sue condizioni quando gli antichi padroni la lasciarono.

La popolazione (censimento fatto, dagli Americani nel 1899) era scesa ad 1.572.797 abitanti, ma già durante la guerra dei 10 anni si era ridotta del 12%; la proprietà era quasi tutta gravata da ipoteche, e le tasse enormi, oltre ad avere esaurite le risorse locali, erano state causa di corruzioni, perché lo sperpero e le male appropriazioni della pubblica ricchezza avevano fatto penetrare la disonestà dappertutto. E’ incredibile quello che sì racconta circa le irregolarità che si commettevano anche nelle dogane e pare, secondo quanto dicono sul luogo (ripeto non affermo) che si facessero passare per merci vili quelle che maggiormente erano gravate di dazio (i1 caffè era spesso sdoganato come granturco, lo strutto come patate, lo champagne come acqua minerale) e che si alterassero le fatture delle merci. Negli ultimi anni un gran disordine regnava in ogni ordine politico, economico e sociale; tutte le pubbliche istituzioni erano in completo abbandono; le prigioni riboccavano di arrestati, senza che giustizia si facesse; nei tristi fossi del Castello d’Avana si eseguivano le fucilazioni; i reconcentrados aumentavano con le loro miserie la desolazione, molti zuccherifici furono distrutti, e quelli che si salvarono pagarono spesso assai cara la loro immunità; i campi di canna furono bruciati in gran parte e le campagne, salvo in qualche punto dove dei soldati dell'esercito rivoluzionario erano incaricati di coltivare un po’ di terra nell’interesse dell'esercito, erano state abbandonate. Anarchia dovunque e miseria da per tutto; molti non uscivano di casa perché non avevano da vestirsi e molti morivano di fame. 

Eppure, esempio mirabilissimo, la partenza delle truppe spagnole e l'insediamento del Governo americano avvennero senza incidenti notevoli, nonostante le enormi difficoltà provenienti non solo dalle dette condizioni, ma anche dalla naturale diffidenza del popolo, dalle guerriglie spagnole rimaste nelle montagne e dall'esercito libertador, ancora in armi, minaccioso e turbolento. Occorreva quindi impedire che i componenti di quest'ultimo, da tanto tempo disabituati al lavoro, si dessero al brigantaggio e dovevasi provvedere ai bisogni più urgenti del paese. Si pensò, prima di ogni altro, a rimediare al flagello della fame, distribuendo gran quantità di viveri, e procurando lavoro ai bisognosi, e così facendo si ebbero anche le braccia necessarie accudire bai pubblici bisogni e migliorare le condizioni igieniche del paese.

 L’isola fu quasi sottomessa ad un bagno di sublimato; si pulì, si disinfettò, si tolsero le fonti dei miasmi e delle infezioni, si riaprirono gli ospedali, si distribuirono vesti e medicine, e si fecero veri miracoli che presto fecero diminuire le malattie ed i flagelli. Ed intanto si provvide a che la gente tornasse alla terra, perché il lavoro risanasse anche le anime e migliorasse lo stato economico del paese.

Furono: condonate le tasse arretrate, sfollate le prigioni, ripristinato l'ingranaggio della giustizia (ché le leggi non mancavano, ma i metodi per la loro applicazione erano difettosi) e concesse più libertà ai Municipi (ché la centralizzazione eccessiva rendeva lenta la macchina dello Stato). Grande saviezza dimostrarono sempre i governatori militari e si fecero in generate guidare, dal principio, purtroppo in altri paesi trascurato, che anche le migliori leggi possono riuscire dannose quando sono applicate con fretta e non sono adatte all’indole dei popoli. Prima quindi di qualsiasi modifica o mutamento, esaminarono sempre la storia e lo svolgimento delle leggi esistenti, studiarono quelle in progetto in relazione col carattere del popolo, e, salvo casi urgenti, mai abolirono una legge o fecero una radicale modifica se prima non si furono convinti. che anche con una buona applicazione questa legge era imperfetta, oppure che quella modifica era imposta dai tempi ed adatta ai caratteri delle popolazioni ed ai bisogni locali. Ed invero un serio studio essi fecero di ogni località, rinunziando spesso ad escogitare provvedimenti generali, che non sarebbero riusciti adatti dappertutto.

Per rimediare al pericolo che presentavano le genti armate, da una parte trovarono il modo di far sparire le guerrillas, e dall’altra con vari pretesti tennero l'esercito liberatore occupato. per un corto tempo, salvo a concedere licenza a tutti quelli che la chiedevano. Quando poi le cose apparvero un po’ più regolate, mandarono tutti a casa, avendo però avuto prima l'avvertenza di distribuir loro la ingente somma di 3.000.000 di dollari, ossia una media di circa 750 dollari per persona, onde metterli in grado di poter riprendere le loro occupazioni. In seguito poi, perché questi liberatori non diventassero sanguisughe sulle carni vive dello Stato, il Governo cubano s’impegnò di fare un'altra larga distribuzione di denaro fino alla concorrenza di 35 milioni di dollari, in modo che ognuno, per il tempo che aveva servito, percepisse le adeguate paghe supposte arretrate. Questi provvedimenti rifuggono alle nostre idealità, ma si sono dimostrati utili, perché il paese si è liberato una volta per sempre dai liberatori che non eran tutti pasta di eroi. Ed i benefici non si arrestarono a quelli descritti, ché furono distribuiti impieghi a tutti quelli delle classi elevate che avevano più o meno cooperato nella rivoluzione e nella guerra, onde, con una di quelle notevoli soluzioni della pratica America, il paese si trovò di non dover materialmente più nulla ad alcuno. Non è a credere però che il denaro distribuito sia andato tutto a vantaggio dei soldati, ché anzi molti speculatori, i quali, secondo mi dicevano, in maggioranza erano americani, ne trassero profitto. Questi speculatori, profittando della miseria dei soldati e della poca fiducia che il popolo seguitava ad avere in ogni promessa governativa, si affrettarono a proporre degli anticipi, o meglio degli acquisti dei crediti di ognuno di essi, alle gravissime condizioni di anche meno del 40%. Ed, incredibile a dirsi, questi disonesti affari seguitavano quando già era cominciato il pagamento, ed ho conservato un giornale di Santiago in cui in una parte è annunciato il 5° arrivo dall'America del denaro destinato ai pagamenti dell'esercito, ed in un'altra si proponeva l'acquisto dei crediti dei soldati al 45%.

Altro problema grave che s'imponeva al Governo era quello di far rifiorire l'agricoltura. I piccoli, coltivatori di canna e di tabacco si rifecero abbastanza facilmente; ma per le grandi coltivazioni della canna, e per creare i nuovi e rifare i vecchi zuccherifici, occorrevano capitali che difettavano ancora quando io era sul posto, benché molti Americani cominciassero a concorrervi. Ed a questo proposito importa. ricordare, che nelle grandi piantagioni spesso i padroni fanno ai contadini facilitazioni e concedono mezzadrie, purché assumano la coltivazione per conto loro di piccole estensioni di terreno. Se questo sistema e quello di cedere da parte del Governo a facili condizioni. le terre intorno ai nuovi zuccherifici si estendessero in un modo razionale, si faciliterebbe l'immigrazione dei coloni europei, perché sì offrirebbero a questi dei buoni ed onesti vantaggi. Devonsi però notare due fatti importanti: una certa tendenza dei piccoli agricoltori ad abbandonare la coltivazione della canna per darsi a quella più facile delle frutta e dei tabacco, ed il graduale assorbimento dell'industria da parte degli Americani.

 Subito dopo la guerra i grandi coltivatori locali si rivolsero ai governatori Americani per avere danaro; ma fu loro saggiamene risposto che non sarebbero bastate tutte le risorse dell’isola per far ciò e che un simile sistema sarebbe stato economicamente e politicamente dannoso, perché avrebbe le utili iniziative ed avrebbe creato gelosie e malcontenti. Essere quindi solo dovere del Governo accudire e provvedere a quei pubblici lavori che allo sviluppo dell'agricoltura sono necessari, e facilitare la formazione di quegli istituti bancari che sono sorgenti di ricchezze nazionali ed impediscono il monopolio del denaro. E queste promesse, almeno per ciò che riguarda la prima parte, furono assai ben mantenute, ed ho visto io stesso delle magnifiche strade aperte durante il Governo degli Americani, ed importantissima fra tutte la strada ferrata, costruita in pochissimo tempo, tra l'Avana e Santiago. Questa grande e vitale arteria traversa tutta l’isola nella parte centrale, passando in località dove l'uomo mai era penetrato, e sarà fonte di nuova vita e di civiltà. Eppure essa era stata studiata, progettata ed approvata non so quante volte dagli Spagnoli, ma i proprietari dei vapori costieri trovavano sempre modo di non far incominciare i lavori.

Importava finalmente educare il popolo; ed a ciò si provvide col buon esempio e col sano governo, perché apprendessero se non lo spirito devotionis, o la rinuncia di se stessi al bene comune, almeno il sentimento che i pubblici uffici sono posti di fiducia e non di speculazione. Inoltre si aprirono molte scuole (più dell’80% della popolazione rurale era analfabeta) e si cercò di far intendere a tutti che in essa devonsi formare i buoni cittadini invece dei cattivi politicanti che prima creava la piazza. E da quello che ho visto e sentito, mi pare che gli Americani sieno riusciti ad infondere nella maggioranza il concetto che le scuole sono la salute della nazione, ed importa devolvere ad esse i denari che occorrerebbero per istituire milizie cittadine, imperocchè alla protezione esterna provvederanno sempre gli Stati Uniti e per l’ordine interno bastano i 5000 uomini di milizia rurale, come son chiamate le forze armate della nuova Repubblica. Il principio ora detto non é completamente vero, e non si può accettare in tutte le sue parti, ma risponde agli interessi degli Americani ed è completato dalle parole di uno dei loro capi, il quale affermò in un rapporto che sarebbe stato meglio lasciar l’isola alla Spagna, se prima di andarsene gli Americani non avessero stabiliti per essi dei vantaggi capaci di formare legami indissolubili di amicizia tra i due paesi, di assicurare la forma repubblicana in Cuba, di facilitare il loro commercio nell'isola, di permettere il loro intervento per mantenere l'ordine pubblico, la pubblica igiene, la pubblica economia e la indipendenza dell'isola dagli stranieri. E tutto ciò in vero fu inserito nella carta fondamentale della costituzione dello Stato di Cuba, ed a me pare che non convenisse agli Americani chiedere di più. Infatti essi non potevano della Perla delle Antille fare un loro possesso, né potevano incorporarla nella Federazione, perché sarebbe stata per loro una causa di debolezza in caso di guerra.

L'acquisto invece della stazione navale di Guantamano, che insieme a Culebra domina sul Mar Caraibico, e di quella di Babia Ronda che concorre alla difesa del Golfo del Messico, erano utilissime ai loro progetti imperialisti. L'isola di Cuba quindi apparentemente è libera, ma in realtà dipendente da essi economicamente e politicamente: era quello che loro più conveniva e l'hanno ottenuto. Ogni giorno invero essi stringono nuovi legami economici con l'isola e vi si stabiliscono con più larghezza i loro interessi e la loro influenza politica. Ciò però non piace ad una parte dei Cubani, onde un partito va formandosi contro di essi tanto più facilmente che, in causa del carattere instabile e turbolento del paese, quasi non esiste alcun sentimento di riconoscenza per la benefica opera degli Americani e si dimentica che essi trovarono il paese desolato, indisciplinato e in piena anarchia e dopo breve tempo seppero consegnarlo al Governo locale pulito ed ordinato, con tutte le pubbliche amministrazioni in regolare funzione, ed avviato verso la prosperità.

 I Cubani, appena lasciati a loro stessi, si mostrarono assai saggi, ubbidienti alle leggi ed alieni dalle turbolenti lotte politiche, onde le prime elezioni riuscirono abbastanza ordinate, e, sia per la minaccia dell'intervento, sia per una maggiore saviezza politica acquistata, le cose andarono bene, per un pezzo. Ma al tempo in cui io era laggiù già le lotte si accentuavano, e per certe lamentate irregolarità nelle elezioni, i deputati uscenti credettero di non lasciar il loro posto, e si determinò una. specie di sciopero di nuovo genere, per il quale le Camere non si trovarono per lungo tempo in numero e non potettero funzionare. 

Nei primi tempi si astennero dalle urne quelli che non avevano preso parte alla rivoluzione e perciò non vi era, a vero dire, che un sol partito ben costituito, non potendosi dare il nome di partiti ai gruppi degli scontenti, dei turbolenti e di tutti quelli che odiavano l'ordine; ma per errori dei capi del partito, dirò, legale, cominciarono le scissioni, onde tra i gruppi ora detti cominciarono ad entrare elementi che li accreditarono, e che li elevarono a loro volta all'onore di partiti politici. Si ebbero così presto due partiti divergenti principalmente sulla convenienza oppur no di stabilire leggi protettive e di accentrare i servizi nella capitale. Ma, siccome i vecchi mali non sono completamente sanati e sotto la maschera della politica spesso si nasconde il desiderio smodato del potere per interessi personali, i partiti crebbero in numero perdendo in chiarezza, anche perché difettano di capi di grande energia e levatura, capaci di riunire le forze nei due grandi gruppi che al tempo del mio passaggio si tentava di formare col nome di liberale e moderato. Apparivano quindi fin da allora i prodromi quei mali che condussero al conseguente intervento americano, benché le condizioni generali fossero buone, i pubblici servizi organizzati, le leggi rispettate, la moralità in rialzo, le scuole in                grande sviluppo, l'agricoltura e le industrie in progresso, le spese ben commisurate alle entrate (il tesoro aveva 7 milioni di dollari di economia), le animosità contro gli Spagnoli in sensibile diminuzione.

Il progresso però del paese richiede un aumento di abitanti (la densità della popolazione rurale è appena di 1,1 per kmq.); per coltivare le terre ora bisogna far venire lavoratori da fuori almeno durante la raccolta dello zucchero, e quindi il problema della immigrazione preoccupa i governanti. Ed a questo proposito importa ricordare che nel 1904 si formò nella Camera una forte corrente contro l'immigrazione italiana, e che quel partito impose al Governo di fare un esperimento di immigrazione unicamente con coloni spagnoli e delle Canarie.

Questi ultimi in particolare sono i preferiti, ma. non so con quanto criterio si possa sperare di trarne il numero sufficiente da un così piccolo arcipelago. La discussione che si fece in proposito fu poco seria e la gente di buon senso non si dissimulava che alcuni dei focosi oratori erano spinti dalla preoccupazione che le terre governative fossero distribuite agli emigranti e quindi sfuggissero alle loro brame. È un fatto però che molti Cubani ignorano che cosa sia l’Italia, e come conseguenza di questa ignoranza tengono in poco conto gli Italiani, tanto più che scarsi assai sono i nostri connazionali stabiliti nell’isola. Quando io era laggiù, mi assicurarono che ve ne erano un migliaio circa, ma il solo documento ufficiale che allora si poteva invocare in proposito (il censimento del 1899) riduceva questo numero, già piccolo, alla metà. Tolti alcuni professionisti e qualche commerciante, in generale erano povera gente, tra cui predominavano, i merciai ambulanti ed i figurinai lucchesi, onde i Cubani si sono formati il concetto che il nostro è un paese di affamati e che come cavallette si riverserebbero sull’isola se ce ne aprissero le porte. Non sarebbe difficile rettificare queste idee e dimostrare i grandi vantaggi che potrebbe ritrarre l'isola dal lavoro dei nostri concittadini; ma forse gli Americani stessi ci ostacolerebbero, perché essi hanno invece interesse a che una forte corrente di immigrazione italiana si avvii verso i loro Stati del Sud. Quindi, per quanto Cuba possa presentare dei vantaggi per la nostra immigrazione, e per quanto, grazie al trattato di commercio, potremmo ottenere tutto quanto ad altri fosse concesso, ho molte ragioni per dire che non abbiamo convenienza ad avviare colà i nostri emigranti.

Ed invero attualmente i coloni hanno paghe assai basse rispetto al costo generale della vita nell'isola stessa, ed un vitto che non si confá alla nostra gente. Perché l’immigrazione potesse risultare utile agli emigranti agricoli ed all'isola, bisognerebbe fare a quelli distribuzione di terre e facilitazioni analoghe a quelle, per esempio, che mi propose più tardi il Governatore della Guyana Olandese; ma per ottenere ciò, avremmo dovuto essere pregati di andare. Nelle condizioni attuali invece gli emigranti sarebbero unicamente sfruttati a vanta degli ingordi proprietari, ed io saprei appena indicare l'isola a qualche professionista che cerca lavoro all'estero, e specialmente agli ingegneri che hanno fatto studi relativi alla fabbricazione dello zucchero. Più vantaggioso invece sarebbe mirare al commercio dell'isola, ed a questo proposito fornisco alcune notizie sulle sue condizioni economiche, e comincio col ricordare che il bilancio preventivo pel 1903-04, compresi i nuovi lavori pubblici, supponeva: Entrate . . . . doll. 18.899.500; Spese . . . . . . . . . .doll. 17.,924.013.

 Delle terre disponibili (900.000 caballerie; una caballeria è uguale a 151.000 mq.), meno della metà (400.000 caballerie) è coltivata; e secondo la relazione della Segreteria dì agricoltura, industria e commercio, nel 1903 erano in lavoro 160 zuccherifici […] (pp. 53-54).

Da queste ultime cifre si deducono, per ciò che riguarda l’Italia (la quale rappresenta il 3% degli affari), considerazioni analoghe a quelle fatte per le altre isole; ma si deve osservare che i pochi viaggiatori di commercio, mandati dalle nostre Case, fecero, in generale, buoni affari, perché il mercato è assai adatto alle nostre produzioni. Né si può opporre che gli Americani cercheranno di assorbire tutto il commercio, perché vi sono cose che essi non producono o non hanno convenienza ad esportare, e l'Inghilterra (il 17% degli affari), la Francia (il 6%) e la Germania (il 6.4%) fanno ogni sforzo per cercare di occupare il posto lasciato dalla Spagna. Noi potremo fare loro concorrenza almeno con le merci altre volte da me citate, e con un poco di abilità e di lavoro potremmo impedire lo sconcio che le merci italiane arrivino qui da porti esteri. Ma per fare ciò occorrerebbero delle linee di navigazione e queste potrebbero facilmente stabilirsi, perché ricaverebbero profitti anche nel grande movimento passeggeri ricchi che vanno a passare l'estate in Europa. Per quanto i Cubani conoscano poco l'Italia, non ignorano però che essa possiede grandi bellezze naturali ed innumerevoli e gloriose maraviglie, e desiderano visitarla, almeno per soddisfare la moda. Se, quindi, ci fosse qui una linea nostra di grandi vapori, comodi, veloci ed a due eliche, un buon numero di essi ne profitterebbe, perché i nostri vapori hanno buona fama. Cosi le loro visite all'Italia avverrebbero più spesso e più facilmente, molte lagnanze sarebbero sanate ed il nostro paese sarebbe meglio conosciuto ed apprezzato.

***

La prima parte dell’isola che vidi fu la costa intorno a Santiago che, come dissi, è coronata da montagne alte, scoscese e verdi per folti boschi.

 Un buon punto di riconoscimento a levante di Santiago è la piccola insenatura di Daiquiri, bene individuata da un molo di ferro, al quale, quando il tempo lo permette, accostano i vapori per imbarcare il minerale di ferro che vi arriva da una vicina miniera. L'entrata poi del porto è situata 13 miglia più a ponente ed è riconoscibile pel promontorio scosceso che sorge a levante di essa, sormontato dalle vecchie costruzioni dei Castello spagnolo del Morro, da un albero da segnali e dal fanale. Le colline invece, che sono a ponente dell'entrata stessa, hanno un declivio più dolce, e degradano verso di essa.

 Mentre mi avvicinavo, il tempo era magnifico ed i primi raggi del sole nascente indoravano la nuova bandiera cubana sventolante sul Castello del Morro, mentre la massa nera e pesante di questo rimaneva ancora nell'ombra e mi parve che quel contrasto tra la luce le tenebre simboleggiasse il contrasto tra il presente ed il passato e facesse apparire la piccola bandiera rappresentante il paese e risplendente nella gloria del sole, come un aquilotto che provasse le giovani ali agli alti voli.

 Ma tosto verso ponente, sulla spiaggia solitaria e selvaggia, scopersi un'informe carcassa abbandonata senza sepoltura all’ira dell'Oceano ed alla rapacità degli uomini che ne avevano strappato, con meschino lucro, i pochi ornamenti di qualche valore. Ed una grande pietà si fece nell’animo mio, perché quelli erano i resti di una delle corazzate spagnole, l’Almirante Oquedo", e poiché il sole già alto aveva fatto sparire i contrasti, eguagliando nella sua luce benefica tutte le cose, sentii come quella carcassa di nave, abbandonata al dileggio, forse legata come un enorme peso ai piedi dell’aquilotto, splendente là su, e ne fermasse il volo.

 Più tardi, dissi ad un cubano, assai influente in politica di quella grande pietà, ed egli mi promise che avrebbe :pensato a far cessare quello sconcio, ma lo fece per pura cortesia, perché mi parve non afferrasse il mio sentimento e rimanesse attonito come chi sente le parole di una lingua nuova. E così pure non riuscii mai a strappare ad un cubano un racconto vivo e palpitante della guerra svoltasi nelle sue terre tra Spagna ed America, ed ebbi l'impressione che essi fossero stati spettatori anziché gli attori e gli ispiratori del grande dramma, che ebbe il suo epilogo presso Santiago, sotto l'albero della pace, dove si firmarono i patti che assicuravano a Cuba la libertà.

Dovetti perciò ricorrere agli stranieri per avere le notizie che cercavo, e che confermavano il mio concetto di non essere state cioè anche le operazioni degli Americani scevre di errori. E’ notevole invero che le mura del Morro ed i due cannoni tolti dalla " Reina Mercedes ", e sistemati su di una collina di Caie Smith per battere di infilata il passo di Santiago, siano rimasti incolumi nonostante le migliaia di colpi che gli Americani spararono contro dì essi. Pare anche provato che una notte gli Americani cannoneggiassero le proprie torpediniere, onde si disse che se Cervera fosse uscito di notte coperto da un attacco delle siluranti, grandi danni avrebbe potuto arrecare al nemico, e salvare qualcuna delle sue navi . Altri sostenne invece che uscì di giorno, perché a quell’ora il blocco si rallentava molto: ma perché seguitare a discutere, a fare ipotesi e ad inacerbire i vinti? A me piace pensare che l’Ammiraglio Cervera, giudicando la sua squadra irrimediabilmente perduta, volle, memore dell’antica grandezza, avere un bel gesto da eroe ed andare a morire in pieno sole e con tutte le bandiere spiegate, nel grande mare infinito che aveva visto passare la gloria di Spagna. Pace dunque e non guai ai vinti!…

Questi pensieri si affollavano alla mia mente mentre mi avvicinavo al passo. Angista assai è la sua entrata e con mare grosso è pericolosa perché bisogna randeggiare la base del Morro, e vi è un momento in cui mentre la prora resta al ridosso e la poppa è           ancora colpita dai marosi, la nave deve manovrare. I secchi però sono ben segnati e si trovano sempre piloti dall'alba alle 22; ma anche dopo quest’ora facendo gli opportuni segnali od anche sparando un colpo di cannone, una nave da guerra può sperare d’averne uno dopo una certa attesa.

Mentre imboccavo il passo ebbi a domandarmi come mai il Merimac non riuscisse nella sua impresa, perché, arrivato fin là, gli bastava mettere il timone alla banda per incagliare nel secco Diamond e chiudere l'entrata. Esso invece affondò molto più in dietro e per far ciò dovette manovrare bene per girare il secco ora nominato vare presso punta Churruca, ossia fin quasi a Caie Smith dove, come ho accennato, gli Spagnoli costruirono una batteria con due cannoni della Reina Mercedes e che vidi, passando, intatti al loro posto.

Dopo Caie Smith il bacino si allarga, ma il canale seguita sempre tortuoso e difficile, finché non si arriva nelle acque dell’ampio magnifico porto, dove le navi possono stare al sicuro di ogni cattivo tempo. E poiché le campagne intorno cominciano a riacquistare la loro floridezza, e molti zuccherifici hanno ripreso il lavoro e le miniere vicino al paese tornano ad essere sfruttate, si nota nel porto stesso abbastanza movimento (10 a 15 vapori al mese).

Le navi portano mercanzie generali, perché non essendovi industrie in paese, si importa tutto quello che occorre alla vita, ed esportano zucchero, caffè, cacao, tabacco, ferro e rame. A proposito di questi ultimi prodotti sarà bene ricordare che la provincia di Santiago è quella che ha più ricchezze minerarie ed è anche in essa che si trovano le miniere in maggior lavorazione, e cioè quelle di Daiquiri e di Firmezo (di ferro), quella di Pompo (manganese) e quella di Cobre (rame, come dice il nome).

I grossi vapori fanno le loro operazioni in rada. ma per i minori parecchi moli in legno ai quali possono accostare, ed altri moli sono sistemati dove sboccano le strade delle vicine miniere. La città poi offre il mezzo di rifornirsi discretamente, eccetto per ciò che riguarda il carbone che è poco e cattivo. L'acqua arriva presso la banchina con apposita conduttura ma è fangosa e deve essere filtrata.

La provincia di Santiago ha un complesso di 327.716 abitanti di cui 45.478 vivono nella città dello stesso nome. Questa è addossata in gran pate ad una graziosa collina, ha bell’aspetto, e la prima volta che vi giunsi la trovai assai pulita. Qualche mese dopo però mi parve, tornandoci, che le cose fossero peggiorate e benché i cittadini ne incolpassero i cicloni ed i cattivi tempi, gli Stati Uniti, come in seguito appresi, fecero un'osservazione in proposito al Governo di Cuba, avvantaggiandosi dei diritti che loro concede la convenzione sopracitata. E fecero bene, perché nell'estate il caldo è soffocante, e se si tralasciassero le necessarie cure, presto la febbre gialla e le altre malattie epidemiche ritornerebbero.

Risiedono in questa città e nella provincia circa 42 secondo il censimento del 1899; ma secondo il Console dovrebbero essere di meno. In maggioranza sono venditori ambulanti; qualcuno lavora nelle miniere, uno ha una drogheria, due o tre sono orefici e gioiellieri, due si occupano dell'importazione del bestiame della vicina Haiti, due sono ingegneri.

Il commercio nostro, però, è qui, come già accennai, assai limitato perché non vi sono comunicazioni con l'Italia e raramente vi capita qualche nave mercantile nostra, ma un poco di pasta, di vino, di confetti, di tessuti, di cappelli e di ombrelli vi arrivano e sarebbe facile migliorare le cose.

Da Santiago mi recai all'Avana (dal 27 al 3 luglio, miglia 758). Questa città non è solo la capitale politica dell'isola, ma anche la sua capitale morale, e l'indice delle sue condizioni generali; essa quindi è stata più delle altre curata e più delle altre ha risentito gli utili effetti delle mutate condizioni politiche. La prosperità comincia a tornare, perciò l'Avana si è molto abbellita e giornalmente aumentano le comodità, gli agi ed i mezzi di trasporto. È bene illuminata a luce elettrica, ha un comodo servizio di trams elettrici, conta 242.000 abitanti e possiede tutte le qualità di una grande città, ma la vita vi è enormemente cara.

Notevoli poi sono ora diventati l'ordine e la pulizia che vi regnano e, giova notarlo, non pare quasi vero che in un così poco tempo si sia ottenuta una simile trasformazione. Ciò ha condotto anche al risanamento igienico, e la città, quando io la visitai, da un pezzo non offriva più il terribile flagello della febbre gialla.

Vi sono molte istituzioni di carità ed associazioni di beneficenza, tra cui una spagnola molto notevo1e, che possiede un forte capitale e molti soci. Gli Italiani volevano costituire un’Associazione di questo genere, ma, essendo troppo pochi per riuscirvi, molto più opportunamente si sono aggregati alla società spagnola ed hanno organizzato un piccolo circolo che serve a riunirli e ad affratellarli tra loro.

Il porto è bello, ha i secchi dell'entrata ben segnati, ed offre comodo e sicuro ancoraggio per molte navi. Vi sono parecchie boe d'ormeggio, di cui le migliori sono riservate alle navi da guerra, e conviene sempre approfittarne, quando sono disponibili.

In complesso, dunque, il progresso è sensibile, e per fare apparire le nuove condizioni economiche della città credo opportuno dare qui un riassunto (in dollari) degli introiti doganali del suo porto, a cominciare dagli ultimi anni del governo spagnolo fino, al 1904; ma per intender bene il significato del riassunto stesso importa tener presente che:

1°. Precedentemente alla guerra l’isola aveva maggior ricchezza e più abitanti; inoltre i negozianti, prevedendo le complicazioni, fecero grandi provviste dì merci. Finita la guerra il commercio risentì le fluttuazioni del periodo transitorio, e solamente verso il 1903 gli affari cominciarono a pigliare un assetto regolare.

2°. Nel 1891 fu conchiuso il trattato dì reciprocità ispano-americano che restò in vigore fino al 1894.

3°. Dal maggio al luglio 1898 l'Avana fu bloccata dagli Americani.

4°. Negli ultimi due mesi del 1898 pare, ripeto non affermo, si verificassero le maggiori irregolarità nella Dogana, ed invero le entrate diminuirono molto, sebbene l'importazione crescesse sensibilmente.

5°. Il 1° gennaio 1899 cominciò a funzionare la Dogana sotto l'amministrazione degli Stati Uniti.

6°. Il 1° aprile 1899 furono aboliti i diritti di esportazione a vantaggio dell'agricoltura.

7°. Il 20 maggio 1902 cominciò a funzionare la Dogana sotto il governo locale.

8°. Il 1° novembre 1903 si cominciò ad esigere la nuova imposta per estinguere il debito di 35 milioni di dollari destinato all’esercito liberatore.

9°. Il 27 dicembre 1903 andò in vigore il trattato di reciprocità fra gli Stati Uniti ed il governo della Repubblica di Cuba.

10°. Nel 1898 le entrate raggiunsero il minimo, nel giugno 1904 raggiunsero il massimo, tra gli anni che qui .si considerano.

[…] (p. 60)

Anche le condizioni industriali del porto sono migliorate gli Spagnuoli ci tenevano un buon bacino galleggiante, capace di grosse navi, gli Americani lo portarono a Pensacola (vi è entrato il "Dogali" nel 1905); ma l'industria privata lo ha sostittito con uno quasi simile ed ha anche approntata un'officina di riparazione.

Una delle cose che prima colpiscono chi arriva all’Avana sono i resti del "Maine", e mi prese naturale curiosità di andarli a visitare. Se il mio giudizio non falla, il disastro fu prodotto da una esplosione interna, ed invero senza questa ipotesi io non saprei spiegarmi come il ponte superiore della nave si sia in parte piegato rovesciandosi su se stesso. Sono quindi indotto ad accettare la spiegazione degli Spagnoli, anziché quella degli Americani.

La colonia italiana nella provincia di Avana comprende circa 334 individui: alcuni professionisti, parecchi dedicati al commercio (tra cui molti merciai ambulanti), il resto operai. Sono tutti in generale solerti, laboriosi e stimati, ma non hanno fortune rilevanti.

GIAMAICA

Lasciai l’Avana per recarmi a Kingston (8 a 12c agosto, 770 miglia), capitale dell'isola di Giamaica. Questo nome nella vecchia lingua nativa significa: "terra fertile, alta, boscosa, ed irrigata da molte acque", e queste sono le caratteristiche dell'isola.

Una catena di montagne, i cui punti più elevati si trovano verso oriente (Blue Mountains, con altezza massima di 7300 piedi) la percorre da est ad ovest, ed altre catene secondarie si staccano da essa, onde assai vario ed accidentato risulta il terreno. E’ possibile quindi trovare nell’isola le temperature più varie fino ad un minimo di 6° C., se ne è tratto profitto per costruire nelle montagne delle case e degli alberghi che sono veri sanatori.

I numerosi fiumicelli che scendono dai monti corrono principalmente da nord a sud, sono abbelliti da cascate, e riescono assai utili all’agricoltura; vi sono pure sorgenti di acque termali e minerali a cui si assegna un certo valore.

L’isola, con una lunghezza di 144 miglia ed una larghezza massima di 49 miglia, ha una superficie di 4207 miglia quadrate, di cui buona parte è coltivabile, ma ora sono in lavoro solamente 644 miglia quadrate. Vi sono anche miniere di ferro, rame, piombo, manganese, cobalto, ecc.; ma fatta eccezione della provincia di Santa Clara. non danno, per ora almeno, risultati incoraggianti per la loro industria isola

La nuova popolazione dell'isola (al soliti i primitivi abitanti sono spariti) andò sempre crescendo come qui appare […]

 La maggioranza è gente di colore, tra la quale, oltre i neri, bisogna comprendere i coolies. L’immigrazione di questi ultimi cominciò quando cessò la tratta (1845), e finora ne sono arrivati 28.418, ma tenuto conto dei rimpatri e delle morti, ne restano 12.000.

Per le solite ragioni che già enumerai, anche questa non è terra adatta alla nostra immigrazione, e fortunatamente si può dire che Italiani quasi non ce ne sono. Ed invero a Kingston, per quanto potetti sapere, non v'era che un vecchio orologiaio ed un figurinaio.

Le condizioni economiche dell’isola sono messe in rilievo dagli specchi seguenti: […] (pp. 61-62).

Una buona strada circonda l’isola, e da vari suoi punti partono diramazioni che stabiliscono le comunicazioni tra il nord ed il Sud; vi sono inoltre 1100 miglia di strade secondarie, e le linee ferroviarie da Kingston a Montego-Bay (112 miglia), da Kingston a Porto Antonio (75 miglia) da Kingston ad Ewaston (29 miglia).

***

Il commercio dell’isola si svolge principalmente a Kingston. Questa città che ora il terremoto ha devastato, è edificata in un’insenatura della costa sud, aveva 46.542 abitanti, era ricca ed importante, ed offriva alle navi il mezzo di procurarsi ogni sorta di provviste ed anche buon carbone.

Costruita quasi tutta in piano ha le strade ad angolo retto, trams e luce elettrica, un’importante Società per l’incremento dell’agricoltura, molte istituzioni di beneficenza, buoni clubs, case bancarie, due giornali, alcune riviste e molte scuole. Il suo porto è sicuro, ma i venti, (non il mare) meridionali vi arrivano, perché dalla parte sud è chiuso da una lunga, sottile ma bassa striscia di terra (Palisadoes) che in qualche punto sembra quasi una diga artificiale. Innanzi al Palisadoes si estendono molti banchi, che concorrono a facilitare la difesa del porto tanto nel senso marinaresco che in quello militare, e che lasciano due passi di approdo, l’uno nel senso sud-nord, l’altro di est-ovest. Entrambi sono ben segnati da boe e segnali, e conducono all’estremità ovest del Palisadoes o nel punto ove sorge Port.Royal.

Questa città era molto importante prima del terremoto del 1692, tanto che si considerava come la più bella delle Indie Occidentali, ed era rinomata per le ricchezze che vi avevano accumulato i filibustieri. Si tentò di ricostruirla dopo il disastro, ma fu di nuovo mezza distrutta nel 1722 da un uragano e nel 1816 da un incendio. Ora si può dire che non vi è altro che l’arsenale di riparazione della marina inglese, un ospedale militare, la residenza del commodoro, comandante la piazza, le caserme, e nelle vicinanze i forti, da cui dipende tutto un sistema di difesa subacqueo.

Tra Port Royal e Kingston, al di dentro del Palisandoes, vi sono degli altri banchi ed il canale di comunicazione, molto stretto per una buona parte, è anch’esso individuato da segnali, ma non si può fare molto assegnamento di trovarli sempre tutti a posto.

***

Da Kingston tornai a Santiago (dal 21 al 22 agosto, miglia 185) ed all'Avana (dal 9 al 13 agosto) e di qua ritornai a Santiago, (dal 27 settembre al 1° ottobre), per proseguire poi (18 ottobre) per Trinidad.

Nell'ultima traversata dall'Avana a Santiago ebbi a sperimentare una notevole depressione barometrica che per altri 16 giorni si manifestò nel mare Caraibico.

A questo proposito rammenterò che lasciai l'Avana nel forte della stagione degli uragani, ma le apparenze del tempo alla partenza erano abbastanza buone, perché pure essendo da un paio di giorni il barometro un poco basso, anche secondo le opinioni dei meteorologi dei collegio di Belen (Avana) e del Weather Bureaui, la variazione non era tale da preoccupare e le notizie generali erano buone. Importante invece era la scelta della rotta ed a me parve conveniente di farla in base alle leggi degli uragani delle Antille, dedotte dal padre Vinas ed ora accettate e verificate dal Weather Bureau e da tutti i marini che frequentano questi mari. Secondo le dette leggi, nella prima decade di ottobre gli uragani delle Indie Occidentali seguono una rotta media che, partendo da Barbados, tangenzia l'isola di Giamaica (costa Nord) e il Capo Sant'Antonio, e la zona pericolosa comprende il canale di Bahama, tutta Cuba e Giarnaica fino a 100 miglia al Sud di quest'ultima. In base a ciò, e tenuto conto che un temporale diretto verso il canale di Yucatàn è avvisato all'Avana almeno 48 ore prima, ne segue che una nave la quale lasci quel porto con tempo buono, ha quasi sempre la certezza di superare in buone condizioni il passo di Yucatan e di arrivare sempre con tempo bello 200 miglia più al Sud, od a Ponente di Pedro Bank, e far rotta per Trinidad o per il Sud America, mantenendosi sulla zona libera dai cicloni. Ma se per economia o per costruzione non può correre molto, le rimarrà in generale la possibilità di raggiungere in tempo utile, se ha indizio di un uragano, i porti di Cienfuegos, Santiago o Kingston.

La rotta invece lungo la costa settentrionale di Cuba, mentre è scartata da molti per la rapidità delle correnti, che diventano pericolose nella nebbia di un uragano, ha l'inconveniente di mantenere una nave, diretta al Sud fino al passo tra Barbados e Trinidad, ossia per tutta la traversata del mar Caraibico non solamente nella zona degli uragani tropicali, ma anche per oltre miglia 700 in quella degli uragani che si formano al Nord del mare Caraibico stesso. E naturalmente il detto canale non è raccomandabile neanche per chi dal Sud di Cuba o di Giamaica si dirige all'Avana, non soltanto per le ragioni anzidette, ma perché il guadagno derivante dalla minor distanza si perde in causa della forte corrente contraria. E, a proposito di corrente, è opportuno aggiungere un'osservazione che ho avuto occasione di fare all'ovest di Cuba. I portolani accennano alla possibilità, in certe condizioni speciali, di una controcorrente. meridionale tra la detta isola ed i Caimani, ma io ho sempre trovato debole la grande corrente a Nord-Ovest e la controcorrente l'ho incontrata da Giamaica a Capo Sant'Antonio, mentre le condizioni indicate dai portolani non erano verificate. Ritengo perciò che:

a) nell'epoca sopracitata, la rotta più sicura per una nave che dall'Avana si dirige al Sud dei mare Caraibico, è quella a Ovest di Cuba, mantenendosi vicino a quest'ultima;

b) in ogni caso, una nave diretta dal Sud dei mare Caraibico verso il canale di Yucatan farà bene a tenersi largo da Cuba ed a passare anche ad Ovest dei Caimani, se presso Giamaica osserva degli indizi della controcorrente.

Ciò premesso dirò che, camminando io a velocità economica, ebbi tempo discreto nella traversata iniziata il 27 settembre, di cui sopra ho cominciato a parlare, fino al Sud dell'isola di Pinos, ma nella notte del 29 settembre il barometro cominciò ad abbassarsi ed il vento si stabilì da Est a Nord-Est con abbastanza forza. Il giorno seguente l'abbassamento del barometro si accentuò sempre, più, le sue oscillazioni diurne divennero meno ampie, il mare ed il vento crebbero ed il cielo assunse un aspetto minaccioso. Nella notte del 30, oltre il mare levato dal vento, si manifestò una onda (onda di fondo, come si chiama qui) proveniente da S.S.O. ed i piovaschi diventarono forti e spessi. La vicinanza quindi di un uragano apparve evidente e cercai subito di precisare il lato in cui mi trovavo. Lo studio generale di tale argomento mi aveva già appreso un principio molto semplice, che non ho mai visto citato nei trattati di manovra, ma che può essere utile in molte circostanze e che nel caso attuale mi permetteva dì seguitare a far cammino, pur osservando con regolarità ed anche con più speditezza le variazioni del vento. Ma questo si manteneva costante in direzione, quindi ad un primo esame si poteva supporre che fossimo sulla traccia dei centro del temporale. Però nella regione in cui mi trovavo, l'uragano doveva avanzare verso di noi, in conseguenza il barometro avrebbe dovuto precipitare mentre scendeva solamente con lentezza e l'onda avrebbe dovuto provenire da un rombo intorno a S.E, invece che da O.S.O; quindi, dedussi con certezza che io mi trovavo dal lato diritto dell'uragano, e propriamente in quella zona che alcune volte si manifesta e nella quale la circolazione del vento non acquista la forma circolare ordinaria, ma l'aliseo conserva la sua direzione costante salvo ad acquistare violenza temporalesca. Mi ero quindi incontrato in quel caso che gli autori chiamano dubbio e che può dar luogo a dannosi errori, perché, se una nave giudica erroneamente di essere sulla rotta del centro e poggia, si va a cacciare nel pieno dell'uragano. Gli autori stessi non studiano abbastanza, mentre dovrebbero farlo, questa circostanza, contentandosi solamente di additarla ai naviganti.

Nel caso mio, chiarito il dubbio, ed avendo usato anche la precauzione di restare qualche ora alla cappa, conclusi che non era opportuno di poggiare a Cienfuegos, perché l’onda ciclonica doveva averne quasi bloccata l'entrata, ma che invece, facendo rotta verso levante, mi sarei allontanato dal temporale. Così infatti feci e le mie previsioni si verificarono, il barometro cominciò a salire ed il 1° ottobre penetrai nel canale fra Giamaica e Cuba con tempo rimesso. Ma nel corso della giornata la colonna barometrica cominciò nuovamente a discendere e nelle ore pomeridiane restò stazionaria con apparenza di non voler risalire nell’ora del massimo, mentre una bianca piuma di cirri si levava verso levante. Dovetti quindi giudicare, ed in seguito mi convinsi di aver ragione, che mi ero allontanato da una perturbazione, ma mi avvicinavo ad un'altra, e che era perciò importante raggiungere il ridosso dell'ottimo porto di Santiago prima che il mare levato dalle prime raffiche ne avesse resa pericolosa la stretta entrata. Aumentai perciò dì velocitàe nella notta ancorai a Santiago.

L'indomani chiesi subito notizie all’Osservatorio del Collegio di Belem, all'Avana, e mi fu risposto che effettivamente una perturbazione (qui chiamano perturbazioni gli uragani in formazione) si era formata presso i Caimani, che molto mare si era levato a Cienfuegos e che un'insolita depressione si estendeva su tutto il mare delle Antille. Nessuna notizia però si aveva di una perturbazione a levante di Cuba, ma in seguito seppi che erano interrotte le comunicazioni con San Domingo e quindi mancavano ì dati in proposito.

Il barometro nei giorni seguenti ebbe sempre un andamento irregolare ed il 10 ottobre l'Osservatorio del Collegio di Belem segnalò la formazione di un temporale in prossimità di Giamaica., mentre da questa isola telegrafavano "tempo sospetto". Il barometro seguitò a scendere da per tutto e mi parve chiaro ormai che la inusitata ed estesa depressione dava ed avrebbe seguitato a dar luogo a molti temporali locali, finché una perturbazione predominante non avesse vinte quelle parziali, e, traversando tutta la zona depressa, ne avesse ristabilito l'equilibrio. Infatti il giorno 12, mentre il Collegio di Belem telegrafava che la perturbazione sopraddetta era giunta al piccolo Caimano, da Washington giungeva un altro telegramma annunziante una grande perturbazione presso San Domingo, e da Nuova York si segnalava un uragano presso l'Honduras. Così dopo parecchi giorni si ripeterono delle condizioni meteorologiche analoghe a quelle da me osservate il 30 settembre, ma più gravi, perché questa volta contemporaneamente si manifestarono tre temporali. Di quello di Honduras non ho notizie precise, quello presso i, Caimani si risolse senza svolgere la sua traiettoria, ma devesi ritenere che entrambi esercitarono influenza su quello di San Domingo, perché quest'ultimo ebbe forse una traiettoria irregolare, ed, a mio giudizio, una velocità troppo piccola. Infatti esso passò su Cuba solamente il 17 e traversò le provincie dì Porto Principe e Santa Clara, producendo molti danni.

Intanto tutti i vapori ancorati a Santiago avevano sospesa la partenza ed è bene ricordare anche che due altri ì quali furono costretti ad entrare durante il temporale, penarono molto. Uno dovette aspettare tutta una notte alla cappa e l'altro poco mancò non si perdesse nell'imboccare la stretta entrata. Passato (il 17) il temporale ad Ovest di Santiago, il mare andò calmandosi e perciò le navi, compresa la mia, presero il largo.

A questo punto devo manifestare tutta la mia ammirazione per l'organizzazione veramente grandiosa del servizio meteorologico dell'Ufficio Centrale di Washington, ed anche quella più modesta, ma molto intelligente, del Collegio Belem dell’Avana. Devo anzi dire che a Santiago quest'ultimo è molto popolare ed il console inglese ivi residente, signor Mason (cortesissima persona che fa da osservatore), è sempre occupato coi capitani mercantili che chiedono notizie. E queste notizie provengano da Belem o siano quelle più complete di Washington, sono sempre preziose. Grazie a molte cure ed alle dette notizie, ho potuto evitare due cicloni, traversare il mare delle Antille diverse volte nella stagione più forte degli uragani con relativa sicurezza, e si deve ritenere che una nave a vapore può spesso fare lo stesso, onde per opera dei detti Osservatori il mare delle Antille, cosi battuto dai temporali, è reso meno pericoloso.

Giudico quindi il Weather Bureau una delle più pregevoli istituzioni moderne, tanto più che, oltre ai naviganti, rende anche grandi servigi agl’ingegneri, agli agricoltori ed ai malati e durante la guerra fu di molta utilità alla squadra americana. Ritengo quindi sia di grande interesse per chi viene in questi mari di mettersi fin dal primo porto di approdo in relazione cogli osservatori sopra citati, cosa tanto più facile in quanto che non costa spesa.

Utilissimo è anche lo studio delle sapienti memorie Vinas che credo poco sparse fra di noi. E a questo proposito devo anche ricordare che ho visto un grandissimo numero di opuscoli inglesi e nord-americani, in cui sono raccolte, sotto forme semplici e piane, le principali norme sui cicloni, specialmente nell’interesse dei capitani dei velieri mercantili, che non hanno il modo e la preparazione per fare uno studio profondo di questo importante argomento. A me pare quindi che sarebbe utile e necessaria una simile pubblicazione italiana e che converrebbe distribuirla gratuitamente ai capitani mercantili.

***

Lasciato Santiago trovai tempo bello, come era da prevedere, tanto più che nella terza decade di ottobre gli uragani non vengono più dall'Oceano, ma si formano nel mar Caraibico, a ponente di Curacao.

In vicinanza di Trinidad sperimentai una corrente molto forte verso N 0., ma grazie a buone serie di osservazioni, specialmente di notte atterrai con grande esattezza e, penetrando nel golfo di Paria per la bocca di Navios, mi ancorai a Port of Spain il mattino del 23.

Restai nel golfo di Paria fino al 20 novembre, ma nel frattempo feci una corsa a Macuro (28 ottobre) per studiare (29 e 30 ottobre) quel porto, ed a La Brea (30 ottobre) per visitare il famoso lago di asfalto.

TRINIDAD

L'isola di Trinidad, con una superficie di 1754 miglia quadrate ed una popolazione di 225,149 abitanti, è ricca e fertile: produce, principalmente zucchero, caffè, cacao, cocchi, , asfalto; ha stabilimenti per l'estrazione dello zucchero, dell'olio di cocco, e forse possiede carbone ed oli minerali; ma importa, al solito, tutto quello che occorre alla vita.

La sua capitale, Port of Spain, è una delle principali, se non   la principale, città delle Indie Occidentali inglesi: ha clubs ed associazioni sportive notevoli; parecchie società di beneficenza; banche; molte scuole; otto riviste; fabbriche di ghiaccio, di sapone, di fiammiferi, di sigari, di sigarette, di cioccolata (poco buona però) e di paste; trams e luce elettrica. Le navi vi si possono assai ben rifornire, fatta eccezione al solito per il carbone perché questo è di qualità assai scadente, tanto che mi decisi, e ne fui contento, ad acquistare mattonelle (marca corona).

L’acqua (ripeto che mi servivo di quella di terra solamente per la macchina e le lavande) si ha dal Governo a relativo buon mercato, se si manda a farla con le proprie lance, ed intendendosi con la Capitaneria si può avere a tutte le ore.

Finalmente è anche possibile fare qualche riparazione e presto grazie all’opera intelligente dei governatore, vi sarà un grosso bacino che accrescerà di molto l’importanza del porto.

L’isola ha buone strade ed anche delle piccole linee di ferrovia che partendo da Port of Spain vanno a Sangra Grande (25 miglia), a San Fernando (35 miglia), a Tabaquite (15 miglia di diramazione dalla linea precedente) ed a Prince Town (10 miglia di diramazione come sopra). Gli ufficiali esteri con la semplice esibizione della loro carta da visita sono ammessi gratis su queste linee.

L'isola ha terre accidentate e belle montagne, onde sarebbe facile preparare delle località per godere un po' di fresco durante i mesi caldi, umidi e debilitanti dell'estate, ma nulla è stato fatto in proposito, non ostante che in città si siano spesi dei danari e non pochi per preparare luoghi adatti ad ogni specie di sport. Ciò mi meravigliò, ma mi dissero che i ricchi preferivano andare a cercare il fresco in Europa e che gli altri si astengono da quel genere di imprese per non avere noie dai neri.

Le seguenti cifre dimostrano le condizioni economiche dell'isola di Trinidad: […] (pp. 70-71).

Da queste indicazioni si possono trarre le solite conseguenze circa il nostro commercio; ma in questo caso sono più dolorose del solito, perché qui abbiamo una linea di navigazione e spesso i nostri vapori sono carichi di pasta ed altre merci di Francia che potremmo con facilità mandare anche noi. Basterebbe occuparsene per vedere immediatamente crescere il nostro commercio, ed il console di Francia m'indicava egli stesso le cose che avremmo potuto fare e mi faceva notare che egli era riuscito a far crescere il commercio del suo paese di oltre un terzo in meno di due anni.

Dai numeri precedenti appare che l'asfalto è uno dei prodotti importanti dell’isola e perciò il Pitch Lake, oltre ad essere una fonte di ricchezza, è anche una delle sue curiosità.

Su di una piccola collina, presso La Brea, si allarga un esteso piano (104 acri), incorniciato da verdi alberi e da una piccola ferrovia, e tutto coperto da materia nera sufficientemente compatta, tanto che vi si può camminare sopra, e che costituisce l'asfalto. Numerosi operai ogni, giorno ne portano via grande quantità e, mediante una ferrovia aerea, lo mandano fino al mare, dove è versato direttamente nelle stive delle navi accostate ad un apposito molo. Ma i fori scavati per l'estrazione presto si ricolmano da loro, cosicché il piano (o il lago come sì chiama) sembra che non perda mai niente.

Vi è anche in vicinanza dei lago una officina per distillare l'asfalto greggio ed a poca distanza, verso San Ferdinando, altri piccoli laghi di asfalto, ma di natura un po’ diversa.

Del porto di Macuro o di Cristobal Colon a cui, ho accennato sopra farò la storia, cosi come me la raccontarono sul posto, senza aggiungerci nulla di mio e senza far commenti.

Il Venezuela ha stabiliti enormi diritti d'importazione: sovente con nomi diversi, ne fa pagare parecchi su un loro oggetto e come se ciò non bastasse, ora tutte le merci sono gravate in più di una tassa del 30% del loro valore, definita col pomposo nome di contribuzione di guerra, perché serve per pagare il debito europeo. Data questa enorme fiscalità, e, tenuto conto delle condizioni locali, il contrabbando si è stabilito su scala larghissima, e lo si esercita quasi come un mestiere. Ciò non ostante, per facilitare, dicono, i traffici con l'Europa, si è ricorso allo strano espediente di imporre un nuovo gravame, ossia si è stabilito che tutte le merci provenienti dalle Antille debbano pagare un altro 30% addizionale del loro valore . Fino al 1903 però era lecito trasbordare dai transatlantici sulle navi locali, in qualsiasi porto delle Antille, le merci provenienti dall’Europa e mandarle nel Venezuela in esenzione della detta imposta, e di ciò si avvantaggiavano principalmente Curacao e Trinidad, perché offrivano gli scali più opportuni per le navi che caricavano merci pel Venezuela. Ma il generale Castro, quando trionfò nella rivoluzione, soppresse la detta facilitazione perché, dicevano sul posto nelle località ora menzionate si era rifuggita la maggior parte dei suoi avversari politici, e perché in esse si sogliono preparare le rivoluzioni del Venezuela. Ma ufficialmente si disse che quel provvedimento aveva lo scopo dì dare un gran colpo al contrabbando, e per non obbligare i vapori che portavano merci pel Venezuela e che facevano gli scali di Trinidad e Curacao a cambiare i loro itinerari, e per facilitare le cose ed evitare inconvenienti si stabili di aprire sulla costa venezuelana i porti di Macuro o Cristobal Colon e di Tucacas che rispettivamente sono vicinissimi agli ora nominati ancoraggi

Che io sappia, in Europa non si fece gran casso di queste novità, eppure esse violavano recenti patti internazionali, perché le dogane dei porti venezuelani impegnate per pagare il debito europeo, furono ben definite e coll’aprire di nuovi porti non compresi nei patti, si diminuivano i proventi destinati ai creditori. Non occorre parlare del porto molto infelice di Tucacas, quello di Cristobal Cólon o Macuro è situato a ponente della Gran . Bocca del Drago e propriamente a 4 miglia circa all'ovest dell'isola di Goose. Ha forma semicircolare, è profondo circa mezzo miglio, è largo alla bocca poco più di un miglio ed è rivolto a mezzogiorno. Terre alte e scoscese con poca o quasi niente spiaggia lo circondano e un piccolo sperone partente dalle alte colline che sorgono a tramontana, lo divide, in due insenature, note sotto il nome di Macuro (quella a ponente e che dà nome a tutto il porto), e di Aricagua (quella a levante). Più fonda e più grande è la Baia di Macuro, più piccola e più quieta è quella di Aricagua, ma entrambe sono battute in pieno dal mare di mezzogiorno, e perciò sono poco adatte a formare un porto commerciale, e raramente potrà utilizzarsi il molo di sbarco che vogliono costruire in un prolungamento dello sperone anzidetto. Inoltre una corrente di marea che giunge fino a 5 miglia all'ora, domina innanzi alla baia, rendendone più disgraziate le condizioni.

Avanzando colle necessarie precauzioni ancorai in circa 10 m. di fondo tra le due punte che chiudono la baia ed a poca distanza da terra. Il fondo, come poi verificai, decresce regolarmente senza scogli o bassi fondi, cosicché una nave a vapore che viene da ponente (come generalmente avverrà) può correre parallelamente alla costa mantenendosi almeno un miglio da terra (se passa al nord dell'isola di Goose) per evitare lo scoglio che è presso la punta di levante di detta baia (è meglio però passare al sud dell'isola di Goose), e quando rileva l’estremo ovest dello sperone sopracitato per circa 355° può dirigere per esso, tenendo conto della corrente, ed andare a dar fondo nella profondità d'acqua conveniente.

Tra tutti i grandi lavori progettati, non trovai fatte che poche baracche coi titoli pomposi di depositi della dogana, di casa dell'Amministratore, ecc., ed i soli abitanti erano numerosi impiegati, alcuni ingegneri, 150 soldati, e pochi neri. Ma con la instabilità solita delle cose del Venezuela, qualche mese dopo la mia visita l'entusiasmo per Macuro era finito, e la Trinidad aveva di nuovo ottenuto la facoltà di eseguire trasbordi pel Venezuela, senza il gravame del famoso 30%.

L'ORENOCO

Quando giunsi la prima volta a Trinidad cercai in tutti i modi di organizzare una visita all'Orenoco, sperando di potermi spingere col "Dogali" fino a Città dì Bolivar. A questo proposito importa tener presente che il fiume ha sei bocche in un delta di 160 miglia, ma solamente la bocca meridionale (Bocca Grande) è adatta per le navi.

La piena avviene in agosto, e siccome la differenza rispetto alla secca è assai notevole, in quell'epoca dentro la barra vi sarebbe fondo anche per grosse navi. Ma poi l’acqua si abbassa con abbastanza rapidità, e verso la fine di ottobre od ai primi di novembre nel passo di Panapana (uno dei più pericolosi perchè il fondo è scoglio), difficilmente si trovano 18 piedi e presto si ha ancora meno. Gli idrografi americani perciò raccomandano i mesi di agosto, settembre ed ottobre come i più adatti per la navigazione del fiume colle navi, ma è chiaro che conviene, per chi può scegliere il suo tempo, di profittare del mese in cui il fiume sta per arrivare al massimo della piena, ma non l'ha ancora raggiunta; onde una spedizione esplorativa, con nave come il "Dogali", dovrebbe tentarsi tra gli ultimi giorni di luglio e la prima metà d'agosto.

Una delle difficoltà maggiori di una simile impresa consiste nella traversata della barra che si estende davanti a Bocca Grande. Le coste, essendo molto basse si vedono solamente quando si è molto vicini ad esse e si è già sulla barra, quindi le buone osservazioni astronomiche, lo scandaglio e le grandi conoscenze locali devono essere la guida della navigazione. Le variazioni di livello del fiume non hanno influenza sensibile sulla barra in parola e la carta americana, che è la più recente, dimostra che vi si può trovare un canale con un fondo minimo di 16 piedi, salvo alcuni punti in cui ve ne sono solamente 15. Esso canale non è diritto ed è facile cadere in fondali minori, e, benché vi siano circa tre piedi dì differenza di marea, non si può fare assegnamento su tutta questa differenza, perché la barra è estesa naturalmente conviene attaccarla a mezza marea. Però la differenza di un piede o poco più non deve preoccupare molto se il mare è calmo e se si riesce a tenersi dove il fondo è molle; ma solamente la pratica può insegnare il modo di raggiungere questo ultimo scopo. In vero i buoni piloti, basandosi sulla natura del fango, sanno dedurre la posizione della nave e la rotta da seguire per evitare i punti di fondo duro; il loro sussidio quindi è indispensabile a meno di accingersi a fare un lungo rilievo idrografico.

Tutto ciò fa dire ai pratici che per risalire il fiume con sicurezza non bisogna avere un pescare maggiore di. 15 piedi da maggio a dicembre, e di 11negli altri mesi, ma ritengono che in questi ultimi resi anche con 11 piedi sia pericoloso il passaggio della barra con mare abbastanza grosso. E il mare grosso è tanto più da evitare in quanto che, visto lo scarso studio fatto finora della località, una nave grande, per naturale precauzione deve farsi precedere da una imbarcazione che scandaglia. Così infatti fece il "Dolphin" ed impiegò due giorni nella traversata della barra non ostante che fosse di piccola dimensione ed avesse a bordo due piloti, e propriamente i soli due che, in quel tempo, conoscessero la barra stessa.

Invero è difficile assai di incontrare pratici che abbiano questa qualità, perché quelli che fanno servizio da Bolivar ai vari punti della costa venezuelana sono abituati a navi di poco pescare; ed i pratici del fiume che stanno sul. battello fanale, ormeggiato dentro la barra, non vanno mai fuori di essa. A prescindere da tutto ciò, le mie ricerche ed i miei studi m'avevano convinto che anche con 16 piedi di pescare in acqua salata (o quasi 16.5 nell'acqua spesso dolce della barra) si può tentare il passaggio di questa (benché finora vi sieno state solamente navi di meno di 15 piedi), quindi per passare col "Dogali" doveva:

1° accaparrarmi il pilota che in quel momento conosceva la barra;

2°. arrivare presso la barra con un tempo buono, per aver modo di scandagliarla prima e durante il passaggio;

3°. portare il pescare del bastimento da 18 a circa 16 piedi in acqua salata, ed assicurarmi in antecedenza che nel Passo dì Panapana ci fosse acqua sufficiente, perché ormai la stagione propizia anzidetta era passata.

Dopo molte promesse di alcune persone di Trinidad, che si mostrarono di dubbia fede, e che mi fecero perdere un tempo prezioso, mandai da Trinidad stessa un ufficiale a Bolivar per cercare il pilota ed allora scoprii che per averlo ci voleva il permesso del presidente della repubblica, ciò che rappresentava un’altra perdita enorme di tempo. Ma l'ufficiale ora menzionato aveva un altro incarico, quello cioè di scandagliare, come dissi, i passi più difficili e specialmente quello di Panapana, perché sulle informazioni dei pratici di quei luoghi bisogna fare un assegnamento relativo.

Egli trovò tre braccia scarse in quello di Panapana e perciò dovetti convincermi che la stagione era troppo inoltrata per tentare l'impresa, e che bisognava rinunciarci, perché 1’acqua presto sarebbe scesa ancora. Ma per chi volesse tentarla è bene seguitare a dire qualche cosa.

Circa la seconda delle condizioni sopra dette non c'era fa far altro che profittare di una giornata di bel tempo, accompagnato da buoni auspici, per partire da Trinidad, ma in generale i1miglior tempo sulla barra si trova in agosto ed al principio di settembre, però anche in luglio si può sperare di trovare mare calmo.

Finalmente per chi, come me, fosse costretto a diminuire il carico di carbone per ridurre il pescare e quindi si dovesse poi trovare a non averne più abbastanza per l'andata ed il ritorno siccome non c'è da contare sulla legna, occorre noleggiare un galleggiante che porti dentro la barra od a Barrancas una certa quantità di combustibile. Perciò cercai una goletta da portarmi a rimorchio, ma non mi fu possibile a Trinidad di trovarne una conveniente, e così pure riuscirono vani tutti i tentativi per mandare, a prezzi ragionevoli, col vapore fluviale o con dei barconi, un poco di carbone nei posti opportuni, attraverso le bocche del fiume che corrispondono nel golfo di Paria. Estesi anche le mie ricerche a Macuro: sul momento golette non ce n'erano, e se anche ce ne fossero state, sarei andato incontro ad altre difficoltà provenienti dalle più strane preoccupazioni delle autorità e dal fatto che la dogana di Macuro può solamente mandare le navi a Barrancas.

Tutte queste noie m'insegnarono che chi volesse risalire con una nave da guerra l'Orenoco, dovrebbe, per quanto sia strano, combinare tutto a Caracas, ottenendo dal presidente il pilota e le facilitazioni necessarie. Circa poi la goletta, è sempre bene averne una con sé, non solo per il carbone, ma anche per sbarcare pesi in caso d'incaglio, perchè sul luogo niente si trova, ma conviene noleggiarla a Barbados.

La risalita dell'Orenoco da parte di una nave da guerra abbastanza grande, varrebbe a farvi accorrere molte navi del commercio che ora sono esitanti, perché non si sa bene quali sono le vere difficoltà da vincere; l'impresa sarebbe perciò di grande utilità per il Venezuela, ma dati i fatti sopraddetti c'è da domandarsi se valga la pena di darsi tante noie per un paese che ostacola anziché facilitare l'opera dei volonterosi. Ciononostante rimarrà sempre vivo in me il rincrescimento di non aver potuto, specialmente perché la stagione era troppo inoltrata, visitare quel fiume. Avendo avuto in seguito la fortuna di fare gli altri fiumi delle Guiane e l'Amazzone, l'Orenoco avrebbe completato quel ciclo che avevo tanto desiderato.

LA GUIANA INGLESE

Perduta dunque la speranza di risalire l'Orenoco, lasciai Trinidad diretto a Demerara (20 a 22 novembre 1904, miglia 381).

Uscito il mattino dal Golfo di Paria e doppiato nella sera Punta Galera, diressi, tenendo conto della corrente, ad una ventina di miglia al nord del fanale di Demerara, perché data la natura della costa, non è consigliabile di serrarsi a terra con lo scopo di evitare la corrente equatoriale, e restare nel dominio delle correnti locali di marea.

Dopo Punta Galera l'acqua acquista presto un color limaccioso che non lascia più; fino al largo di Caienna, il fondo è scarso anche a sufficiente distanza da terra e dagli 8°30' di latitudine nord navigai in pr6fondità decrescente da 35 a 13 braccia. Grazie a numerose e buone serie di osservazioni ed al sussidio dello scandaglio (che non bisogna mai abbandonare in queste località) alle ore 6 e 3o del 21 determinai la mia posizione a 18 miglia a N. N. E. dal battello fanale, in 13 braccia di fondo (latitudine 7°15' Nord, long. 58° W) e diressi per esso seguitando a scandagliare e tenendo conto della corrente.

Ed a proposito di questa, bisogna notare che fino a circa 20 miglia da terra si sente l’influenza delle correnti di marea, le quali, salvo irregolarità, vanno in generale durante il flusso verso N.E. e tendono ad aumentare la corrente generale equatoriale diretta a N. 0., e durante il riflusso verso S. 0., tendendo a ritardare la corrente equatoriale ora detta.

Alle 7 e 30 del 21 stesso avvistai dritto di prora l'albero del battello fanale di Demerara. sormontato da una bandiera, turchina, e più tardi, mentre cominciavo a scoprire il suo scafo, vidi anche gli alberi della costa e dietro ad essi i numerosi fumaiuoli delle fabbriche di zucchero.

Qui bisogna ricordare che la costa delle Guiane, compresa fra l'Orenoco e l'Amazzone, è tanto bassa che in molti punti resta allagata dalle maree, e dal largo si vede soltanto una lunga fila di alberi con pochi o scarsi punti di riconoscimento, salvo presso Caienna, dove si trova qualche piccola collina. Ma siccome la linea dei fondi di 4 o 5 braccia si estende abbastanza lontano da terra, solamente dai suoi limiti il navigante comincia a vedere i detti alberi. La navigazione quindi è difficile e le difficoltà sono aumentate dalle correnti e bisogna, come dissi, fare osservazioni astronomiche e ricorrere spesso allo scandaglio.

Nelle località bene organizzate, come per esempio Demerara e Surinam, sono sistemati bastimenti fanali, fanali fissi e boe per delineare le barre, ed i portolani si sforzano a descrivere i fumaioli degli zuccherifici. Ma difficilmente lo straniero si sa raccapezzare in quelle descrizioni, e nel caso del Demerara i soli punti che si distinguono bene,. quando però si è abbastanza vicini a terra, sono il faro della riva Est, il campanile della chiesa cattolica (con guglie e statue) e 1a guglia della chiesa protestante (a piramide acuminata). Inoltre il limite sopraddetto dei fondi di 5 braccia lungo tutte le Guiane è suscettibile di variazioni molto sensibili per le grandi quantità di materiali che vi trasportano i numerosi fiumi ed è notevole quindi il guadagno continuo della costa sul mare. In grazia di questo fatto si vanno continuamente formando nuovi terreni che risultano oltre ogni dire fertili, e che sono utilizzati per le grandi piantagioni di zucchero, caffè e cacao. La loro cultura non richiede né concime, né rotazione, ma solamente cura e continuità di lavoro, perché come le buone crescono le cattive piante, ed un campo, se si tralascia di accudirlo anche per un anno lo si vede ritornare allo stato selvaggio.

Per difendere le dette terre di acquisto ed i paesi che sono sorti nelle località più coltivate da una parte contro il mare e dall’altra contro le inondazioni prodotte dall’acqua che strappa, dopo le forti piogge, dai pantani retrostanti, occorrono dighe, lavori in terra e tutto un sistema di prosciugamento che si fa funzionare con la marea, e che spesso, coime a Georgetown, si completa con poderose pompe. E perciò, per preparare i terreni bassi alla cultura, occorre prima di ogni altro fare dei lavori idraulici (i canali poi servono anche come vie di comunicazione nelle piantagioni); non fa meraviglia quindi se gli Olandesi furono i primi a stabilirsi su questa terra, perché essi si trovarono qui come nella vecchia patria, e seguitarono nel tropico la lotta secolare intrapresa dai loro padri contro l'invadente Atlantico.

Segue da ciò che gli antichi limiti della costa apparsi ai primi esploratori si sono sempre più allontanati dal mare, e chi si interna nella regione, osserva per prima cosa i terreni di nuova formazione e successivamente un terreno paludoso con isole di sabbia, una striscia di foreste e finalmente una zona (murie o dune) coperta di sabbia bianchissima che rappresenta la vecchia costa. Dopo ricomincia ancora la foresta fitta e spesso impenetrabile, e ad una certa distanza dalle mura il terreno diventa ondulato, si alza, forma colline e più tardi montagne elevate, come quella per esempio del magnifico gruppo del Roraima, sul confine della Guyana inglese. Comincia allora la vera regione delle foreste, regione anche essa ricchissima, perché ha alberi preziosi, oro (sabbia aurifera e qualche accenno a quarzo aurifero) ed un suolo ottimo per la cultura e, forse, meglio degli altri atto ad una colonizzazione bianca.

E’ notevole poi che di tratto in tratto la foresta s'interrompe lasciando larghi campi sabbiosi, dove gli alberi non allignano, ma cresce solamente erba buona per pascolo. Questi campi si chiamano savane; alcuni sono poco estesi, altri invece, come quello di Pirara, nella Guyana inglese, coprono grandi estensioni e si suppone che un tempo siano stati coperti dal mare.

Numerosissimi, come ho detto, sono i fiumi che scendono al mare lungo le coste della Guyana, e tra essi ricorderò come quelli che più si prestano alla navigazione i seguenti, scrivendo accanto ad ognuno di essi, in piedi, le profondità ad alta marca (p. a.) ed a bassa marea (p. b.) ed il pescare delle navi (p. n.) che possono penetrarvi.

1° Guiana venezuelana: 0renoco16 (p. n.).

2° Guiana inglese: Berbice 17 (p. a.), 7 (p. b.), 16 (p. n.); Demerara 19 (p. a.) 10 (p. b) 19 (p. n.) ; Essequibo 19 (p. a.) 10 (p. b.) 19 (p. n.).

3° Guiana olandese: Surinam 20 (p. a.) 12 (p. b.), 20 (p. n.); Saramacca Coppename 15:16 (p. a.), 8 (p. b.), 13 (p. n.); Correntyne 15. (p. a.), 7 (p. b.), 10 (p. n.)

4° Guiana francese: Oyapok 19 (p. a.) 7 (p. b.); Approuague 10 (p. n.); Cayenne 13 (p. n.); Maroni 17 (p. a.), 8 (p. b.), 16 (p. n.).

5° Guiana brasiliana: Amazzone ~ navi grandi.

 Bisogna però tener presente che nella maggior parte dei casi il fango è così molle che vi si può strisciare per lunghi tratti senza pericoli; così per esempio sul Demerara i vapori sovente navigano mentre sono anche per 2.5 piedi nel fango. Io però per non sciupare la pittura è per non mettere troppo fango nei condensatori, regolai le cose in modo da non dragare, o almeno da non dover dragare per oltre 7 o 8 cm. Perciò ancorai a circa 1000 m. dal battello fanale, per aspettare l'alta marea, e ripartii alle ore 14 e 30 perché, essendo marea alta a Georgetown alle 15 e 3 5 grazie all'anticipo che c'è sulla barra (circa 1/4 d'ora), poteva avere quasi in tutto il percorso (circa 8 miglia, con 6 effettive di barra), acque alte. Il pilota, salvo che sul tratto medio, seguì sulla barra una rotta più a sud di quella raccomandata dal portolano e lasciò a sinistra, anziché a dritta, le due boe che segnano la barra, perché avevano, come egli asseriva, arato verso levante. Ma a ciò non occorre badare, perché il fondo è talmente variabile che. senza conoscenze locali, a poco possono servire le norme dei portolani. Lo scandaglio ci indicò sempre fondi superiori a quelli indicati dalla carta e dal pilota, ma ciò è dovuto al fatto che il piombo affonda per oltre un piede nel fango.

Superata la barra diressi per girare la punta del forte William (dove c'è la batteria che risponde al saluto) e mi presentai alla bocca del fiume, che a traverso del fanale verde (situato sulla sponda ovest) è larga meno di un miglio.

Allora mi apparve da una parte la riva sinistra (ponente) bassa e sormontata da una cortina verde che ripara le piantagioni dì zucchero (estades), e dall'altra tutto il fronte ovest di Georgetown, che si stende per circa due miglia sulla riva destra del fiume, con una lunga, serie di pontili in legno. Questi si spingono sul fiume quanto è necessario per permettere ai bastimenti di ormeggiarsi lungo dì essi, sono sormontati dai magazzini dove le principali ditte del paese accumulano le merci importate o quelle da esportare, e tutti insieme formano un complesso impressionante, perché dimostrano a colpo d'occhio una ricchezza commerciale assai notevole. Dominante su di essi si eleva, con qualche pretensione artistica, la torre del mercato, ed a 200 metri dal traverso di questo mi ancorai in circa,25 piedi di fondo. La corrente cambia con la marea (la corrente di riflusso si stabilisce 30 minuti dopo dell'alta marea) e tanto -il flusso quanto il riflusso sono molto forti perché raggiungono e superano le 4 miglia; ma grazie alla vicinanza alla terra e profittando della minore, forza della corrente verso le sponde, mi fu facile fare il traffico a remi colle nostre imbarcazioni: la gente del luogo però usa più opportunamente battelli che ricordano quegli classici dei Veneziani.

***

Per avere una subita idea della città (che occupa un'area di 1200 acri inglesi, ha 53.000 abitanti ed è una delle più belle delle Indie Occidentali), salii sulla torre del mercato ed allora mi apparvero in prima. linea le numerose case destinate al commercio e dietro ad esse un magnifico bosco verde in mezzo al quale facevano capolino le abitazioni. Le costruzioni in generale sono in legno o legno e ferro, alcune e specialmente quelle destinate al commercio od a pubblici servizi, sono grandi, elevate e coperte di vistose leggende che rivelano la loro destinazione (depositi di merce, fabbriche di ghiaccio, officine elettriche, posta, telegrafi, banche), altre riservate all'amministrazione, alla giustizia, ecc., mostrano una certa pretesa architettonica con lusso dì colonne ed archi... di legno, ed altre, le più numerose riservate alle abitazioni private, sono spesso assai graziose e civettuole e tutte lucide e pulite, come se fossero state dipinte a nuovo. In breve un insieme che rallegra e dimostra ordine, pulizia, civiltà e benessere.

 A' piedi della torre del mercato passa Wather Street, l'arteria principale del commercio e vi si vede brulicare una folla cosmopolita appartenente alle razze più varie e disparate, dall'Indi silenzioso, color di rame, all'Africano nero come l'ebano, dal Cinese sporco e trasandato, al cooly delle Indie orientali nell'artistico costume nazionale, dall’Inglese metodico e calmo come nella vecchia Albione al meridionale chiassoso e sbuffante per il caldo.

 I grandi depositi dei moli spingono la loro fronte interna fino a Wather Street e molte volte si trasformano in ricchi negozi, dove si trova ogni ben di Dio, proveniente dall'Europa o dall'America del Nord. Tutte le altre strade della città (con uno sviluppo di 44 miglia) corrono parallelamente o normalmente a Wather Street, e basta traversarle per convincersi delle buone condizioni igieniche della città. Graziosi giardini e boschetti circondano tutte le case, lunghe file di alberi riparano le vie dal sole e la migliore pulizia regna da per tutto. Il centro poi di molte strade è traversato dai canali di prosciugamento, tenuti colla massima cura. Due file dì alberi li circondano, un bel tappeto verde ne ricopre le sponde e spesso le acque sono quasi nascoste da quella pianta meravigliosa che è la Vittoria Regia (Victoria regalis).

 Una rete di trams elettrici corre sulle strade della città; e la ferrovia, molte strade ordinarie e vaporini fluviali la uniscono con le fattorie ed i paesi più importanti della colonia; il telefono ed il telegrafo sono sistemati nelle località più importanti; un buon servizio di vetture pubbliche funziona tutto il giorno; un'ottima polizia assicura l'ordine; un regolare servizio di pompieri vigila sulle proprietà un po' esposte al fuoco causa la predominanza del legno nelle costruzioni; un acquedotto, sussidiato da forti pompe, manda da per tutto l'acqua per gli usi generali; cisterne capaci e buone provvedono l'acqua potabile e quattro mercati forniscono ogni sorta di vettovaglie. Oltre gli zuccherifici e le fattorie di cacao, situati negli estades, vi sono: tre fonderie ed officine meccaniche; segherie; officine per la luce elettrica; fabbriche di biscotti e di fiammiferi; ospedali; manicomi; istituti di beneficenza; clubs tra i quali è. notevole il Georgetown club; due banche; molte associazioni tra cui è notevole la Royal Agricoltural and Commercial Society, che ha anche una libreria di 17.000 volumi; un museo; una Camera dì commercio; sei tra giornali i e riviste; posti preparati per i giuochi e gli sports ai quali gli Inglesi, con buona accortezza, attendono all'equatore come nella fredda Albione, e finalmente vi è un meraviglioso orto botanico con una lunga e bella passeggiata a ridosso della diga a mare, dove nel pomeriggio si riunisce la gente elegante del paese con numerosi equipaggi.

 Le condizioni climatiche e sanitarie non differiscono molto da quelle delle Antille; anzi le seconde si possono ritenere buone e sono migliori, in ogni modo, di certi posti del Brasile frequentati dai nostri emigranti. Il caldo poi è assai meno snervante e meno forte che in certe parti di Cuba e ciò è dovuto al fatto che le terre, essendo basse, sono spazzate liberamente dal vento dell'oceano. Si ha quindi la sorpresa di trovare questi paesi, che per la loro vicinanza all'equatore si è condotti a supporre inospitali per l'elevata temperatura, in condizioni migliori di altri messi più lontani dall'equatore stesso. Ed il clima riesce sopportabile pei bianchi, specialmente perché sovente le notti sono fresche e permettono un buon riposo. La temperatura varia tra 24° e 30° e le piogge dominano in dicembre e gennaio e da maggio a luglio.

***

 Segue come importanza, dopo Georgetown, New Amsterdam (8900 abitanti), che è la capitale della provincia di Berbice ed il centro agricolo di quel fiume; ma siccome i suoi prodotti sono mandati con le navi locali a Georgetown per essere poi esportati, il movimento commerciale è poco accentuato a New Amsterdam, e la vita vi è molto quieta. Altre città importanti non vi sono nella colonia, ma vi si notano molti villaggi (i più importanti sono 18) fondati in maggior parte da neri. Questi, quando furono affrancati, si rifiutarono di seguitare a lavorare nelle piantagioni, o lo fecero a prezzi tanto elevati da costringere molti proprietari ad abbandonare od a vendere ad essi stessi, a prezzi meschini, le loro terre. Per fare tali acquisti formarono piccole associazioni mettendo insieme le loro economie, e quindi sorsero naturalmente i detti villaggi. Ma questo indirizzo, apparentemente buono e certo migliore che altrove, non fu duraturo e presto si ebbe un novello esempio di quanto ebbi a dire per Haiti. L'amore irresistibile per l'ozio non tardò ad avere il sopravvento e le nuove colonie non solo non prosperarono, ma occorse che il governo se ne immischiasse seriamente, perché l'igiene nei villaggi fosse rispettata ed i canali e le dighe fossero conservati in buon ordine per non nuocere anche alle piantagioni vicine.

 Queste piantagioni infatti spesso si seguono, restano legate per le opere idrauliche e sono allineate colla fronte verso le dighe stesse. Dato poi il modo come sono sistemati i canali fu possibile in origine dividere il terreno in piccoli lotti di forma rettangolare detti estades e, secondo le vecchie regole olandesi, un colono poteva cominciare col possedere un rettangolo di terra largo da un quarto a mezzo miglio e lungo 1 e 7/8 di miglio con diritto in seguito a raddoppiare od a triplicare questa profondità. Ma le gravi spese per la manutenzione dei canali rendeva difficile l'opera dei piccoli proprietari, cosicché col tempo si sono riuniti nelle mani dei ricchi capitalisti parecchi estades ed è stata fortuna. Successivamente, a partire dal 1820, furono abbandonate le coltivazioni del caffè, del cacao e del cotone per dedicarsi quasi unicamente allo zucchero; quindi la colonia si vide minacciata di rovina quando il prezzo di questo abbassò. I ricchi proprietari però potettero far fronte alla crisi, ed anzi, fidando nell'avvenire, fecero nuovi acquisti e seguitarono a coltivare i loro estades. In questo modo, quando il prezzo rialzò di nuovo, grazie alla convenzione di Bruxelles, la colonia ne sentì subito i benefici effetti ed ora è prospera e ricca.

Ma lo zucchero e l'agricoltura in genere non sono le sole ricchezze della colonia, perché fonte di grandi guadagni possono essere anche le sue foreste che hanno legni ottimi ed alberi preziosi, come quelli che producono guttaperca (balata), resine, medicinali, ecc., ed inoltre vi sono le miniere d'oro a cui accennai, che si credono assai ricche, e che, mentre nell'80 produssero solamente 250 once inglesi del prezioso metallo, nel '92 ne diedero 54.559.

 La colonia quindi è in grande sviluppo e in questi ultimi anni specialmente è molto progredita, e per quanto, col lavoro specialmente dei coolies, piccolissima parte del paese stesso sia sfruttata (100.000 acri inglesi o un decimo solamente della striscia di terra che, con profondità di circa 3 miglia, si stende lungo le rive), pure la produzione e la conseguente ricchezza sono assai notevoli, come risulta dalle cifre seguenti:

 […] (pp. 85-87).

DIVISIONE DELLA POPOLAZIONE

Portoghesi (12.166) Vennero tra il 1835-40, come lavoratori; ora sono quasi tutti commercianti e molti sono ricchi. Vivono molto tra loro, e fanno poca lega con gli inglesi.

Altri europei (4.558) A Georgetown vi era un solo italiano.

Indiani orientali (105.465) Furono introdotti per sostituire gli schiavi; ne vengono quasi 5000 all'anno con buoni contratti e fanno abbastanza economia. Furono introdotti come coolies, diventarono commercianti e fanno concorrenza ai Portoghesi.

Neri (115.588) Hanno origine da vecchi schiavi emancipati nel 1838: un sesto solamente si dedica ancora all'agricoltura. Alcuni si sono ritirati nei boschi e sono tornati allo stato selvaggio.

Indi dei villaggi (7.463). Sono mezzo civilizzati, quieti, chiusi e silenziosi: pare tendano ad estinguersi. Gli uomini spesso si accontentano per tutto vestito d'un limitato pezzo di stoffa, le donne portano una una graziosa piccola camicia, strettissimi legacci alle braccia ed alle gambe e degli spilli infilati nel labbro inferiore. Nelle feste si adornano; gli uomini si tingono anche il viso.

Indi della foresta. Vivono nell'interno ed è difficile stabilirne il numero.

Totale 278.328

Data l'importanza di questa colonia ed il suo accentuato sviluppo, devo richiamare qui quanto già dissi circa la possibilità del nostro commercio con questi paesi e l'utilità grande che potremmo trame studiandoli di proposito. Mentre nelle altre colonie inglesi non è da pensare ad avviarvi la nostra emigrazione, è utile osservare, per quanto avrà da dire in seguito circa la Guyana olandese, che qui i bianchi si possono acclimatare, e floridi invero appaiono gli Europei che vidi a Georgetown. Sì è detto e ripetuto che il caldo è troppo forte perché possano lavorare i campi, ma i Portoghesi vi fecero buona prova e resistettero tanto al lavoro che riuscirono, come ho detto, a far buone economie, darsi al commercio e ricavare molte fortune. Più saliente poi è l'altro esempio di un certo numero di Olandesi che furono chiamati per fare una, esperienza di colonizzazione agricola dalla. loro vicina Guyana: essi apparterrebbero alle razze che secondo molti più difficilmente dovrebbero acclimatarsi, eppure scegliendo a dovere la località da assegnare loro, resistettero bene e prosperarono tanto che ora posseggono magnifiche terre e stanno ottimamente. E poiché i nostri contadini si accontentano del Brasile e vanno a raccogliere la canna negli Stati meridionali del Nord America, certamente riuscirebbero bene qui, tanto più che, oltre le pianure, vi sono terre elevate che potrebbero, come già dissi, offrire migliori condizioni.

Le necessità della navigazione non mi permisero di fermarmi a lungo, come avrei voluto, a Georgetown e dovetti affrettare la partenza per Paramaibo (29 e 30 novembre, miglia 218), ma lasciai con rincrescimento quel paese dove tutti fecero a gara ad usarci cortesie ed ogni persona che aveva una posizione ufficiale od una condizione rilevante volle salutarci e mostrarsi gentile verso questa prima nave italiana che visitò la colonia.

LA GUIANA OLANDESE

Uscito dal Demerara, mi allargai, da terra per circa. 15 miglia e poscia, mantenendomi nei fondali di 20 braccia, mi diressi a 15 miglia al nord del battello fanale di Surinam e quando nelle prime ore del 29 ottenni, grazie ad un’opportuna scelta delle stelle          da osservare, una retta d'altezza passante per il detto battello e diretta quasi per S. S. E. (rombo più conveniente per atterrare, perché più a ponente vi è meno fondo e la corrente può portare sui banchi), accostai per il rombo medesimo ed all’alba scoprii di prora il nominato battello. Questo è dipinto in rosso, ha due alberi, quello di maestra porta il fanale all'altezza di 20 piedi, e sopra un pallone, e quello di mezzana, alto 45 piedi, ha in testa una bandiera blu. Scambiai con esso parecchi segnali e subito venne a bordo un pilota ma mi disse che l’avevo trovato colà perché il vapore italiano l'aveva informato che dovevo arrivare ed egli da circa 15 giorni veniva fuori (25 miglia di cammino) per avere il piacere di pilotarmi. Ciò importa notare perché secondo i portolani dovrebbe sempre trovarsi un pilota sul battello   fanale: invece essi vengono fuori solamente quando sanno che arriva una nave. Bisogna quindi avere l’avvertenza di segnalare in precedenza il proprio arrivo al rispettivo console, se non si vuol perdere una giornata per mandare a cercare il pilota, inviando una imbarcazione a mezza strada e cioè a Forte Amsterdam che è in comunicazione telegrafica con Paramaribo.

Date le condizioni delle acque, trovai opportuno di aspettare per entrare coll’alta marea dell'indomani: diedi quindi fondo un po’ al largo del battello fanale; il mare era grosso, ma il fondo e buon tenitore e vi potetti stare con sicurezza.

Osservo che il battello fanale non è nella posizione indicata dalle carte, ma è spostato di circa 1/2 miglio verso S.O., è situato sulla estremità del bassofondo della barra e si trova in circa 11 piedi d'acqua quando il livello delle acque è minimo. Appena arriva una nave domanda il suo pescare, se ha a bordo un pilota lo manda, e segnala di avanzare quando le acque lo permettono, ma se non ne ha o se le acque sono troppo basse segnala il posto di fonda e di aspettare. Secondo poi i piloti ecco come variano in media durante ogni lunazione i livelli delle acque alte sulla barra. […] (p. 89).

Dall’imboccatura del fiume a Paramaribo corrono quasi 22 miglia e le rive sono coperte da fitte muraglie di alberi, dietro i quali spesso si estendono le coltivazioni di cacao.

Il passaggio della barra non è difficile e cosi pure abbastanza sicuro è il resto, della navigazione, ma a poca distanza dalla prima barra ve n'è una seconda presso la piantagione Resolute. In seguito si passa la confluenza del Commevyne e si arriva al Forte Amsterdam, dove bisogna pigliare pratica (e se occorre restare in quarantena) prima di proseguire per Paramaribo. Avanti però di raggiungere questa ed a poca distanza da essa v'è una terza barra e benché abbia più acqua di quella esterna le navi grosse devono regolare le cose in modo da arrivarci ad alta marea (l'effetto della marea si sente a molta distanza a monte). A tal uopo si deve considerare che a Paramaribo la marea, ritarda quasi di un'ora e tre quarti sull'ora della marea del battello fanale, e tenendo conto di ciò, della mezz'ora che si deve perdere al Forte, della propria velocità e della corrente (2 a 3 miglia) è facile stabilire quanto tempo prima dell'alta marea bisogna partire dal battello fanale per arrivare alla seconda barra con acqua sufficiente. Similmente nell'uscire bisogna lasciare Paramaribo prima che si abbiano le acque alte.

A Paramaribo ci ancoriamo innanzi alla casa del Governatore e poco più in su si potrebbe andare colla nave (qualche miglio); ma grazie alla cortesia del console, potei, come appresso dirò, risalire il fiume per altri 80 km. circa, fino a Bergendal, con un vaporino locale. Dopo quella località cessa anche per i vaporini la possibilità di navigare e solamente le canoe possono seguitare a trafficare sul fiume che nell'alto corso non è ancora ben conosciuto.

La città è assai meno bella di Georgetown specialmente perché è costruita sul tipo europeo, e le case non sono separate, come là, da graziosi e comodi giardini. Anche le strade sono meno ben tenute e l'igiene meno curata.

È possibile rifornirsi di viveri ed anche di combustibile e presso lo sbarcatoio governativo si può avere acqua per lavanda, pure di pigliarsi la cura di pomparla con apposita pompa ivi sistemata.

La costa ha lo stesso aspetto dì quella della Guyana inglese ed identiche sono anche la natura e le risorse del paese; mi basterà quindi notare che qui invece dello zucchero si coltiva il cacao e perciò si corrono gli stessi pericoli inerenti ad una coltivazione unica.

Infatti, come nella Guyana inglese il ribasso dello zucchero produsse una crisi finanziaria, qui una malattia del cacao aveva determinato, quando vi arrivai, un'analoga crisi.

Gl'Inglesi, grazie ai maggiori capitali, poterono facilmente resistere, gli Olandesi invece si trovavano in condizioni meno propizie ed il Governatore, persona assai di valore, tentava di rimediare ai mali presenti e futuri, dando sviluppo alla ricerca dell'oro e "creando nuove colture mediante piccoli agricoltori. Egli sperava di attuare questo progetto bene studiato e facile a riuscire grazie alla ferrovia che fa costruire fino ai. terreni auriferi col concorso di una bene organizzata immigrazione di coloni europei; e, giusta quanto dissi più innanzi, il progetto è attuabilissimo, sia perché le condizioni locali permettono il lavoro dei bianchi, sia perché le terre, come quelle della Guyana inglese, sono molto fertili e promettenti e sia perché la colonia, nonostante l'attuale e passeggera crisi, è florida come appare dai quadri seguenti: […] (pp. 91-93).

Anche alla Guyana olandese dunque è serbato un avvenire meraviglioso, e noi potremo facilmente parteciparvi, perché la nostra emigrazione vi è possibile e desiderata. A tal proposito ricorderò che fin dal mio arrivo tutto il mondo ufficiale si pose in moto per fare onore a questa prima nave italiana che visitava la colonia.

Il governatore S. E. Lely, ex-ministro olandese, è un ingegnere molto noto, e credo sia stato mandato qui per dare un impulso alla colonia. Egli cortesemente volle farmi visitare la ferrovia sopra ricordata ed organizzò una gita sul tronco già costruito. Durante tutta la lunga strada mi fece da colta guida, facendomi rilevare l'importanza che avevano i lavori per l'agricoltura, e la facilità con qui si potrebbero stabilire delle piccole fattorie, in un terreno ricchissimo, sano e libero dalla malaria. Insistette lungamente su tutto ciò ed alla fine, come conseguenza e conclusione, mi espose il suo desiderio di una lunga emigrazione italiana nella colonia.

Risposi evasivamente, perché ero da 48 ore sul luogo e non avevo ancora un'idea chiara delle cose: ma in seguito cominciai a convincermi dell'importanza della proposta. Fortunatamente poi, mentre facevo del mio meglio per studiare la questione, giunse il console nostro che tornava dall'Olanda, e subito il governatore lo chiamò per esporre anche a lui il progetto.

Il console è un olandese colto, ricco ed assai stimato a Surinam; apprezzai quindi molto i suoi schiarimenti e trovai in lui un entusiasta dell'idea del governatore. Ma desiderai vedere meglio coi miei occhi il paese, ed il console mi portò prima a visitare il borgo dove si è già fatta, con buoni risultati, la prova di colonizzazione olandese, poi mi condusse, con un suo vaporetto molto a monte del fiume, fin dove cominciano le colline e finalmente mi diede, ogni sorta di delucidazioni e schiarimenti. Dopo ciò mi parve di essere abbastanza illuminato e quando il governatore tornò a. parlarmi della cosa, lo pregai di voler concretare le sue idee, facendogli presente a priori che era necessario escludere dal progetto ogni forma di contratto di lavoro, e che bisognava fare ai nostri coloni una posizione assolutamente diversa e superiore a quella che si fa agli emigranti delle Indie orientali.

Il governatore allora desiderò che io assistessi ad una conferenza tra lui, il capo delle finanze ed il console, nella quale si discussero e formularono le basi di un progetto per fare un largo esperimento di colonizzazione italiana. E vantaggiose assai mi apparvero le condizioni proposte, perché il governo della colonia si impegnava di trasportare gratis i coloni dal paese di origine a Surinam e dì rimpatriarli anche a sue spese se non resistevano al clima; di concedere loro gli utensili da lavoro e di approntare per essi, a prezzo modico e da rifare a piccole rate, una casa provvista di utensili da lavoro, e di impiegare i coloni in lavoro rimunerativo, finché la terra loro assegnata cominciasse a produrre.

Ricchissime oltre ogni dire e sane in generale sono le terre offerte, e certamente i nostri contadini potrebbero far bene, sotto la protezione del Governo olandese che avrebbe ogni interesse ad aiutarli per non sciupare il suo denaro e per farli affezionare al paese.

I contadini olandesi della prova sopra ricordata sono ora tutti proprietari di bellissime terre, ma mancò il numero necessario di persone per seguitare la colonizzazione. Questo numero non mancherebbe a noi, ed i nostri contadini, che spesso si perdono nelle inospitali fattorie brasiliane (dove lontani dai centri abitati sfuggono naturalmente al controllo ed alla protezione delle leggi e sono spesso uccisi dalle malattie o dall'eccesso di lavoro) qui troverebbero comodità, protezione ed amore (amore interessato, se si vuole, ma sempre amore) ed invece di ingordi e selvaggi piantatori, un governo onesto ed illuminato a cui conviene moltissimo di farli innamorare del paese invece di sfruttarli.

Se la cosa riuscisse, in un'epoca non lontana avverrebbe senza rimpiangere vittime, un fenomeno analogo a quello che si è verificato a San Paolo, ma su più larga scala, perché tutte queste terre preziose andrebbero nelle mani dei nostri contadini. Una numerosa e larga colonia nostra si stabilirebbe a Surinam, aprendo di conseguenza al nostro commercio il mercato delle Guiane, o un mercato che deve necessariamente diventare uno dei più importanti del mondo.

Nessuna preoccupazione poi dovremmo avere circa la specie di coltura alla quale dovrebbero dedicarsi i nostri contadini ed ai metodi di cultura che dovrebbero seguire, perché il governo locale studia già la cultura più conveniente per loro e s'incaricherebbe nel suo stesso interesse d'istruirli. E’ da ricercare solo il punto più opportuno per la prima prova: il governatore si occupava seriamente della questione, ma per allora era propenso a che si facesse nei terreni già preparati accanto alla linea ferroviaria. Il console riteneva più opportune le terre alte in prossimità delle miniere d'oro ed anche a me questa seconda idea pareva preferibile, sia per la temperatura più mite, sia per i prezzi elevati a cui si potrebbero vendere i prodotti agricoli ai minatori, e sia finalmente per la possibilità che, i contadini avrebbero nei periodi in cui fossero liberi dai lavori agricoli, di lavare, per conto loro, delle piccole quantità di sabbia aurifera.

E queste cose il governatore (che mi colmò di cortesie e vorrei gliene giungesse l'espressione del mio grato ricordo) me le diceva egli stesso, e quasi a completare il pensiero che era sorto nella mia mente nel tracciare l'itinerario del viaggio, al momento di accomiatarci aggiungeva: "Io non mi dissimulo che se il progetto riesce, la colonia diventerà moralmente italiana, ma anche la mia Olanda ne risentirà vantaggio immenso e sarà lieta di avere avuto compagna l'Italia nel sollevare al livello che le compete queste terre preziose". E fu con la speranza radiosa di questo successo della solerte opera nostra, che io lasciai quella bella regione, dove la civiltà ha fatto già il suo ingresso, per un'altra terra, l'Amazzonia, più ricca, ma che la civiltà ha ancora in larga misura da conquistare.

.

VERSO L'AMAZZONE - PARÀ

 

Da Paramaribo a Parà - Partito da Paramaribo per Parà (dall'8 al 13 dicembre, miglia 856), girai al largo i banchi che sorgono innanzi alla costa delle Guiane Olandese e Francese e tre giorni dopo, mentre ero ancora a 240 miglia al Nord dalla bocca più occidentale dell’Amazzone, un brusco cambiamento nel colore delle acque mi avvertì che eravamo già entrati nelle località dominate dal gran fiume. La profondità delle acque però era ancora abbastanza grande, poiché solamente a 140 miglia più al Sud cominciano i secchi di Capo Nord, che si estendono a grande distanza da terra, onde a 90 miglia da essa, si trovano appena 10 braccia.

Siccome ritengo che conviene atterrare alle foci del Parà correndo sul meridiano di capo Salinas, diressi 25 miglia a Nord del fanale del detto capo, e così passai a 100 miglia a levante di Capo Nord, ed a mezzodì del giorno 12 raggiunsi il parallelo della bocca occidentale dell'Amazzone.

Scrivo semplicemente fiume Amazzone e non delle Amazzoni, perché, mi pare, non sia più il caso di seguire la leggenda delle Amazzoni inventata da Orellana e ripetuta da Raleigh. Il primo, luogotenente infedele di Pizarro, esagerando le abitudini che hanno molte donne indie di accompagnare i mariti alla guerra e servendosi largamente delle sue reminiscenze classiche, la imbastì per giustificare, colla maschera del meraviglioso, l'abbandono del suo capo; il secondo volle utilizzarla a sua volta per giustificare il suo insuccesso e tentare di salvare la testa, ma non ebbe fortuna. Più logico invece è ammettere, col padre Zani, che quel nome preesisteva alla scoperta e derivava dalle due parole tupi: ama (grande) zona (valle), e poiché può dirsi che sì tratta di una grande valle di acqua, questa interpretazione corrisponde all'abitudine degli Indi di indicare i luoghi con paro1e che ne descrivono la natura.

Ma, a proposito di nomi sarà bene anche di dire subito che designerà col nome di Amazzonia i due stati brasileni di Parà e dell'Amazonas che sono traversati dall'Amazzone, e col nome di valle Amazzonica, la grande regione che comprende tutto il sistema acqueo del gran fiume, e che abbraccia oltre l’Amazzonia, le provincie cisandine del Perù, e parte degli stati di Goyaz, di Mato Grosso, di Bolivia, di Columbia, dell'Equatore e del Venezuela.

A misura che procedevamo i fondi diventavano irregolari: il portolano consiglia di tenere sempre in mano lo scandaglio, ma è assai meglio avere più spesso in mano il sestante. Ed in vero presto mi avvidi che poco assegnamento si può fare sui fondi segnati della carta, onde lo scandaglio è utile sussidio per assicurarsi che non si cada in fondali minori di 14 braccia, ossia non si arriva in prossimità dei banchi che orlano la costa e sbarrano le bocche dell'Amazzone, mentre l'osservazione degli astri può e deve guidare all'atterraggio. Attenendomi a questo concetto verso le ore 7 del 13 dicembre giunsi regolarmente sul meridiano del fanale di Salinas, ed a 7 miglia da terra trovai il cutter dei piloti. Ne imbarcai subito uno, e proseguii per Parà.

La costa è bassa e non presenta punti caratteristici. Il fanale di Salinas, che fu costruito nel 1657, è messo sul declivio di una piccola collina tutta coperta in alto da boschi, ma sparsa, lungo la riva, di tratti sabbiosi che appaiono come grandi macchie bianche tra il verde degli alberi. La più grande di queste macchie si spinge verso il sommo della collina stessa, tanto da raggiungere il fanale, ma il bosco a ponente di esse scende fino al mare, e solamente un poco più in là è interrotto da un'altra macchia bianca meno estesa. Queste indicazioni possono essere di una certa utilità, ma se non si è sicuri del punto astronomico, non bastano a chi non è pratico dei luoghi, per riconoscerli, e giova notarlo, un'eguale difficoltà risiede per tutta questa costa e più specialmente per quella del fiume. Ed in vero, oltre la immensità, mi pare che una certa ombra di mistero sia una delle caratteristiche notevoli della valle Amazzonica, e perciò mi è occorso di figurarmela alcune volte come il simbolo dell'infinito, ed altre come il simbolo di una strana e mostruosa divinità. Infatti essa si sente, si. intravede, ma non si vede mai completamente; le sue rive quando si crede di raggiungerle, sfuggono, nascondendosi dietro isole, canali, meandri di ogni specie, le sue origini ed i suoi limiti si perdono ancora nell'ignoto di montagne dirupate o di foreste interminabili e finalmente i corsi di acqua quasi non si possono limitare, perché, quando si crede di giungere al loro termine, si moltiplicano in una rete intricata difficile a seguire.

Passammo tra i banchi della costa di Parà e quelli del largo, verso mezzogiorno doppiammo il battello fanale della foce del Parà, e dopo di aver traversato uno stretto canale, circondato da banchi, sui quali rompe duramente il mare, penetrammo nel fiume ora detto. Questo con la sua immensa massa d'acqua giallastra, ha aspetto veramente maestoso, e sembra quasi un braccio di mare. Largo oltre 44 miglia all'imboccatura, si prolunga verso S. E. per poco più di 100 miglia; a circa 6o miglia dalla bocca riceve il fiume Guajara e dopo, mentre fa un gomito verso ponente, si unisce al maestoso Tocantins.

Seguimmo una rotta presso a poco parallela alla linea del cavo telegrafico sottomarino, ossia ci tenemmo più vicini alla riva dritta, onde quella di sinistra si perdeva quasi all'orizzonte, ma dopo l'isola Colares ci avvicinammo un poco ad essa.

Eravamo entrati con la corrente di flusso, e poiché il cambio di marea ritarda sensibilmente a misura che si procede a monte del fiume, riuscii, aumentando un poco di velocità, ad avere fino all'ancoraggio di Parà, la corrente favorevole.

***

Ad accrescere l'illusione di essere in mare anziché in un fiume, concorrevano i delfini amazzonici che ci volteggiavano intorno come delfini di mare. Questi cetacei che i Brasiliani chiamano Bolos, crescono assai numerosi perché la loro carne non serve, e solamente qualche volta si pescano per estrarre dall'occhio sinistro un piccolo granulo che sì vende abbastanza caro come portafortuna.

Insieme con essi vedemmo saltare sull'acqua anche molti pesci, ché essi sono numerosi assai, e gli autori ritengono che le loro specie siano due volte più numerose di quelle del Mediterraneo. La gente del luogo però pesca quasi unicamente il piraiba di un bel colore rosso, la taihana di cui si fa molto consumo a Belem, perché abbonda principalmente verso la foce, ed il pirarucù (Studìs Gigas), che si mangia in tutta l'Amazzonia seccato come il baccalà, e si prende generalmente col rampone.

Ma è nei laghi principalmente che abbonda il pesce, e si valuta che l'Autaz, il Rey, il Manaquiri, ed il Manacapurù potrebbero dare più profitto dei banchi di Terranova. Ciò nonostante e per quanto le leggi locali promettano grandi vantaggi, facilitazioni economiche ed anticipi di capitali per tre compagnie che volessero organizzare la pesca su grande scala nell’Amazzone, finora nulla si è fatto a tale riguardo; nei mercati è difficile trovare un poco di pesce, ed una grande ricchezza non è quindi sfruttata.

Sono poi notevoli tra i mammiferi che vivono in queste acque: un sirenio noto sotto il nome di "lamantino" e che chiamano "pesce-bue"; e tra i rettili, le tartarughe, gli alligatori e molti serpenti d'acqua.

Fin dai primi tempi della scoperta vennero sul fiume navi a pescare il lamantino, perché la sua carne, e specialmente quella della femmina, è buona e si presta anche per fare una ottima conserva chiamata Mixira; il suo grasso poi dà un buon olio per la illuminazione.

Le tartarughe hanno il guscio di nessun valore, ma la carne è buona e la gente del paese ne è ghiotta, onde se ne prendono molte, tanto che nel corso del basso Amazzone ora se ne incontrano poche. Per pescarle adoperano due sistemi: col primo lanciano all'animale, mediante l'arco, una freccia speciale. La punta di questa quando colpisce, si stacca dalla canna, mentre penetra nel guscio dell'animale, ma vi rimane legata mediante un filo. Il pescatore quindi afferrando la canna resta in possesso della tartaruga e la tira a galla quando è esausta. Ma oramai questi animali sono diventati assai sospettosi, ed il più piccolo rumore li mette in fuga; importa quindi che il pescatore aspetti la preda nel massimo silenzio ed immobile. Ciò è necessario anche per il pirarucui, ed in conseguenza avemmo spesso lo spettacolo di un uomo fermo, come una statua, sulla prua di una canoa, pronto a lanciare il rampone od a far scattare l'arco e che non si muoveva neanche per rivolgere uno sguardo alla nostra nave, nuova a lui per forma e dimensioni, che gli passava a poca distanza. Più proficuo, ma assai più distruttivo è l'altro sistema di pesca che è spiegato dal suo stesso nome viracao (giramento): quando il fiume è basso, le tartarughe vanno sulla sabbia a sotterrare le uova; i pescatori allora le raggiungono e le rovesciano rapidamente; dopo non resta che raccoglierle insieme con le uova.

Gli animali sono conservati vivi per la vendita, le uova si mangiano fresche, affumicate o si consumano per dolci; ma spesso si usano anche per fare una specie di grasso che si brucia per l'illuminazione.

Gli alligatori contano molte specie e spesso diventano grossissimi: gli affluenti ed i laghi ne sono infestati, e molti vivono anche sul fiume principale, ma si vedono quando le acque sono molto basse, ossia quando la corrente è debole ed i bassi fondi si scoprono. Nuotano con la testa e l'estremità superiore del corpo fuori acqua, ed è facile scambiarli con vecchi tronchi neri e rugosi. Anche essi potrebbero essere sorgenti di lucro: sull'Orenoco, due cacciatori col commercio della pelle di detti animali fecero una fortuna, ma sull'Amazzone manca la gente per far ciò.

Molti sono anche i serpenti di acqua: ricorderò solamente il sucuryu (Boa Seytale) come il più notevole per dimensioni che spesso raggiungono i 20 metri e ne potei ammirare un magnifico campione nel giardino botanico di Parà. In questo giardino stesso vi è una numerosa raccolta di serpi vivi di tutte le specie e sul bordo di una delle tante vasche preparate per essi mi occorse vederne più di un centinaio, aggrovigliati fra loro in una massa confusa, orrida e disgustante. E poiché ho accennato ai serpenti, dirò che ve ne sono molti anche in terra, velenosissimi, come la cascavella, poderosi come il boa, dalle forme più strane, come la vibora voladora, ecc., ma sono meno da temersi di quanto si crede. Nella Guiana Olandese mi occorse di vedere un grosso boa che due indiani avevano catturato vivo; i cholos del Perù sanno afferrare con le mani i serpenti più velenosi. Del resto benché tutti gli abitanti della foresta vadano scalzi, la gente pratica mi assicurava che non è facile che siano morsicati da un serpente, perché raramente capita loro di calpestarli, visto che durante il giorno, ossia quando l'uomo cammina nel bosco, dormono nascosti nei tronchi corrosi e raramente nell'erba.

Parà - Seguii il Parà fino alla confluenza del Guajara è poi entrai in quest’ultimo fiume che è formato dal rio Mojù-Mojù, bel corso d'acqua di 6oo km. e dal Guana, la cui confluenza è a circa 2 miglia al sud dalla città del Parà. Il Guajara presto diventa stretto e chiuso a ponente da numerose isole, assai ridenti per rigogliosa vegetazione. La più a nord di queste è Tatuoca, dove sorge il lazzaretto per le quarantene, e di rimpetto ad essa, sulla via opposta è il paesello di Mosqueiro, sull'isola omonima, con circa 3000 abitanti, strade e piazze discrete e case dì villeggiatura. In seguito la riva dritta è abbastanza abitata e ad 8 miglia da Mosqueiro, s'incontra Pinheiro, che è anch'esso luogo di villeggiatura, e che ha in prossimità l'Hospedaria de Emigrantes. Il fiume diviene quindi ancora più stretto, specialmente presso il vecchio forte della Barra di dove si comincia a veder la città di Santa Maria di Belem do Grao Parà, o, come alcuni dicono più brevemente, Parà od anche Belem.

Verso le ore 19 diedi fondo, afforciandomi con due ancore con tornichetto, nella baia di Guajabare, innanzi alla città. Il bacino sembra molto grande, ma la parte di esso che ha fondali, sufficienti è assai ristretto e le navi devono restare vicine e su lunghe linee.

La città, fondata nel 1615 da Castello Branco, aveva 12.000 abitanti nel 1800, ma ora è molto sviluppata, e la sua popolazione ha raggiunto 125.000 abitanti. E’ costruita in piano e perciò non è possibile apprezzarne dal fiume la grandezza, ma la parte che fronteggia la riva è sufficiente a dimostrare che è un centro commerciale importante.

Si vedono infatti i fumaioli di alcune officine meccaniche (capaci di lavori di qualche importanza) e dell'arsenale di Marina (fondato nel 1760) e lunghi moli in ferro e legno (appartenenti in gran parte alle linee di navigazione Amazonas e Booth) forniti di grandi depositi e costruiti in modo che le navi possano accostarli anche ad acque basse. Dietro i moli si estende una piazza alberata ed una larga strada sulla quale si trovano numerose case di commercio; ed anche al commercio ed ai magazzini di lusso servono le prime strade che si sviluppano parallelamente a quella ora detta. Dopo comincia la parte della città più particolarmente riservata all'abitazione, e vi si notano larghe strade in costruzione, spaziosi viali ben alberati, graziosi giardini e larghe e belle piazze, tra le quali è notevole quella della Repubblica. Si possono poi ricordare una vecchia cattedrale, il teatro, un palazzo del Governo in via di esser migliorato, quattro biblioteche, parecchie Case bancarie, un museo con giardino botanico, che qui è tanto facile rendere meraviglioso, molte scuole per l'insegnamento elementare e secondario e per le arti e mestieri, delle fabbriche di sapone, cera, biscotti, liquori, candele, un'estesa rete di tramvie a cavalli, una ferrovia che va sino alla vicina Braganza, un buon sistema d'illuminazione elettrica e molte case in costruzione. (Pare che negli ultimi anni se ne siano fatte 800 all'anno). È anche da rilevare che sono in corso parecchi lavori intesi a meglio aerare la città; ma errato, a me pare, il sistema generale di costruzione delle case, perché conservano il tipo di quelle del Portogallo o della vecchia Europa e non hanno neanche il comodo patio delle case spagnole. Ma, come per le case, qui si commettono errori in molte manifestazioni esteriori della vita, perché spesso si cerca più di soddisfare la vanità e di far figura che di. attuare l'utile ed il buono. Per esempio, gli uomini sono sempre infagottati nelle camicie inamidate, negli alti colletti ed in pretenziosi abiti di lana, e la festa si sottomettono anche al martirio dello staio e del soprabito nero. Negli uffici però si tolgono la giacca, ma hanno cura di conservare la camicia inamidata; se invece portassero un bel vestito bianco, sarebbero meno pretenziosi, ma starebbero meglio e più decenti anche in casa. Analogamente, l'unica forma di abitazione possibile dovrebbe essere quella adottata dagli Inglesi nelle Antille, graziosi cottages cioè, senza pretensione, ma pieni di aria e di luce, molto salubri e freschi, liberi e ridenti grazie al boschetto che li circonda.

La questione delle abitazioni si riattacca al problema igienico della città, per il quale se qualche cosa si è fatto, molto resta ancora da farsi . A questo proposito importa dire brevemente del clima di tutta la valle Amazzonica fino alla lontana Iquitos, e sfatare una triste leggenda che si è purtroppo formata intorno a questa regione.

Clima ed igiene nell'Amazzonia - I Brasileni si affannano a scrivere e a dimostrare che il clima nell'Amazzonia è ottimo e ripetono ad ogni passo le parole del professore Agassiz: "non conosco un paese del mondo così pieno di attrazioni, più fertile, più salubre e meglio adatto ad essere il centro di una immensa emigrazione". Ciò nel complesso è esagerato, perché le meravigliose attrattive che seducevano lo scienziato, non attraggono l'emigrante, ma contiene un gran fondo di verità ed il bianco si adatta a questo clima. Invero esso non corre qui pericoli maggiori di quelli che lo minacciano in qualsiasi altro porto del Brasile, specialmente se rispetta l'igiene ed evita all'arrivo o prima dì acclimatarsi, di andare nelle località dove, più infierisce la malaria o rincrudelisce la febbre gialla, e si astiene dal mangiare all’uso del paese, e dal fare abusi di frutta, di bevande spiritose e dì ogni altra cosa. A questo proposito è opportuno ricordare che qui le classi medie mangiano carne di tartaruga (la carne bovina è più raramente usata), pesce dove si riesce a trovarne con facilità, e farina di manioca invece di pane. Il popolo invece usa cibi di carattere locale, tra i quali si possono ricordare la paqueca (considerata come una vera ghiottoneria e composta di carne o pesce ravvolto in foglie, fatta cuocere sotto la bragia e condita con diversa preparazione di tapioca) il moquem, specie di carne affumicata, il pirarucù, pesce secco, il tucapy, salsa che si estrae dalla manioca, il piracuhy, farina di pesce, ecc., e purtroppo beve l'acqua del fiume, in molti posti anche senza filtrarla. Gli ottimisti dicono, che l'acqua è la bevanda dei poveri, ma la cachaca ed altri liquori fermentati, ricavati da varie frutta, sono in verità comuni come l'acqua. Tutte le cose anzi dette non sono adatte agli stomachi europei, specialmente nel periodo di acclimatazione.

L'Agassiz poi ha proprio torto quando sostiene che il clima è delizioso. E’ tollerabile e anche migliore di quello di alcune delle Antille, ma delizioso non lo è, né potrebbe esserlo. Ed invero, questa continua estate di cui lo scienziato si entusiasmava è utile all'attività di certi animali e delle piante, perché non li costringe ad un riposo forzato, ma non è il desideratum per gli uomini delle zone temperate che emigrano qui. Si può però dire con coscienza: la valle Amazzonica, pur essendo in quella zona che i geografi. chiamano torrida, ha un clima caldo, ma non soffocante, perché come nelle vicine Guiane, il fresco vento dell'Oceano non è arrestato da elevazioni di terra e spazza in gran parte la grande valle, apportandovi un salutare refrigerio. La temperatura invero a Parà si mantiene abbastanza bassa per la latitudine, la media si aggira intorno ai 25° C. ed il massimo non supera in generale i 33°, la notte scende fino ai 20° e le variazioni giornaliere sono di circa 10°. Analogamente si ha: a Manaos media 27°, massimo 31°, minimo 22° e ad Iquitos media 25°5 nella parte montuosa, media nel piano 25°5; maximum maximorum 35°.

Vi è una stagiona piovosa che, per esempio, nel basso Amazzone, va da dicembre a giugno ed i più forti calori che nell'estate si notano verso le 14 spesso sono moderati da provvidi acquazzoni. Ed a proposito di temperatura è notevole che nell'estate si manifesta in certe località inaspettatamente un forte abbassamento che dura due o tre giorni: credono nel paese che questo fenomeno sia utile all'igiene e suppongono che sia dovuto allo sciogliersi delle nevi andine. Esso non ha data fissa, ma nell'Amazzone lo chiamano freddo di San Giovanni, perché avviene prossimamente nei giorni in cui si celebra la festa dì questo santo.

Naturalmente in alcune dello località nello interno, ed anche presso alcuni fiumi come il Panahybo ed il San Francisco, dove i benefici del vento sopra detto non arrivano, il clima diventa torrido ed umido. Anzi verso, il San Francisco vi è una zona disgraziata che si estende al vicino Cearà, formando un vero deserto, dove si soffre il flagello della carestia e della sete. Molti infelici allora muoiono di privazioni, e molti fuggono nell’Amazzonia dove, pur di non perire di fame, diventano raccoglitori di gomma, sfidando la malaria. Ed invero i paesi dove la gomma si raccoglie più abbondante, sono quelli più colpiti dalla malaria, perché sono paludosi e mancano di medici, e di ogni disposizione igienica.

In generale dunque avviene che l'evaporazione di tutto questi enorme sistema acqueo sottrae molto calore alla gran quantità d raggi solari che cadono sulla valle e la temperatura risultante è resa dall'Aliseo più sopportabile. Si stabiliscono, cosi le condizioni favorevoli ad una vita vegetale meravigliosa ed intensa, invece dell'arido deserto. Perciò l'umidità delle terre basse, le fermentazioni determinate dalla vegetazione lussureggiante, ma rapida, l'assenza di ogni opera di risanamento, la mancanza di un completo regime igienico, la poca estensione delle terre coltivate, sono meno dannosi di quello che potrebbero e dovrebbero essere. Infatti la rapidità del ricambio e dello sviluppo fa si che appena cominci la putrefazione di una pianta, ne nasce un'altra che assorbe i gas deleteri e quindi non si determinano pericolosi riposi vegetali.

Ma perché queste condizioni si mantengano, bisognerebbe chi lo sfruttamento e l'abbattimento della foresta, così economicamente importante, ed a cui spesso dovrò accennare, fosse regolato da savie leggi, come hanno fatto gli Inglesi nelle Antille, per la conservazione di quella parte della foresta che la scienza ritiene necessaria per l'igiene e per il mantenimento di convenienti condizioni climatologiche.

La febbre gialla colpisce principalmente gli stranieri e ciò rese per molto tempo il paese indolente contro di essa, ma ora si pensa a combatterla, perché si sente impellente la necessità di facilitare l'immigrazione. Sono stati perciò creati dei Comitati per l'igiene, si fanno leggi e regolamenti e si votano fondi, ma, mi sia lecito dirlo una volta tanto, in questi paesi, più che altrove: "Le leggi son, ma chi pon mano ad elle?" E a non farvi badare concorrono le lotte politiche ed i mille interessi personali che ad esse connettono, onde assai spesso i lavori pubblici sono ispirati da interessi privati o dalla vanità di legare il proprio nome a un cumulo di pietre più o meno artisticamente disposte.

Intanto funzionano a Parà 11 ospedali, o case di salute, si pensa di accrescere la quantità di acqua potabile che ora si trae dall’igarapè di Utinga, e pare che si cominci ínche a pensare occorre un completo sistema di fognatura.

***

A tutto ciò ed all'igiene in generale, bisogna provvedere non solo nella detta città, ma in tutto il Brasile per preparare l'avvenire di questo immenso paese che ha una superficie eguale ad un quinto del vecchio continente, e per le sue immense ricchezze naturali potrebbe e dovrebbe essere uno dei più grandi fornitori del mondo di materie prime. Difatti dall'Amazzonia si possono ottenere ogni specie di prodotti vegetali, legnami, fibre tessili, olii svariatissimi, frutta, farine, cereali, caffè, cacao, tabacco, spezie, medicinali e le migliori gomme elastiche. E similmente gli Stati della zona tropicale e dì quella temperata possono fornire i prodotti più ricchi e variati: lo Stato di Pernambuco solamente, produce oltre 220.000.000 di libbre di zucchero, e tra l'Amazzone ed il tropico si può avere dalle terre basse, zucchero, manioca, cacao, riso e frutta; dai declivi delle colline caffè (di cui la maggior parte viene dallo Stato di San Paolo con una produzione di 800..000 tonnellate all'anno) e dagli altipiani cotone (di cui si estende la coltivazione perché costa meno del caffè) e tabacco. Nelle regioni temperate (San Paolo. Paranà, Santa Caterina, Rio Grande del Sud) si ha ancora caffè ed inoltre cereali, frutta, uva, bestiame ed il maté che ora va molto estendendosi, perché oltre a dare una buona bibita, pare sia un ottimo rimedio contro l'insonnia, l'indigestione, la gotta, l'esaurimento fisico e mentale, ossia si considera quasi come una vera panacea universale.

Negli Stati di Goyaz, Bahia, Mato Grosso e di Minas vi sono grandi ricchezze minerarie. Pare che la prima miniera d’oro sia stata scoperta nel XVI secolo, presso Goyaz, è certo che se ne trovarono nel XVII secolo negli Stati di San Paolo, di Minas Geraes. Questo ultimo Stato è quello che comprende la. regione mineraria per eccellenza e vi si trovano oro, argento, rame, ferro, zinco, mercurio, manganese, calce, salgemma, diamanti, topazi, ametista. Solamente le sue miniere di oro hanno data 200 milioni di sterline, e nelle sue cave di diamanti furono trovate, le più belle pietre del mondo, e tra esse la famosa Stella del Sud che, allo schiavo che la trovò fu scambiata con la libertà.

Fin dalla scoperta non fu dato al Brasile e più specialmente all'Amazzonia, l'importanza che meritava, tant'è vero che il re di Portogallo, quando divise il suo nuovo possesso (1532-35), in 12                capitanerie, non fece neanche cenno della valle ricchissima dove Pinzon, nel 1500, aveva visto per il primo la foce del famoso Mar Dolce. Solamente verso il 1650 il re Don Alfonso pensò ad erigerla in una capitaneria detta dell'isola Joannes (ora Marajo).

Per evitare poi una dannosa concorrenza alle Indie orientali, furono proibite nel Brasile molte coltivazioni e per trarne, con le idee protezioniste del tempo, il massimo utile, ne furono chiusi agli stranieri i porti, disponendo che tutti i prodotti fossero avviati con regolare convoglio ai mercati della madre patria. Ma col tempo e con le successive scoperte delle ricchezze inesauribili del suolo, le cose migliorarono un poco; furono tolte le restrizioni alla navigazione, si cercò di proteggere in certo modo i disgraziati Indiani, trattati fino allora peggio delle bestie feroci, si permisero, cessando di considerarli infamanti, i matrimoni dei bianchi con le loro indie, e si introdussero, per sopperire ai crescenti bisogni, i neri d'Africa. Ma ciò nonostante, quando i reali di Portogallo, fuggendo innanzi alle aquile vittoriose di Napoleone, ripararono a Rio Janeiro (8 marzo 1808) la colonia, non era al caso di far fronte ai nuovi, bisogni ed alle ingorde pretese dei favoriti che avevano seguito la corte.

Bisognò quindi affrettarsi nelle riforme e nei miglioramenti intesi a far meglio fruttare le ricchezze naturali, del paese, e si iniziò così quella fase agricola che è risultata tanto vantaggiosa, ma che deve essere ancora molto sviluppata.

Quando, tornato il re don Giovanni al Portogallo (aprile 1821), il reggente del Brasile, suo figlio Don Pedro di Alcantara, fu costretto (gennaio 1822), per non perdere tutto, a dichiarare l'indipendenza del Brasile stesso ed a costituirlo in Impero, il suolo cominciava già a produrre, ma sempre troppo poco per i bisogni locali e per le esauste finanze dello Stata. Un grande debito gravava su di questo; il bilancio si chiudeva sempre con deficit, ché le entrate non giungevano a metà delle spese, gli scambi tra le province erano difficili perché mancavano strade e linee di navigazione, l'istruzione pubblica era trascurata e finalmente la popolazione in tre secoli era appena salita a 3.797.000 abitanti, di cui due milioni erano schiavi indiani e neri.

Le cose non sono cambiate da allora, l’esportazione e l'importazione che erano arrivate nei primi tempi dell'Impero a 50 ed a 100 milioni rispettivamente, nel 1901 raggiungevano circa 500 e 1000 milioni, le sole dogane nel 1897 diedero oltre 75 milioni, senza contare i dazi percepiti da ciascuno Stato; molte strade sono state aperte; esistono già 9000 km. di ferrovia, una estesa rete telegrafica e parecchie linee di navigazione; la schiavitù è stata abolita e la popolazione si è quadruplicata.

Ma 16.000.000 di abitanti, sono quasi nulla per questa terra sconfinata; onde mancano sempre le braccia necessarie per coltivare almeno una parte notevole della terra, per iniziare delle foreste, per lavorare maggior numero di miniere e per sviluppare le industrie.

Casi nelle provincie del sud, dove si tenta con maggiore interesse di far sorgere fabbriche ed officine, non si è potuto finora fare molto, e dal paese in generale i soli prodotti che si esportano in quantità notevoli, in mezzo a tanta dovizia, sono il caffè, la gomma, lo zucchero ed il maté e, solamente per i primi due, il Brasile mantiene il primo posto. Occorrono quindi braccia, molte braccia ed i 1000.000 emigranti che arrivano annualmente non sono sufficienti.

Ricchezze e commercio dello Stato di Parà - Le ultime considerazioni ora fatte si applicano in special modo allo Stato di Parà, perchè esso, riceve una parte assai esigua dei detti emigranti e, benché sia il terzo degli Stati brasileni per grandezza (ha una superficie quasi piana che occupa un'area compresa tra 1.150.000 e 1.700.000 kmq.), e potrebbe contenere metà della popolazione d'Europa), non conta che 700.000 abitanti.

Il suo suolo fertilissimo perciò è quasi abbandonato all'invadente foresta e la poca gente esistente in paese, essendo stata presa dalla febbre della gamma (l'oro vegetale), quasi esclusivamente di essa si occupa. E cos1 fino a poco tempo fa lo Stato di Parà era il più grande produttore di questa materia, ma ora è superato dalla vicina Amazonas. Tra gli altri prodotti di cui, nel Parà stesso, si cerca di trarre qualche profitto, sono il cacao, le fibre tessili, i legnami, le piante medicinali, e per quanto essi e la gomma crescano ora quasi spontaneamente, e si sfruttino alla meglio, ciò nondimeno, come mostrano le tabelle seguenti, sono, già sufficienti a fornire una grande ricchezza ed a far progredire il paese (dal 1872 la popolazione si è triplicata, ed i diritti di esportazione da 3000 contos nel 1889 erano saliti a 24.000 nel 1900); si può quindi facilmente pensare quali meravigliosi risultati si otterrebbero se le terre fossero coltivate. […] (pp. 108-109).

Molto Propizia è la posizione di Belem, onde il suo porto è lo scalo più importante dell'Arnazzone e per molto tempo ha assorbito il movimento commerciale di tutto il fiume, ossia degli Stati di Parà, dell’Amazzonas e degli altri Stati del Brasile stesso, e delle vicine Repubbliche del Perù, della Bolivia, dell'Equatore, del Venezuela che trovano nell'Amazzone e nei suoi affluenti la sola via di comunicazione con l'Atlantico. Ma ora l'Amazonas progredisce giornalmente ed il suo porto dì Manaos fa una gran concorrenza a quello di Belem e cerca il movimento delle Repubbliche limitrofe. Ciò nonostante Belem vede sempre accrescere il suo commercio e la tabella seguente mostra l’importanza del suo porto. […] (p. 110).

 

NAVIGAZIONE SULL'AMAZZONE

 

Vai alla cartina della valle amazzonica

 

Ricerca delle carte e dei piloti; rifornimento di combustibile. Appena arrivato a Parà, mi diedi per prima cosa a cercare una carta del fiume dalla quale potessi almeno dedurre qualche, indicazione generale sulla condotta della navigazione; ma non trovai nulla. Una vera e propria idrografia nel senso nautico non esiste, ne forse esisterà mai, perché il fondo in generale, e gli angusti canali navigabili in particolare, per l'azione della corrente, sono in continua variazione.

Ma se l'Amazzone, il Solimoes ed il Maranon fossero ognuno percorsi continuamente da due lanchas idrografiche che, partendo da una estremità andassero verso l'altra, scandagliando ed osservando, sarebbe facile preparare e tenere al corrente di correzione un rilievo a vista di grande scala. Bisognerebbe però che questo rilievo fosse logicamente illustrato da note spiegative da vedute e da indicazioni necessarie per riconoscere i punti in cui bisogna traversare il fiume; ma importerebbe completarlo anche con opportuni segnali sulle rive e con stazioni nei punti più pericolosi.

Un capitano della Compagnia Booth si è accinto a fare uno schizzo rispondente allo scopo ora detto, e l'ha corretto in base a ben 14 viaggi da Parà ad Iquitos. La scala adottata però è troppo piccola e ad ogni modo mi fu possibile solamente vederne un pezzo (Manaos-Iquitos) al mio arrivo ad Iquitos, ossia quando era per me troppo tardi. Non mi riuscì poi di avere, eppure Parà doveva essere il posto più adatto per trovarle, nè la carta fatta dal Welmington, né la nuova edizione della carta inglese che contiene il Parà col canale di Breves, né le altre carte Nord Americane che sembra siano dedotte da quelle dell'album brasileno di cui ora parlerò. Dovetti quindi accontentarmi, in mancanza di meglio, di due semplici carte geografiche a grandi scale, la Mappa do Estado do Parà compilata con abbastanza esattezza dall'ing. A. Santa Rosa e la Mappa Geografica do Estado do Amazonas compilata dal conte A. Stradelli nel 1901 ed attualmente in ristampa. Il console però di Parà mi fornì una specie di preziosità bibliografica, quattro carte rilevate nel 1844 dal R. Brik francese la Boulonnaise e che comprendono il basso corso del fiume fino ad Obidos. A Manaos poi il conte Stradelli mi fece vedere un'altra rarità dello stesso genere: l'album di carte idrografiche da Parà a Tabatinga, eseguite, pare, da Brasileni e che risalgono presso a poco alla stessa epoca delle carte francesi. Naturalmente le une e le altre ormai sono troppo vecchie e quindi non le trovammo conformi al vero, tuttavia si scorge facilmente che le Mappe anzidette e molte altre, riportate in libri e pubblicazioni diverse sono state disegnate con la loro guida. Tutta la mia relazione però si riferisce all'album di rilievi a vista che furono da noi compilati con la scorta di quelli che possedevamo, ma in base alle nostre osservazioni.

Da tale album nostro sono tratte, le carte unite al presente scritto.

Importa però notare che lo scrupoloso servizio idrografico organizzato come sopra ho detto, potrebbe col tempo liberare la piccola navigazione di cabotaggio dalla soggezione dei piloti almeno sul fiume principale, ma ciò non sarebbe mai possibile per le navi, perché solamente con la pratica e le grandi conoscenze locali è possibile orientarsi in questo labirinto e seguirne le singolarità. Le carte però completerebbero, come in ogni altra regione, l'opera, dei piloti; in caso di bisogno permetterebbero di farne a meno e sempre metterebbero i comandanti in caso di regolare la navigazione e di liberarsi da un numero infinito d'inconvenienti che ogni marinaio facilmente comprende, specialmente se si pensa che,' salvo il tratto Salinas-Parà, dove lavorano impiegati governativi, non esiste nessuna società di pilotaggio e nessuna norma precisa per regolare il servizio dei singoli individui che prendono la patente di pilota. E, come se tutto ciò non bastasse, a complicare le cose c'entra pure il conflitto di attribuzioni tra le autorità federali e quelle dei singoli Stati, in modo che riesce facile alle une ed alle altre schermirsi, e levarsi ogni noia, quando le navi ricorrono a loro per un pilota.

Al principio però non trovai grandi difficoltà in proposito. Per evitare ritardi, avevo telegrafato a Parà per trovare il pilota a Salinas, ma incontrai, come dissi, con regolarità, il cutter dei piloti sempre in attesa di navi.

Raccomandai al console di Parà di usare ogni diligenza per trovare due buoni piloti per l'Amazzone, ma un'ora dopo veniva a bordo il signor Durante, ex-agente della Ligure brasiliana, per propormi i piloti che erano al servizio della Compagnia stessa: Machada e Cordeiro, veramente molto capaci. Mi chiesero però molto, ma compresi, e me lo dissero anche il console ed il capitano del porto, che a prescindere dal mio pescare, assai forte per quelle località, le navi da guerra devono sempre pagare più delle mercantili, perché esse, mentre non danno stabile impiego, impongono ai piloti maggiori responsabilità, visto che le autorità portuarie, al più piccolo guaio, li radierebbero dalla lista dei piloti.

Ciò non ostante, e grazie alla cortesia del capitano di porto, signor comandante Policarpo de Barros, riuscii a fare un buon. contratto, e ciò mi fece pensare di avvantaggiarmi di quel gentile ufficiale per avere da lui i piloti fino ad Iquitos; ma non fu possibile per ragione di delicatezza verso il capitano del porto di Manaos. Questi, però non riuscì a fare molto, ed i piloti di Manaos, sia perché non osavano navigare con una nave grossa come il Dogali, sia perché volevano fare una speculazione sul mio viaggio, si posero d’accordo per impormi condizioni semplicemente esose, e furono essi forse a spargere la voce che la nostra idea di risalire il fiume era semplice spavalderia. A dire il vero pochi, anche tra i nostri amici, credevano che avremmo potuto compiere una così difficile impresa, perché il Dogali pareva loro troppo grosso per il fiume, ma è probabile che anche la Compagnia Booth, che ha il monopolio del fiume, accrescesse le difficoltà, perché a ragione doveva temere che a breve scadenza le navi mercantili di una Compagnia italiana seguissero il Dogali. Le difficoltà però valsero semplicemente ad accrescere in me il desiderio di andare, ed anche quello di dare una lezione a quella gente. Decisi perciò di partire senza piloti, cercandomi il canale con un vaporino di proprietà dell'agente consolare signor Malagutti che egli, salvo le spese dei materiali consumabili, metteva cortesemente a mia disposizione. Non mi dissimulavo la difficoltà e la lunga durata dell'impresa, ma non esistono difficoltà insuperabili, quando si vuole veramente fare qualche cosa.

Questa mia inaspettata decisione impressionò anche i piloti ed appena si seppe che io provavo il vaporino e l'armavo con la mia gente, un pilota, abbastanza buono e che era giunto la mattina da Iquitos, venne a bordo e si offerse di servirmi, dichiarando che non faceva patti, ma che gli bastava l'onore di stare su di una nave italiana e si rimetteva completamente a me per la mercede. Mutate fino a questo punto le cose, era una questione di dignità l'accettare e lo feci, mentre da Parà, dove avevo telegrafato, mi informavano anche della partenza di due piloti fissati per me. Di questi uno era buono, ma da sei mesi non risaliva il fiume, l'altro era un principiante, ma tornava da poco da Iquitos. Data dunque l’abitudine dei vecchi piloti di avere un assistente, si doveva ritenere che i due nuovi arrivati avevano il valore di un sol pilota, e che perciò, unendo ad essi quello di Manaos, ero riuscito, con un poco di energia, ad impormi ed a mettere insieme i due piloti che abbisognano ad ogni nave e che sono prescritti anche per i vaporini fluviali. Bisognava inoltre tener presente che i soli piloti adatti a grosse navi sono quelli che fanno la linea Parà-Manaos, ma per la linea Manaos-Iquitos non vi sono che quelli della Booth (educatisi a forza d'incagli) e che io non potetti avere: quindi i miei tre, se pur fossero stati tutti ottimi, nessuno da solo mi sarebbe convenuto. Ed invero, abituati come sono ad andare con navi di poco pescare, ed a seguire speciali canali, poteva avvenire, e constatai essere proprio così, che vi fossero tratti notevoli dei canali principali che alcuno di loro conoscesse ed altri no.

Notevole riscontro a tutte le noie incontrate a Manaos furono le cortesie e facilitazioni che ebbi dal prefetto di Iquitos per i piloti dell'alto Maranon. Appena arrivato in questo paese il detto prefetto si affrettò a dirmi, prevenendo la mia richiesta, che sarebbe stato felice se una nave italiana compiva il record della navigazione amazzonica, che era nell'interesse del Perù di far conoscere i suoi fiumi, e che perciò si faceva un dovere di mettere immediatamente a mia disposizione i migliori piloti locali. Uno di essi (indio) conosceva perfettamente il fiume, l'altro (mulatto) valeva poco, ma, dovendo navigare solo di giorno e per poco tempo, ne avevo abbastanza. Non occorre però dire che entrambi avevano, come quelli di Manaos, pilotato solamente lanchas (vaporetti) e conoscevano una nave un poco grossa (6oo tonnellate) perché c'erano stati a bordo come passeggeri in un viaggio da Iquitos a Manaos. Ma essi avevano in testa la carta che non esiste a stampa e mi bastava.

Mi pare ora opportuno di dire più particolarmente sulle qualità dei piloti. A Parà ed a Manaos s'incontra molta gente, ed anche dei giovincelli imberbi, che posseggono o dicono di possedere la patente di pilota, ma i buoni sono pochi assai e sono noti a tutti. Non è infatti una cosa facile diventare pilota dell'Amazzone, ed occorrono, per diventarlo, qualità speciali di memoria e di spirito di osservazione.

Senza contare i piloti degli affluenti, perché ognuno di essi ha i suoi, vi sono piloti dei tratti Parà-Manaos e Manaos-Iquitos ed anche Parà-Iquitos, ossia per fiumi di 1000 o 2000 miglia. Ora, se si pensa che in alto specialmente si deve manovrare continuamente e più di quello che occorre nei porti più difficoltosi, e che l'uniformità del paesaggio rende assai difficile il riconoscere le varie località, si comprende facilmente come occorrano lunghi anni di pratica per imparare solamente i luoghi ed i loro nomi. Ed invero i piloti cominciano la loro istruzione da bambini, e solamente quelli che materialmente vivono e crescono sul fiume stesso, possono immedesimarsi con esso ed imparare a conoscerlo. Ma, siano le loro qualità intellettuali, siano le condizioni speciali del clima che deprimono le energie, sia la mancanza delle onde tempestose e della furia dell'uragano, che formano e temperano i caratteri, è un fatto che i piloti della valle Amazzonica, insieme con molte qualità, hanno molti difetti. Spesso sono poco sinceri e poco intelligenti, difficilmente seguono un ragionamento e sempre sono presuntuosi e pieni di strane suscettibilità. Quando però un pilota che è riconosciuto buono sulla piazza, dà delle indicazioni circa una località che egli afferma di conoscere, gli si può credere; ma in generale bisogna considerarlo come un'ottima carta idrografica parlante e niente più. Se per caso qualche cosa fallisce (anche le migliori carte hanno degli errori), se una manovra manca, questi piloti perdono la testa, e non son rari i casi in cui scappano dal ponte quando avviene un incaglio. Bisogna dunque servirsene per farsi insegnare le località, come nelle circostanze ordinarie si studia la carta per conoscere un porto prima di entrarvi, ma è necessario stare sempre sul. chi vive, come avrò occasione di meglio spiegare in seguito. Abituati poi a manovrare sempre con la corrente, hanno uno speciale intuito per apprezzarne gli effetti, ma in cambio non capiscono quasi che si possa manovrare senza quell'influenza esterna. Non essendo mai usciti dal loro fiume, sono come un corpo a tre dimensioni che non può comprendere che si possa vivere in uno spazio a due dimensioni. Il senso della corrente è, direi, una dimensione che posseggono normalmente in più di noi, ma noi abbiamo il vantaggio di saperla acquistare quando occorre. Perciò avviene anche che non riescono a rendersi conto dello spazio, e nel Solimoes in special modo conoscono solamente quante ore occorrono per andare da un punto all'altro, con quel tale bastimento che servono normalmente, ma di cui non conoscono nè sanno che cosa sia la velocità in acque ferme. La gente del paese ed i negozianti si accontentano di ciò, perché a loro, data la corrente, interessa il tempo non la distanza effettiva e così non è possibile sapere con esattezza le lunghezze dei vari percorsi; e le tabelle che si conoscono sono tutte basate sulla durata media di molti viaggi di andata e ritorno, e sulla velocità presunta delle navi che la compirono. Ma siccome la velocità della corrente varia da un'epoca all'altra, e le navi non seguono tutti gli stessi canali, è facile trovare sensibili disparità tra le vario tabelle. Così per esempi tra le distanze che si deducono dal nostro schizzo del fiume da Parà ad Iquitos e la tabella più accreditata vi è una differenza di 70 miglia, ma date le condizioni locali, devesi considerare di nessun conto e perfettamente giustificabile tale differenza.

I piloti mi assicuravano che la velocità della corrente è di tre miglia, ma io pensai, e feci bene, che era meglio supporla di quattro, e su ciò mi basai per stabilire la velocità economica ed il carbone che mi occorreva, tenendo anche conto che l’acqua del fiume è buona per le caldaie ordinarie, e che occorre distillare solamente per provvedersi di acqua potabile. Da Parà a Manaos non c'erano difficoltà di sorta per il carbone perché la distanza è di circa 1000 miglia, ed arrivando avrei trovato da rifornirmi. Riempii però completamente le carbonaie, perché a Parà il carbone costava meno, e le condizioni del fiume mi permettevano di fare acquistare al bastimento la sua massima immersione. Per la stessa ragione economica imbarcai quanti più viveri potei, perché a Manaos e ad Iquitos si trova tutto quello che può occorrere ad una nave, ma a prezzi ancora più elevati di Parà. Ad Iquitos veramente alcune cose costano un poco meno, ma la differenza non è gran cosa, perché se da una parte sono minori i diritti doganali, dall'altra le spese di trasporto crescono molto. Più difficile si presentava il problema del combustibile nel tratto Manaos-Iquitos, perché nessuno seppe dirmi con certezza se in quest'ultima località ne avrei trovato, visto che questa è una notizia che non interessa i negozianti di gomma.

I piloti dicevano che, anche fermandoci la notte, saremmo arrivati in otto giorni ad Iquitos, ma non prestai loro fede, perché capii che, essi, sapendo di aver da fare con un incrociatore, immaginavano che avremmo volato, ed era inutile parlare loro di velocità economica. Avrei perciò voluto allogare in coperta una certa riserva di carbone, ma la gente pratica del luogo pareva così preoccupata dell'impresa che non mi parve prudente portare il pescare oltre i 18 piedi. Mi limitai perciò a mettercene solamente 30 tonnellate e le disposi in modo da immergere la prora senza influenza sensibile sul pescare a poppa, e dare alla nave l'assetto più opportuno per navigare sui fiumi (immersione avanti eguale od anche superiore di quella indietro). Tutti però mi assicuravano che avrei trovato molte rivendite di legna sulla mia strada, e potuto quindi sopperire alla mancanza di combustibile; ma poiché volevo assolutamente andare, decisi che se non avessi trovata legna pronta l'avrei tagliata con la mia gente. Perciò, visto che viveri ne avevo, non sarei certo rimasto per via, ma la scienza del poi mi dimostrò che ad Iquitos, finché le cose saranno organizzate come ora, il carbone si trova, perché la Booth vi lascia sempre uno dei suoi grossi pontoni con 200 o 300 tonnellate di combustibile come zavorra. Quello invece che nessuno mi disse, ed era importante, è che i rappresentanti di quella Società lo vendono a peso d'oro, e secondo i bisogni più o meno urgenti di chi lo richiede.

Durante la traversata Manaos-Iquitos, ossia quando non sapevo ancora se ad Iquitos avrei trovato carbone, mentre constatavo che veramente sulle rive esistono molti depositi di legna, ne comperai due volte per farla concorrere fin d'allora al consumo, insieme col carbone, per esperimentare il suo potere calorifero ed il miglior modo d'impiegarla, per dar modo ai fuochisti d'impratichirsi con essa nel governo dei forni ed alla gente di coperta nel suo imbarco, dato il caso che al ritorno fossi stato costretto a farne un più ampio uso. Si considera dai naviganti del luogo che mille pezzi di legna, del peso di 3.5 kg. l'uno, corrispondono ad una tonnellata di carbone e ne fanno corrispondere anche il prezzo; nella prova da me fatta con due caldaie ed una velocità di rifornimento di 20 pezzi al minuto per ogni forno trovai che potevo fare 6o giri, consumando 950 pezzi di legna invece dei 900 kg. di carbone che in eguali condizioni avrei bruciato. Questo risultato, era più che confortante, perchè m'assicurava l'autonomia della nave, ed impiegando poi la legna stessa durante l'alimento, ebbi un sensibile vantaggio sopra il corrispondente consumo di carbone. In seguito a ciò, decisi per il momento di bruciare carbone in navigazione e di usare solamente per l'alimento la legna imbarcata, salvo, occorrendo, di usarla al ritorno, ossia quando non importava dì correre molto anche in navigazione. Però la legna stessa ci costò parecchie-seccature; in primo luogo la nave non essendo adatta per un simile carico, la coperta restò molto ingombra, e quindi la gente non aveva posto per riposare e muoversi con comodo; inoltre molti insetti arrivavano a bordo con essa e quindi avemmo a soffrire un prurito molto molesto. Occorre poi una certa precauzione nell'imbarco per evitare ìl pericolo. che qualche serpe, dormente nelle cataste, mordesse, nello svegliarsi, gli uomini. Mi raccomandai quindi a questi di fare picchiare molti colpi sulle cataste stesse prima di smuoverle e di non lavorare all'oscuro nella notte, ma alla luce di molti fanali (impiegai anche i proiettori) e tutto andò bene. Bisogna però avere un poco di pratica nello acquistare la legna per non essere burlati circa la qualità. La migliore è quella di capirona, di quinila o di remo caspi, del resto se è grossa e molto pesante, e se è secca, ma non rovinata dal tempo (bisogna che non si spezzi facilmente) si può ritenere buona. Ogni pezzo deve essere lungo circa un metro con uno spessore di circa m. 0,10 ed un peso medio da 3.5 a 3,6 kg. In queste condizioni si può ritenere che il rendimento resta nei limiti sopra detti, e che l'ingombramento è quasi tre volte quello del carbone.

Nei canali tra il Parà e l'Amazzone - La foresta Amazzonica. L'estrazione della gomma elastica - Alle ore 22 del 19 dicembre 1904 lasciai Parà e verso la mezzanotte girata l'isola di Tatuoca seguii a monte il corso del Parà. Il fiume è assai largo,ed ha sulle rive paesi di una certa importanza tra i quali sono da ricordare Conde e Beja, benché le difficoltà di accesso che presentano i loro porti non facciano sviluppare il loro commercio; più importante è Maunà situata sulla riva sinistra (isola di Marajò) e circondata da un territorio ricco di gomma e di pascoli. Quasi all'altezza di quest'ultimo paese traversammo il fiume e passammo innanzi alla bocca del Tocantins che ha un percorso di 1300 miglia, traversa ricchi paesi ed è via commerciale molto importante anche per gli Stati vicini di Goya e Maranhao. Girammo poi l'isola di Gojabal e penetrammo nel canale che, passando al sud di Marajò, doveva condurci nel fiume Amazzone. Entrammo perciò nella regione delle isole, meraviglioso arcipelago di innumerevoli isole di tutte le dimensioni a cominciare da quelle piccolissime che contengono appena un ciuffo d'alberi e che un capriccio della corrente costruisce in pochi giorni, a quelle, grandi come Tupinambaraua (2453 mq. di superficie) ed a quella grandissima di Marajò che misura 130 miglia per 100 ha una superficie di 5328 kmq, è attraversata da fiumi notevoli, ha laghi grandi come quello di Arany e terre assai ricche per i boschi di gomma, per i pascoli estesì e per ogni prodotto vegetale.

Ma ciò che veramente è straordinario in questa regione è la rete fitta ed intricata di canali che girano tra le isole e di cui presto cominciammo ad ammirare la complicazione, perché a poche miglia da Gojabal, in mezzo a numerose isole, ci si pararono innanzi ben canali. Quello più a nord conduce a Breves che è il paese, più importante di questa regione; esporta sufficiente gomma e le solite derrate, è ben costruito ed ha un buon molo. Una volta tutte le navi che risalivano il fiume passavano per questo canale, ma ora preferiscono, perché più corto e sicuro, il canale di Bujassù, che è quello centrale tra i cinque ora ricordati. Esso è lungo 120 miglia, ma è molto stretto, tanto che sovente vi sono meno di 300 metri tra le rive, ed è assai tortuoso, onde bisogna navigarlo con molta attenzione, anche perché è assai frequentato e quindi nelle brusche girate bisogna andare cauti per evitare investimenti. Salvo pochi punti ha fondo per le maggiori navi fin presso le rive, e si naviga sempre a pochi metri da esse, onde si ha l'illusione quasi di toccare gli alberi che, quando il livello è alto, hanno i piedi nell'acqua. Il canale quindi è chiuso tra muraglie verdi e pare di navigare in un viale aperto dalle scuri di giganti in un parco immenso. Potemmo così ammirare a nostro bell'agio ed in tutto il suo splendore la meravigliosa foresta amazzonica. In essa alberi immensi, arboscelli sottili come giunchi, palme delicate, parassiti di ogni forma, orchidee preziose, felci eleganti, tutto, dal filo di erba più sottile al gigante del regno vegetale (nel Rio Branco è stato osservato un albero che misura intorno ai rami una circonferenza di 250 metri), tutto è ammassato nella più strana confusione. Riesce perciò difficile trovare vicine due piante eguali tanto che, dicesi, se ne possono contare un milione, diverse una dall'altra, in un chilometro quadrato. E tra esse è impegnata una lotta terribile, perché ciascuna tenta di alzarsi più in alto dell'altra, per guadagnare, senza pietà del vicino, l'aria e la luce, sorgenti di ogni vita. E le liane in genere, mentre rivaleggiano con le palme nel costituire una delle grandi attrattive della foresta, danno l'esempio più vivo di questa lotta; così la liana omicida (cipo matadoor) appena si attacca ad un tronco, getta due rami che si sviluppano rapidamente e vanno a ricongiungersi dall'altra parte. La loro stretta è cosi forte che quasi si confondono col legno della vittima, eppure serbano intera la loro vitalità, e presto dalla giunzione si propagano altre due braccia assassine che costituiscono un nuovo anello, e poi un terzo, un quarto e così di seguito, sempre più in alto fino alla cime, dove vanno a spandere al sole, in segno di trionfo, le loro foglie. Intanto la vittima muore soffocata, ma morendo si vendica perché cadendo trascina con sé lo strangolatore. Altre volte è il piccolo seme dell’arauca che portato dal vento sulla corteccia rugosa di un forte ramo vi si attacca e genera una graziosa fogliolina, mentre getta radici poderose che penetrano nel legno dell'albero, ne traversano il midollo e vanno a germogliare anche dall’altro lato. Allora la pianticella si sviluppa da quel lato e si allunga per tutto il tronco coprendolo con un lucido manto, ornato di fiori rossi. Altre volte ancora il rampicante, nato come il cipo omicida dal suolo, sale a poco a poco lungo il tronco dell’albero ne raggiunge la cima e poi, come una dritta corda, ritorna fino a terra di dove partì e vi mette nuove radici. E tutti questi rampicanti si cercano, si uniscono per mezzo di ponti aerei, si agglomerano e formano una fitta rete che, insieme ai rami che insieme ai rami che s’intrecciano, agli alberi caduti, agli arbusti di ogni specie, pare vogliano formare una barriera insormontabile contro l'uomo ardimentoso che tenta di penetrare il mistero del bosco. Solo pochi animali la foresta si degna di accogliere, ma a tutti, dal jaguaro - che, se non avesse a temere l'assalto terribile del boa costrictor, sarebbe il re del bosco - ai piccoli mammiferi che vanno a cercare il sole sulle cime più alte degli alberi, dalla cascavella ai rettili più strani, dalle farfalle variopinte ai più svariati insetti, dalle are bellissime ai piccoli uccelli mosca, brillanti come gioielli, provvede con regale munificenza. La maggior parte di questi animali però cerca di vivere sugli alberi, perché, come le piante, anche loro hanno bisogno di avviarsi verso la luce, e così diviene una caratteristica della foresta vergine quella di fare acquistare alle cose viventi, piante ed animali, la tendenza a rampicare.

Bella sempre la foresta. ha continui e meravigliosi mutamenti, che tengono sempre desta l’attenzione e sempre suscitano l'entusiasmo, onde non so dividere l’opinione di Alessandro Humboldt che provava un senso di tristezza dinanzi allo spettacolo di questa natura così viva dove l’uomo solamente non figura. Anzi quelle magnificenze naturali mi hanno sempre ispirato un senso di ammirazione mista ad un sentimento di orgoglio per la sicurezza che in un avvenire prossimo l’uomo avrebbe piegato ai suoi bisogni quella natura ribelle.

Dove il terreno è soggetto alle inondazioni- periodiche, gli alberi hanno tronchi diritti e senza rami fino a due terzi della loro altezza, oppure finiscono con un semplice ciuffo cosicché pare che li abbiano presi a modello gli artisti dell’arte nuova. Oppure appaiono diritti e allineati così da ricordare i boschi del nostro Appennino, o sono appena avvolti da graziose vegetazioni striscianti, simili, nella grazia gentile, alla nostra edera, altre volte, ma assai raramente si vedono boschi di sole palme.

Dove invece la terra è alta, gli alberi hanno magnificenza, fogliame più lussureggiante e più ricchezza di parassiti e di orchidee, e presso il fiume, lungo le rive inondabili (verzeas) hanno innanzi ad essi un prato di Campira (graminacea dall'altezza di 80 cm) il cui verde tenue risalta sul loro verde forte e scuro. Ma in generale nel Solimoes e, nel Maranon il bosco è meno bello che nel basso Amazzone.

Alla varietà del bosco fa giusto riscontro il mutar continuo delle linee delle rive così non ostante che il paesaggio sia piatto, non diviene monotono, anzi presenta sempre continue attrattive per l’attorcigliarsi dei canali, il succedersi delle isole, e la bellezza ora dolce e graziosa, ora selvaggia e forte della foresta che impressiona l’animo diversamente anche al mutardelle ore e del tempo.

Durante la pioggia, quando una nebbia sottile avvolge gli alberi, e penetra fin nelle ossa, pare di traversare un paesaggio nordico, ma appena il sole ritorna, con quel passaggio brusco proprio dei tropici, dalla pioggia al sereno, il verde delle foglie appare più dolce ed acquista la gaiezza dei boschi del nostro incantevole Appennino.

All’alba poi è tutta una festa della vita, in pieno meriggio la terra ha palpiti poderosi di fecondità, al tramonto strane ombre penetrano tra gli alberi e si addensano in una oscurità di mistero che pare nasconda l'infanzia di una nuova civiltà, prossima a fiorire su questo immenso campo vergine riservato alle attività delle prossime generazioni.

***

Ma l’ammirazione non si arresta alla bellezza che la mente non può esimersi di valutare e calcolare i tesori che rappresentano queste foreste meravigliose, che appena interrotte da qualche savana circondano tutto l’Amazzone estendendosi per 120 leghe dalla riva destra e poco meno da quella sinistra.

Uscirei dal mio compito se volessi scrivere qui un capitolo sulla flora amazzonica, mi basti dire che essa presenta molte diversità rispetto a quella del Brasile intertropicale, mentre ha maggiori affinità con quella delle Guiane e che è una delle più ricche del mondo per numero di specie e per notevoli caratteristiche. Non posso però esimermi dal fare un breve e rapido cenno di alcune delle piante più utili e tra esse comincio col ricordare quelle che possono fornire legnami per costruzioni navali e civili e per lavori da carpentiere ed ebanista. Ma sono cosi numerose che è impossibile numerarle; nel solo stato del Parà se ne sono contate finora, tra le migliori, 87 specie molto pregevoli, ma al solito, per mancanza di braccia, si fa venire da fuori molto legno per gli ordinari lavori.

Egualmente numerose, ma egualmente trascurate sono le piante alimentari: il caffè cresce quasi allo stato selvaggio, ma la sua coltivazione è così scarsa che tutta la valle Amazzonica ne importa, e nelle provincie cisandine del Perù si trovano fattorie abbandonate, in cui le macchine sono mangiate dalla ruggine ed i preziosi grani marciscono sulle piante. Anche il cacao prospera ottimamente, ma è di una specie diversa da quella delle Guiane, i grani sono irregolari, schiacciati, lunghi con sezioni triangolari. Testimoni ocula ri mi assicurano che sul fiume Ica si può raccoglierlo passando in una canoa lungo le rive, ma salvo alcune località del basso Amazzone, a cui avrò occasione di accennare, è poco co1tivato. La canna da zucchero fu coltivata nel XVIII secolo con ottimi risultati, ma ora se ne produce quel poco che basta per trarne una specie di acquavite detta Cachaca dai brasileri. Gli Indi specialmente sono ghiotti di questo disgustoso liquore che non ha nulla di comune col rum delle Antille, ed i seringueiros profittano di questa debolezza dei poveri figli della foresta per attirarli a loro. Perciò di tratto in tratto, lungo le rive dei fiumi, sorgono delle distillerie, gli Indi vi accorrono, accampandosi nei dintorni, e così i villaggi sono presto formati. Se allora il proprietario di una di quelle distillerie è capace ed accorto può fare la sua fortuna perché col debito e gli opportuni anticipi di robe e liquori, può accaparrarsi i poveri selvaggi e farne dei raccoglitori di gomma assai produttivi e poco costosi.

L'Ibady (la coca) cresce abbondante, il mais, il riso, i fagioli ed altri cereali forniscono ottimi prodotti a chi si prende la briga di piantarli, ma la sola coltivazione un poco curata è quella della manioca che è la base dell’alimentazione del popolo

Vi sono due specie di manioca: la dolce e l’amara: la radice della prima si può mangiare impunemente, e con delle operazioni di lavaggio e di essiccazione se ne ricava una polvere fina - micosacche - che ha impiego analogo alla nostra farina. Con una specie di cottura invece su lastre riscaldate, si ottiene una materia granulosa che è la tapioca.

La radice della manioca amara è velenosa per la presenza dell’acido cianidrico, ma si libera di questa parte dannosa mediante pressione ed evaporazione. e si usa per dolci, salse, ecc.

Ogni specie di frutto tropicale si può ottenere o dagli alberi sparsi nei boschi o con facile coltivazione; quasi tutte le spezie come il garofano, il pepe, il pimento di Cajenna, la cannella, la noce moscata, ecc., vi prosperano maravigliosamente; così pure il cotone, numerose piante tessili per far cappelli (compresi quei famosi detti di Panama), cavi, cesti, tessuti ed ogni specie di lavoro, il tabacco e moltissime piante da cui si possono trarre oli

Tra queste ultime piante ricorderò le castagne del Parà, di cui esistono tre specie, ma è quella comune, detta particolarmente di Parà o di Maranhao che si utilizza. L’albero è bello e grande, il frutto è rotondo, grosso come la testa di un bambino e rivestito di un duro guscio. Il vento lo fa cadere, e nell’urto si stacca la calotta inferiore dell’involucro, e ne vengono fuori una ventina di semi di discreto gusto e ricchi di olio. Se ne asporta una discreta quantità per l’Europa: nel 96-97 ne furono mandati 122.000 ett, dal solo stato di Parà.

Le piante medicinali come l’ipecacuana, il copaive, il guaranà (di cui nel 91 si esportarono 34 tonnellate da Parà), la salsapariglia, la noce tonka, ecc., sono talmente numerose che la valle Amazzonica potrebbe essere la farmacia del mondo. Similmente numerose sono le piante che danno tinte, gomme e resine preziose, ma tra queste le più pregiate sono quelle che danno la gomma elastica ed il caucciù ed anzi si esse solamente può dirsi che si occupa la gente che vive nella valle Amazzonica.

***

A quanto pare il padre Manoel da Esperanca fu il primo a parlare della gomma, egli la vide presso gli Indiani di Cambebas, ed osservando che era adoperata per fare recipienti atti a contenere liquidi, dalla forma di quei recipienti chiamò, con una figura retorica, borracha o shiringa la nuova materia.

Il primo nome è stato accettato dai Portoghesi, ed il secondo dai Peruani, ma questi usano anche l'altro di Jebe. Parecchio tempo dopo (1741) La Condamine vide una materia analoga verso Quito e per la prima volta parlò in Francia del caucciù (caucho spagnolo).

E’ noto che il caucciù ha qualità diverse da quelle della gomma elastica, e date le località delle due osservazio ni sarei propenso a credere che si debba la scoperta della gomma a Padre Manoel e quella del caucciù a La Condamine; ma non mi è riuscito di chiarire il fatto anche per la ragione che spesso mi è occorso vedere confuso l'un nome con l'altro, forse perché alcuni non badando alle qualità specifiche ed agli usi delle due materie, ma si limitano a dire che tra le varie specie di borracha esportata dall'Amazzonia, ve ne è una che è chiamata caucciù. Sul luogo poi, benché tutti gli interessati sappiano la differenza del prezzo tra l’uno e l'altro prodotto, non si occupano troppo della loro storia.

In principio la gomma fu poco apprezzata in Europa, e fu specialmente usata per cancellare il lapis, onde il nome inglese di rubber, ma la sua grande proprietà di essere impermeabile ai fluidi, i vantaggi che si possono trarre sulla sua elasticità la possibilità di farne vestiti e la relativa invenzione di Mackintosh, l'invenzione della vulcanizzazione di Goodyears, la sua trasformazione in ebanite, la generalizzazione delle biciclette, degli automobili, ecc., hanno resa la gomma ed il cautchouc o caucciù, materie di prima necessità per la nostra vita civile.

È noto che le dette materie si ottengono coagulando il latte che secernono certe piante speciali che mi astengo dal citare per non ingolfarmi in una grossa e difficile quistione di botanica: dirò solamente che la migliore gomma è prodotta dalla Hevea Brasiliensíi, la quale ha diverse varietà a cui forse corrispondono anche le distinzioni di Seringueira bianca preta (la più buona) che fanno i Seringueiros.

Non è facile determinare l'area geografica (forse la parte meridionale della valle fino ai fiumi peruani) occupata dall’Hevea in parola e dalle altre specie, di Hevea, come non è facile enumerare tutti gli altri alberi da gomma che esistono nella valle Amazzonica. Ricorderò solo che da poco tempo ha anche attratto l'attenzione una euforbiacea (specie sapium) che dà buona gomma ed altre piante, ma di minore importanza come l’Haucornia speciosa (Mangabeira) ed il Tauro. Finalmente la vera pianta a caucciù è una Castilloa, ma non è definito se la amazzonica sia la stessa di quella elastica.

Tutte queste piante crescono spontanee, non sono in generale strozzate da parassiti, come può avvenire per il cacao ed il caffè, e non sono come queste attaccate da insetti distruttivi, ma in cambio non si possono piantare dove si vuole e sembrano un privilegio della zona torrida. Ma la Hevea della valle Amazzonica (o almeno la specie di piante che si sfrutta, essendovi moltissime altre che si trascurano perché la loro gomma è inferiore, debil o brava) dà prodotti superiori in qualità ed in quantità a quelli degli altri paesi.

Perciò ed anche perché la produzione dell'Asia, dell'America centrale e dell'Africa diminuisce sempre, gli Inglesi e gli Americani hanno fatto tentativi di coltivazione, ma l'Amazzonia è restata vittoriosa e la sua raccolta (nel solo Stato di Parà su 57 municipi ne esportano 47) è sempre in aumento.

Fino al 91 erano in lavorazione più di un milione di miglia quadrate, ma restano sempre moltissimi terreni da sfruttare, e come appare dalla tabella seguente, oltre la metà della produzione mondiale viene dall'Amazzonia. […] (p. 125).

ed a questi dati si può aggiungere che dal 1839 fino al 1891 se ne erano estratte nell’Amazzonia 269.000 tonnellate. […] (pp. 126-134).

 

SULL'AMAZZONE

 

Arrivo nell'Amazzone - Dal canale di Bojassù a Santarem - Usciti dal canale di Rojassù entrammo in quelli di Tajapurù, Limao e, Itiquara che lo seguono e sono pari a lui per la poca larghezza, e la tortuosità, eccetto forse l'ultimo che è un poco più largo. Ad intervalli piuttosto grandi, vedemmo sulle rive capanne di pescatori o di mercanti di legna, elevate su palafitte, perché la costa essendo bassa è soggetta ad inondazioni periodiche. Sono povere costruzioni di legno con pareti di canne e tetto di foglie, senza traccia di coltivazione intorno, perché la poca manioca che serve agli abitanti è generalmente piantata verso l'interno, a qualche centinaio di metri dal fiume, ed in piccoli appezzamenti di terreno conquistato sulla foresta. Una volta sola mi capitò di vedere accanto ad una capanna, delle magnifiche ciocche di fiori rossi, che erano una vera festa in mezzo al verde del bosco, perchè ciò che manca laggiù è proprio la bellezza dei fiori per riposare e rallegrare l'occhio stanco alla fine di tanta ricchezza di verde. Sarebbe quindi assai facile abbellire quelle meschine abitazioni, ma quelle genti amano troppo poco il lavoro per spenderne in cose improduttive; però, nell'alto Amazzone, e specialmente nelle provincie peruane, dove le capanne sono costruite su terre elevate, hanno almeno intorno piante di banani, che le ingentiliscono assai e sovente ne fanno dei quadretti molto graziosi.

A mezzanotte del 21 usciamo anche dal foro di Itiquara ed entrammo finalmente nell'Amazzone. In quel punto esso è largo 40 miglia tra riva e riva, ma l'isola di Urutahy e dietro ad essa l'isola grande di Gtirupà - lunga ben 70 miglia - ingombrano la sua parte centrale e lo dividono in due bracci, l'uno settentrionale, più largo, l'altro, che noi traversiamo, meridionale, più stretto. Come al solito quindi non fu possibile ammirarlo in tutta la sua grandiosità, ma, relativamente, anche quello che si vedeva era semplicemente grandioso.

A valle dell'isola Gurupà, il fiume gira nel dedalo di isole che sono al Nord di Marajò e finalmente arriva al mare, dove affluisce per tre bocche comprese fra la punta Maquary dell'isola di Marajò e l'isola Mexiana, tra questa e l'isola Caviana, e tra quest'ultima e la punta Jupaty. Vi sono ben 250 miglia, tra le le punte estreme.

Numerosi bassi fondi sbarrano verso il largo le dette bocche, dentro di esse la corrente acquista sovente grandi velocità, le maree vi sono molto forti, e spesso nei canali più accidentati sono accompagnate dalla "Pororoga". Questo fenomeno, limitato ai bassi fondi di non più di 4 braccia, è assai grandioso: dopo che le acque hanno raggiunto il minimo livello della marea si vede giungere da lontano un'immensa onda, che si avanza a grande velocità accompagnata da fragoroso rumore. Una o due altre la seguono, enormi masse d'acqua si precipitano quindi sulla spiaggia, ed in brevissimo tempo il livello si eleva a quello, della marea alta.

Per tutti questi inconvenienti la navigazione attraverso dette bocche si ritiene impossibile e si è ricorso alla via del Parà per arrivare all'Amazzone.

A monte di Gurupà ìl fiume, si conserva sempre largo anche in quella parte che le isole permettono di vedere. A Santarem vi sono ancora 22 km. tra riva e riva, ma, poco più in su, ossia al passo di Obidos vi è uno stretto di soli 1000 metri, cosicché le acque devono acquistare grandi profondità perchè la loro enorme massa possa scorrere. Subito dopo le rive si allontanano di nuovo, e benché alla confluenza del Rio Madera, l'Amazzone meriti ancora bene il nome di Rio Mare, dopo non riacquista più, almeno nella parte visibile, la grandiosa maestosità del basso corso. Anzi, alla confluenza del Rio Negro, quasi, per la maggior larghezza, si sarebbe propensi a credere che questo sia il fiume principale, e perciò si comprende come dalla detta confluenza il nome celebre di Amazzone sia stato mutato in quello di Solimoes.

I canali navigabili diventano allora più angusti e difficili, sovente le coste si avvicinano bruscamente o numerose isole sbarrano il corso del fiume, e quindi si è costretti in passi di piccola ampiezza e molto tortuosi. Usciti poi dal Brasile, ossia dopo la confluenza del Javary, il nome del fiume si muta ancora in quello di Maranon, e mi piace il pensare, come taluni hanno creduto, che per un certo tempo il fiume intero portò questo nome, perché Pinzon, nell'accorgersi che non era un braccio di mare, come aveva supposto scoprendolo, esclamò "Mara non". Ora pare dimostrato che anche questo racconto non sia vero, ma dovendo scegliere tra esso e la leggenda prima ricordata, lo preferisco per la sua semplicità, così rilevante rispetto alle complicazioni del furbo Orellana.

Nel Maranon le difficoltà della navigazione aumentarono ancora: alla confluenza ora accennata del Javary il fiume appare pur sempre abbastanza ampio, ed a Tabatinga: (stazione di confine brasilena) misura circa 3000 metri tra riva e riva, ma in generale i passi sono stretti, tortuosi e sparsi di pericoli. Verso Iquitos però vi sono dei canali di grande regolarità e pare quasi che siano stati aperti ad arte, e che accorti giardinieri tengano in bell’ordine le immense muraglie verdi che li circondano.

Procedendo ancora oltre di Iquitos, le rive diventano più ridenti e sono più abitate, il bosco riacquista la grandiosità del basso corso, ma i canali adatti alle navi volgono al loro termine. Con tutta la buona volontà, essendo però il fiume a mezza piena, non mi fu possibile spingermi al di là si Santa Fè, ossia a 94 miglia da Iquitos, ma a piena completa credo che avrei: potuto andare per oltre 200 miglia circa.

Il fiume lassù si restringe sempre, e benché occorra arrivare a Brancomares per trovarlo della larghezza di 400 metri, i canali navigabili sono strettissimi, e, a dire dei piloti, al di là di Santa Fè non avrei incontrato spazio sufficiente per girare la nave. Ma è da notare che la strettezza dei canali navigabili, spinta al punto da non permettere la girata neanche ad un bastimento a due eliche e buon manovratore, si verifica anche, per lunghi tratti, nel Solimoes, in alcuni punti dell'Amazzone e a ponente di Marajò, perché non è raro che i canali in parola risultino larghi poche diecine di metri.

A monte di Bracamores si arriva al Pongo di Manseriche, largo appena 25 metri. Si chiamano pongos i tratti del fiume, incassati tra rupi dirupate, che si trovano verso le Ande, dove il colosso è ancora un piccolo fiume di montagna, che va a trovare la sua origine su di un picco elevato 5000 metri ed a sole 1000 miglia dal Pacifico. Ma anche in quelle alte regioni raccoglie considerevoli affluenti tra i quali si possono ricordare sulla riva sinistra: il Santiago, a monte di Manseriche, ricco di sabbia d'oro e che ha per affluente il Pauta, che potrebbe legarsi a Guayaquil con una ferrovia; il Morona navigabile per circa 300 miglia; il Pastaza da cui si è ricavato molto caucciù, ed il Tigre abbastanza ricco di gomma e di caucciù. Sulla riva destra principale tra tutti è l'Huallaga che ha affluenti importanti anche come via di comunicazione, ma siccome non posso qui fare uno studio idrografico dell'Amazzone, mi basti dire che a partire dall'Ucayali andando a valle fino a Gurupà il numero degli affluenti, innanzi ai quali passammo, è grandissimo (centinaia tra grandi e piccoli), e perciò in seguito accennerò man mano solamente ai più importanti.

L'Amazzone, dunque (che per la lunghezza è il terzo fiume del mondo, ma che per quantità d'acqua trasportata è il primo) traversa quasi tutta l'America meridionale nella sua maggior larghezza, con un percorso che si aggira tra 2800 e 3000 miglia, di cui, come il Dogali ha dimostrato, 2285, partendo però da Salinas, sono navigabili per una nave di 18 piedi anche nell'epoca in cui le acque in alto sono a mezza piena. Grazie infatti a cure assidue che forse un mercantile non potrebbe sempre usare, riuscimmo a navigare sempre in più di 6,5 metri di acqua, anzi in un punto solo trovai questo fondo, mentre credo che qualche giorno prima il vapore inglese, meno attento, strisciasse passando per quel paraggi. In generale poi si può dire che, di 18 ad anche di 20 o 21 piedi possono andare in ogni epoca fino a Manaos. In vero l'Amazzone in questo tratto quasi sempre molto fondo, ma nei canali che lo mettono in comunicazione con Parà vi sono dei punti, bassi che le grosse navi devono passare ad alta marea. Per spingersi oltre Manaos e fino ad Iquitos con le acque basse, il pescare non deve eccedere i 16 piedi e qualche volta bisogna contentarsi di strisciare, ma iniziata la piena anche con 18 piedi si può, come ho detto, rimontare fin là, ed a piena completa possono farlo anche navi maggiori. Oltre Iquitos vi è un passo secco e difficile tra la costa e l'isola dello stesso nome, ed oltre Santa Fé la navigazione delle navi di 18 piedi si può considerare arrestata. Ma nell'alto Maranon per ora almeno basta il traffico dei vaporini fluviali o delle lanchas, come laggiù li chiamano, che si possono spingere fino oltre 2800 miglia dal mare. Le imbarcazioni poi possono andare molto a monte di Huallaga.

Il corso principale del fiume non rappresenta, che una piccola parte della zona navigabile, perché essa abbraccia quasi tutti gli affluenti Tutto il sistema fluviale è compreso, come ho detto, in una valle immensa, che raccoglie ogni anno una enorme quantità di acqua, grazie alle copiose piogge intertropicali. Secondo alcune ipotesi la detta valle occupa il posto di un antico mare interno, di cui il Madera forse era uno degli sbocchi. Sparito quel mare in una serie di cataclismi, che ebbero assetto con la formazione delle Ande, sorse la valle che appare formata di terreno secondario, costituito principalmente di argilla e di drift (argilla rossastra ricca di humus). 1 secoli vi hanno accumulato uno strato di detriti vegetali che, mescolati alle terre grasse ed ai disgregamenti vegetali, formano un insieme di una fertilità meravigliosa. Essa valle è lunga 2200 miglia da levante a ponente, è larga al minimo, verso l'Atlantico, 200 miglia ed al massimo 650 da Nord a Sud, ed ha una superficie che si ritiene compresa tra 5.600.000 a 7.000.000 kmq., di cui la più gran parte (tra 3.600.000 e 5.400.000) appartiene al Brasile. Ma più che valle dovrebbe chiamarsi pianura, perché, eccettuate poche catene di colline "le serre di Parentis, delle foci del Japura, di Cupatez, di San Paolo di Olivenca), è quasi orizzontale, tanto che Iquitos si trova appena a 120 metri sul livello del mare ed il Pongo di Manseriche a 157 metri. La maestosa catena delle Ande la circonda a ponente, ma al sud (dove s'incontra il fianco dirupato della serra di Pareies, ed ai nord (dove sorgono le montagne delle Guiane) i confini, oltre ad essere poco o niente esplorati, in alcuni punti, devono essere anche mal definiti e son note, a tal proposito, le comunicazioni dell'Amazzone con l'Orenoco e quelle possibili col Paraguay. I contrafforti, meridionale e settentrionale, influiscono sul corso di molti affluenti, obbligandoli a mantenere un corso poco inclinato a quello dell'Amazzone, e si nota il fatto caratteristico che gli affluenti di sinistra sono diretti in media a SE, e quelli di dritta a NE. Tenuto conto di ciò, della vicinanza degli affluenti stessi, dei numerosi tributari di ognuno di essi, si comprende come ne risulti una fitta ed intricata rete di canali, che copre tutta la valle, e permetterebbe di accedere per acqua quasi in ogni suo punto, se rapide o cascate non interrompessero sovente la navigazione. Ma questi inconvenienti potrebbero essere corretti dall'arte, e perciò, qualora la popolazione crescesse e lo sfruttamento delle terre e della foresta si estendesse, sarebbe facile, completando le vie acque con strade e ferrovie, stabilire comode e rapide comunicazioni con tutto l'interno. Ma anche attualmente, dato il modo di sfruttare i terreni gommiferi, gran parte dei canali navigabili sono percorsi da navi ed imbarcazioni di ogni genere. Sugli affluenti principali penetrano anche navi oceaniche, su molti i vapori dell'Amazzonia, su moltissimi le lanchas, e su tutti, le imbarcazioni locali, che vanno a cercare la gomma dove le lanchas non possono più arrivare. Ma limitandosi alle navi a vapore, comprese le lanchas, in complesso la navigazione fino a tre o quattro anni fa si estendeva per ben 28.000 miglia: in questo tempo però ha avuto molto sviluppo e perciò la detta cifra ora deve essere ancora accresciuta. Causa però le grandi periodiche variazioni di livello, molti affluenti sono aperti alle navi per solo tre o quattro mesi all'anno e la cifra stessa si riferisce ai tempi delle piene.

Tutti questi canali non sono utili solamente ai mercanti di gomma, ma sono e dovrebbero essere le fonti principali di vita di molti paesi, perché li mettono in comunicazione con l'Atlantico; come avviene per esempio del Tocantins per lo stato di Goyaz: del Tapajoz per lo stato di Mato Grosso, del Maranon, del Purus e del Madera, per il Perù; del Madera stesso per la Bolivia; del Rio Negro per il Venezuela, dell'Ica e del Jurupu per la Columbia, del Napo per l’Equatore, ecc. Eppure queste vie così importanti all'attività mondiale, furono dal Brasile tenute chiuse agli stranieri fino al 1867, e solamente allora fu concessa la libera navigazione sull'Amazzone, sul Solimoes e su pochi affluenti (Madera, Tapaioz, Tocantins). Il Perù fu più largo, ed oltre il Maranon aprì tutti i suoi affluenti e nel 1904 dichiarò anche che il capitano, il padrone, il nostromo, il pilota delle lanchas con bandiera peruana non occorre che siano peruani e poco dopo spiegò meglio che le lanchas brasilere potevano fare il cabotaggio sui suoi fiumi. Ma ciò l'espone allo strano inconveniente che anche sui fiumi comuni, le navi brasilere possono commerciare sulle due sponde, mentre le sue non lo possono, e siccome molte case peruane hanno stabilimenti gommiferi sui fiumi del Brasile, sono costretti a far battere alle loro lanchas bandiera brasilera; ciò avviene anche, con evidente ingiustizia, in quegli affluenti in cui la parte superiore è del Perù e l'inferiore del Brasile. Dato poi il ristretto numero di porti che sono autorizzati a fare operazioni doganali si può ritenere che i soli porti veramente aperti agli stranieri sono Para, Santarem, Obydos, Manaos ed Iquitos.

Prima del 1867, dunque, le mercanzie provenienti dall'estero o destinate all'esportazione dovevano far capo a Belem, unico porto aperto; nel 1826 però una nave a vapore potette fare il tentativo di portare merci fino al Perù per la via dell'Amazzone, ma l'impresa fallì, e non ebbero migliori risultati i tentativi seguenti fino al 1853. In tale epoca il brasilero visconte Manuà ottenne il monopolio della navigazione amazzonica, ed una forte sovvenzione: fece buoni affari ed in seguito si unì con una società costituendo la Compagnia dell'Amazzonas che ora ha più di 100 vapori e molte linee di navigazione che partono anche da Rio Janeiro, si estendono fino a Iquitos e si diramano sugli affluenti più importanti. Ma occorsero molti anni prima che Manaos fosse in comunicazione diretta coi paesi stranieri, l'indipendenza dell'Amazonas dal Parà e l'apertura del fiume a tutte le bandiere non bastarono, e bisognò ricorrere a dazi protettori ed a sovvenzioni, perché potessero stabilirsi linee di navigazione come quella Rio Janeiro-Manaos, sorta solamente nel 1882, non ostante che, oltre la via acquea non vi fosse altro mezzo di comunicazione con la capitale, e poi quelle con l'Inghilterra (1874) col Nord America (1898), col Mediterraneo (1898, Società Ligure Brasilera, ora soppressa), col Portogallo, con la Germania e con l'Africa occidentale.

Così mentre nel 1873 entrarono a Manaos 52 navi e ne uscirono 45, queste cifre divennero rispettivamente 176 e 138 nel 1882 e 911 (di cui 91 estere) e 892 nel 1897. Dopo il 1894 la Compagnia inglese della Booth (con 4 vapori e viaggi mensili) prolungò fino ad Iquitos la sua linea, ed anche la Compagnia dell'Amazzonas (con 2 vapori e viaggi mensili) si spinge ora fino alla detta città facendo pure gli scali intermedi e viaggi nel Javary. Ma sugli altri fiumi peruani mancano ancora in generale linee regolari di navigazione, onde il piccolo commercio deve subire il monopolio delle case armatrici che sole vi mandano le loro lanchas, salvo un servizio quindicinale di lanchas governative tra Iquitos e Jarimaguas. Devesi però, a chiarimento di quanto si è detto, ricordare che il commercio amazzonico è ancora, si può dire, al suo inizio, e perciò vi è ancora posto per lutti, pure di saper volere. A tal proposito dirò, per esempio, che la Red Cross Line nel suo primo anno di esercizio (1877) trasportò appena 14 tonn. di gomma, ma ebbe costanza e fiducia (qualità che purtroppo mancarono alla Ligure-Brasilera) e l'impresa finì col riuscire bene.

Completano i mezzi di comunicazione per acqua, in primo luogo le canoe ordinarie che con un pescare di circa 50 cm. si spingono un poco da per tutto, stabiliscono le comunicazioni tra gli stabilimenti dei boschi di gomma e dei mercanti (puestos-spagnolo;.puertos-portoghesi) con i punti della foresta in lavoro e prolungano la navigazione oltre i punti in cui le lanchas si devono arrestare. Ma sono notevoli anche le montaree (piccole canoe di un sol pezzo); le grandi canoe armate fino da 30 vogatori (ce ne sono di un sol pezzo) che maneggiate colle solite pale (pagaje) rimontano anche qualche rapida, e le balze, specie di zattere grossolane su cui si costruiscono delle vere abitazioni anche a due piani, una per gli uomini, l'altra per le robe e gli animali, che navigano abbandonate alla corrente e che servono a trasportare bestie o mercanzie ed anche per viaggi lunghissimi come dall'alto Maranon fino a Manaos,

Le vie acquee anzi descritte servono per stabilire le comunicazioni con l'Atlantico, altre terrestri comode e rapide se ne potrebbero stabilire col Pacifico, e così grazie all'Amazzone sarebbe facile unire i due oceani con vie passanti a traverso i paesi ricchissimi che sono compresi nella parte più larga dell'America meridionale (5800 km.). Attualmente però arrivati ad Iquitos, per andare al Pacifico attraverso le Ande, bisogna sottomettersi a viaggi incomodi e laboriosi, come appare dai seguenti itinerari (V. l'Annuario de Iquitos, 1904, redatto dal Colonnello Manuel Bedoya e pubblicato per la prima volta mentre io ero ad Iquitos).

a) Da Iquitos a Mansaricbe sul Maranon; da Mansariche a Piura (900 km.) prima lungo il rio Santiago e poi per una mulattiera (spesso impraticabile) a traverso le Ande; da Piura a Paita (100 km.) in ferrovia.

b) Da Iquitos a Manseriche sul Maranon; da Manseriche a Bellavista; da Bellavista a Ferrenafè per una strada di montagna lunga quasi come la precedente e come essa difficile quando traversa le Ande, ma comoda nella regione transandina; da Ferrenafè ad Esten in ferrovia;

c) Da Iquitos a Yurimaguas sul Huallaga, con le lanchas che hanno partenze quindicinali, da Yurimaguas a Yonan (840 km.), buona parte a cavallo ed una piccola parte a piedi per una mulattiera che passa per Cajanca, Chachapoyas e Moyambamba; da Yonan a Pacasmayo (92 km.) in ferrovia.

d) Da Iquitos a Puerto Bermudez (1500 km.) a traverso il Maranon, l'Ucayali, il Pachitea ed il Pichis; da Puerto Bermudez all'Oroya (335 km.) per una buona strada mulattiera; dall'Oroya al Callao (22o km.) in ferrovia. Questa via, detta centrale, è quella ufficiale e sarebbe comoda se non risentisse gli inconvenienti delle stagioni in cui il fiume è basso (7 o 8 mesi all'anno). Si può anche fermarsi a Puerto Vittoria quasi alla confluenza del Pachitea col Pichis e di là andare a Puerto Bermudez.

e) Da Iquitos per il Maranon, l'Ucayali, il Pachitea, il Palcazu fino a Mayro, da Mayro a Pozuzo a piedi: da Pozuzo a Huanaco ed al Cerro de Pasco con una buona mulattiera, dal Cerro de Pasco all'Oroya ed al Callao in ferrovia. Anche in questa via si incontrano gli inconvenienti di quella precedente.

La posta peruana segue gl'itinerari anzi descritti, e poichè non c'è neanche telegrafo, è facile comprendere in che distratto modo il Governo di Lima, tanto accentratore, può provvedere ai bisogni delle sue provincie cisandine. Se però si portasse a termine la ferrovia transandina, tante volte progettata, ogni inconveniente sparirebbe, ed in poco tempo si giungerebbe a Lima. Ma anche riferendosi ai semplici interessi commerciali del dipartimento di Loreto, bisognerebbe correggere e mettere un buon assetto (coll'aprire vie ordinarie e ferrovie, e col tagliar fuori, in grazie a queste i fiumi navigabili solo periodicamente) almeno tre strade l'una al sud, altra al centro e l'altra al nord.

La prima dovrebbe permettere di sfruttare le ricchezze dei fiumi Perene, Pangoa, Tambo, alto Ucayali ed Urubamba e attirare nelle acque Peruane i prodotti del Manu e del Madre de Dios. A tal scopo dovrebbe essere completata con comunicazioni tra il Purus ed i detti fiumi a traverso i piccoli istmi che li separano. Anche le altre strade traversano paesi in cui si potrebbero stabilire ottime colonie agricole e che son ricche d gomma, di ogni prodotto della foresta, di sabbia d'oro, di carbone, di calce, di gesso, di salgemma ed altro. Ma le strade ora dette non bastano a tutte le provincie cisandine del Perù, la maggior parte delle quali è tagliata quasi fuori del mondo, non ostante le sue ricchezze. Ogni dipartimento dunque dovrebbe avere le sue strade e tutte dovrebbero essere completate almeno da una delle tante ferrovie transandine finora progettate.

Tutto ciò risulterebbe anche di una utilità immensa per la difesa del paese, perché ora il Brasile può schiacciare le poche forze peruane od affamarle insieme a tutto il paese chiudendo la navigazione dell'Amazzone, senza che il governo di Lima possa soccorrerle in tempo. La ferrovia e le buone strade darebbero invece al Perù, in una complicazione con il Brasile, i vantaggi del facile rifornimento e delle forze preponderanti al principio, della guerra; gli fornirebbero in una lotta contro qualsiasi altro, avversario, le grandi risorse e facilitazioni provenienti dallo sbocco su due oceani, ed in tesi generale gli permetterebbero di rendere veramente effettiva la sua sovranità sulle ricche terre cisandine.

Si può ritenere che la grandezza e la fortuna del Perù dipendano in gran parte dalle dette provincie orientali finora poco curate, e niente difese, in modo che i vicini se le sono appropriate in gran parte: ogni sacrificio dovunque inteso a legare la costa con esse sarebbe di irrestimabile utilità. Nell'attesa però che queste opere reclamate da tutti gli uomini illuminati del paese si facciano, sarebbe almeno necessario che le attuali disgraziate strade fossero un poco curate, che squadre di operai vi attendessero con continuità, che fossero stabiliti posti di rifornimento e canoe nei luoghi opportuni e che si trovasse il mezzo di avere aiuti - invece di attacchi - dagli indi.

Con la ferrovia si potrebbe arrivare al Pacifico passando anche per Guajaquil, partendo dal Napo, e rimettendo così in onore la via percorsa prima da Pizzarro nel 1539 e poi da Teixera (in senso opposto Parà-Guajaquil) nel 1636, durante una delle più memorabili esplorazioni della valle Amazzonica.

Finalmente è notevole che anche il mar Caraibico si può dire legato al Plata per mezzo dell'Amazzone e dei suoi affluenti, ed invero il Cassiquiare unisce l'Orenoco al Rio Negro, e le sorgenti del Guaporè, affluente del Madera sono a poche centinaia di metri dall'Aguapehy e dall'Estiva che si versano nell'Jaurù affluente del Paraguay.

***

Per completare quanto ho detto finora sulla navigazione Amazzonica è necessario che aggiunga ' informazioni sui fondi, sulle correnti, sulle variazioni di livello del fiume, sui pericoli della navigazione, sugli inconvenienti che in cui si può incorrere.

Vi sono punti in cui si sono trovate profondità di 250 ed anche 500 metri, ma i lunghi canali di gran profondità come quello presso Obydos, sono rari e non superano i 75 metri, più comuni sono quelli di 20 ed anche di 30 metri e molto spesso se ne trovano di oltre 12 metri. Naturalmente sono i bassi fondi che limitano la navigazione, ma quando le acque sono quasi basse a Manaos e ad Iquitos e devono salire ancora 5 metri, nel Solimoes e nel Maranon fino ad Iquitos si possono trovare sempre fondi superiori a 7 metri, sapendo però scegliere i canali. Nel basso Amazzone e nelle stesse epoche si trova di più ma come dissi, nei canali d'accesso del Parà vi sono punti (imboccatura di Bojassù) in cui si hanno 5 metri a marea bassa. Ed a questo proposito non devesi dimenticare che i livelli dell'Amazzone verso le bocche e di tutto il Parà dipendono principalmente dalle maree, e poca influenza vi hanno le piene. La direzione della corrente nelle ultime località ora citate ha le alterazioni del flusso e del riflusso, e reciprocamente la direzione delle correnti di maree lungo la costa subisce le influenze del fiume. E queste influenze sono assai variabili, specialmente innanzi le bocche dell'Amazzone: presso quelle del Parà poi si può dire che il flusso, vicino alla costa, tende a SW e ad W, ed il riflusso verso ENE, ma piega al nord scostandosi da terra.

Presso i fiumi delle Guiane, come dissi, l'influenza della correnti di marea si sente fino ad una ventina di miglia da terra presso l'Amazzone non ho potuto ben precisare un limite, ma forse è superiore alle 20 miglia. E’ certo però che la corrente generale dell'Oceano, diretta in quei paraggi a NW, essendo tagliata ad angolo retto da quella dell'Amazzone, ne subisce l'influenza aumentando di velocità durante il riflusso e piegando verso nord. Ma questo effetto è abbastanza limitato in estensione, e pretto la corrente generale riprende la sua direzione NW.

Le variazioni di livello per la marea sono comprese tra io e 12 piedi verso le foci del Parà, ma verso quelle dell'Amazzone sono assai irregolari e non è raro notare differenze anche di 5 metri in punti distanti fra loro una diecina di miglia. Analogamente verso le prime la velocità della corrente non supera 3 miglia, ma verso le seconde è maggiore, e presso il Capo North pare che raggiunga anche io miglia, in certi casi.

Nella stagione delle piene il riflusso nel Parà dura 8 ore ed il flusso 4, ed è notevole che nella detta stagione la velocità del primo è maggiore di quella del secondo, contrariamente a quanto si potrebbe prevedere. L'alternazione poi nella direzione della corrente si estende verso il limite occidentale di Marajo o verso Itaquara e comprende i canali di comunicazione tra il Parà e l'Amazzone. Più a monte le acque di quest'ultimo si gonfiano e si abbassano successivamente durante le ore delle maree, senza influenza sensibile sulla velocità e direzione della loro corrente, salvo all'imboccatura del Tapajoz dove si manifesta di nuovo l'alternarsi del flusso, mentre le acque del fiume principale scendono sempre. Si valuta che la velocità media della corrente sull'Amazzone sia di 3 miglia all'ora, ma questo numero non ha, e non può avere alcun valore assoluto. Naturalmente la detta velocità aumenta nei passi stretti e tortuosi, diminuisce dove il fiume si allarga e, come avviene su tutti i fiumi, non è uniforme in tutti i punti di una retta tracciata normalmente al loro asse. E ciò si verifica non solo nei gomiti, ma anche nei tratti rettilinei e, importa tenerlo presente, in vicinanza dei banchi ed al ridosso di essi generalmente diminuisce. Naturalmente accanto alla costa avviene lo stesso, ed alle volte non solamente si annulla, ma cambia direzione con grande vantaggio delle imbarcazioni che risalgono il fiume.

Quando cominciano le piene e fino a che le acque prendono il loro assetto, la corrente cresce moltissimo, e noi avemmo pur troppo da sperimentare correnti di quattro, cinque ed anche sei miglia.

Le acque dell'Amazzone e dei suoi affluenti durante circa una metà dell'anno si alzano fino a raggiungere un livello massimo, o di piena, e durante l'altra metà discendono fino ad un livello minimo o di secca. Questo fenomeno dipende da quello delle piogge e siccome i mesi corrispondenti a queste sono diversi nelle regioni situate al nord dell'Amazzone o verso le Guiane, da quelle delle regioni situate al sud compreso l'Amazzone stesso, così avviene che questo ed i suoi affluenti di dritta sono in piena mentre quelli di sinistra sono in secca, e viceversa, onde il periodo di piena di questi ultimi quasi coincide con quello dei fiumi delle Guiane. E’ fatta eccezione però per la parte inferiore del Rio Negro, perché l'Amazzone vince facilmente la sua debole corrente, e la piena a Manaos coincide con quella del Solimoes. Anche lungo l'Amazzone la stagione delle piogge non si verifica contemporaneamente in tutti i punti, essa anticipa a misura che si procede in alto, e così avviene che la piena si inizia in ottobre ad Iquitos, in dicembre a Manaos, in febbraio quasi nel basso Amazzone. Nel Maranon quindi la piena è raggiunta in aprile, mentre in basso ritarda di qualche mese, ed è verso il luglio che a Belem si hanno le massime acque. Nel periodo però che corrisponde alla nostra estate, il fiume principale si può ritenere tutto basso. Similmente le variazioni di livello non sono le stesse da per tutto, anzi variano sensibilmente da un punto all'altro, aumentando mentre si procede a monte, sono quindi poco sensibili nelle località sottomesse alle correnti di marea, ma sono già di 6 metri almeno verso Santarem, raggiungono 10 metri a Manaos e 16 o più metri ad Iquitos. Importa però tener presente che il fiume non cresce nè decresce con continuità, ma con una specie di oscillazioni irregolari. Così, per esempio, durante il tempo in cui il fiume deve crescere, ad un certo momento resta stazionario, poi, comincia ad abbassarsi lentamente, ma prima di raggiungere il livello della sosta precedente si ferma, e poi torna a crescere fino a sorpassare il livello da cui cominciò la diminuzione. Dopo un poco l'oscillazione si ripete con leggi analoghe e così di seguito fino alla massima piena. Questi fenomeni si chiamano repiquetes, e nel periodo della secca si ripetono inversamente: non si riesce a prevedere con molto anticipo il loro principio e non si può prevedere la loro durata. Alle volte passano 15 giorni tra la fine di uno e il principio di un altro, altre volte un mese o più, è possono durare una settimana, come due ed anche più. In generale si arrestano quando ricominciano le piogge a monte della località sottomessa alla loro influenza, così la pioggia a Iquitos non significa la fine del repiquete del Maranon, ma occorre perché ciò avvenga che l'acqua cada abbondante nell'alto fiume o nella montagna. Quando però durante una repiquete si vedono passare molto più alberi in deriva del solito, si può ritenere che presto il repiquete cesserà, e che in alto il fiume già cresce. Similmente non si possono precisare a priori l'estensione del fiume che i repiquetes abbracciano, e l'ampiezza della loro oscillazione: alle volte determinano variazioni di livello di poco conto, altre di parecchi metri, e pur troppo a noi toccò di sperimentarne uno dei più lunghi e dei più forti. Cominciò mentre stavamo per uscire dal Solimoes, nel viaggio di ascesa, durò una ventina di giorni e le acque si abbassarono di oltre 5 metri, obbligandoci a gravose fatiche per ritrovare i canali buoni durante la nostra discesa.

Da quanto precede risulta che la navigazione dell'Amazzone è delicata e difficile, perché si deve sempre manovrare con forti correnti ed in passi stretti e tortuosi; le località sono poco note ed i fondi variabili e mancano carte, segnali, regolamenti di navigazione, compagnie di piloti legalmente costituite e reggimentate dal Governo. Ma, facendo astrazione da molte cose di minore importanza, i piccoli principali si possono così riassumere: i bassi fondi o le praies; i pavos, i torrones, e si potrebbero aggiungere i piloti di cui parlai già.

a) Le praies. Siccome manca una idrografia, nè si potrebbe farne una completa, attesochè i fondi ed i canali, sottomessi al capriccio della corrente, sono in continua variazione, per facilitare la navigazione sarebbero necessari i provvedimenti governativi precedentemente indicati. Ma nella loro attesa importa, come ora fanno i piloti, studiare il fiume e riconoscere i canali durante la secca, perché allora i bassi fondi emergono quasi tutti. La variazione dei detti canali è così sensibile che in molte località bisogna anno per anno cambiare le rotte, e non è neanche raro il caso di veder modificati i passi in pochi giorni. Il lavoro fatto dalla corrente è enorme, ed appare anche fuori d'acqua (vecchie isole spariscono e nuove se ne formano, paesi una volta sul fiume ora ne sono parecchio discosti ecc.), si comprende quindi con quanta facilità si debbano spostare le praies (secchi), e pur troppo le variazioni che avvengono durante la piena spesso, per mancanza di precauzioni, sono segnalate dagli incagli delle navi.

In generale si nota che presso le punte ed i gomiti si formano delle praies, che per un certo tratto si prolungano a valle di essi lungo la riva, e si estendono lateralmente avvicinandosi spesso alla riva opposta. L'acqua perciò cacciata dalla parte di questa, scava lungo di essa un canale fino a che giunta ad un'altra punta o gomito, invece di seguitare a scavare accumula un'altra Praia e la fa estendere verso l'altra riva. Allora è lungo questa che si dirige il canale navigabile. traversando il fiume tra le estremità anteriori e posteriori delle due praies descritte. Alcune volte il detto passo è così stretto ed ha sponde cosi inclinate che facendo attenzione alla differenza degli scandagli eseguiti dai due lati della nave ed accostandosi dalla parte dove sono maggiori, si riesce a seguirne l'asse. La cosa pare strana, ma la lunga esperienza da me fatta in parecchie centinaia di canali, e l'affermazione dei piloti me ne hanno convinto. Naturalmente però le Praies non conservano sempre la forma classica, direi, ora accennata, ed il loro andamento è soggetto ad un'infinità di cause locali.

Nel basso Amazzone i canali sono molto estesi, il fiume è spesso navigabile da una riva fino oltre il mezzo, ed i piloti ne profittano nel viaggio di ascesa per stare presso una riva, ossia dove la corrente è minore, e nella discesa per cacciarsi nel mezzo, ossia dove è maggiore. Ma nel Solimoes e nel Maranon, che sono più stretti ed hanno corrente più forte, le praies aumentano, sono separate da stretti passi, ed a brevi intervalli il canale navigabile passa da una riva all'altra. Da tutto ciò risulta che le navi sono costrette a traversare il fiume tutte le volte che arrivano innanzi ad una Praia, od a far, come laggiù si dice, traversia, ed a seguire poi scrupolosamente il contorno delle coste lungo le quali corre l'angusto canale. Così nel Solimoce e nel Maranon spesso non mi riusciva di poter far via col timone neanche per qualche minuto, e mi è capitato di fare 4 0 5 traversie in un'ora.

Data però la strettezza dei canali di traversata, la uniformità del paesaggio e la enorme estensione lungo la quale un uomo solo fa da pilota, si comprende quanto sia difficile il mestiere di questi ed a quanti pericoli'si vada incontro per la più svista.

La grande pratica però insegna dei piccoli indizi, grazie ai quali si può in qualche modo prevedere o intuire dove comincia una praia, ma grande sussidio è sempre lo scandaglio. I piloti però ne fanno una quistione di decoro a servirsene il meno possibile, e perciò è indispensabile la presenza continuata del comandante sul ponte, per imporre l'uso continuo dello scandaglio stesso e quelle misure che solo possono far prevenire i pericoli, e che spesso, per essere tralasciate dai piloti, conducono a gravi inconvenienti. E fortunatamente il comandante stesso, con un poco di osservazione, può in breve rendersi conto delle speciali condizioni di quella speciale navigazione e ha il modo di farlo in gran parte, nel primo tratto del fiume (Parà-Manaos) dove, se si toglie il pezzo del Rio Parà a monte di Belem, che presenta molti pericoli, le cose sono più semplici ed i piloti migliori.

A questo punto è bene notare che, pure essendo il fondo di fango o di sabbia, gli incagli possono riuscire gravissimi, specialmente nella discesa, perché allora le navi corrono rispetto alla terra, a grande velocità, ed in generale poi la forte corrente rende difficili le operazioni di disincaglio, e tende ad interrare la nave coi detriti che trasporta. Inoltre un incaglio, anche poco pericoloso, diviene un disastro finanziario rilevantissimo se si è costretti a chiedere soccorso, perchè laggiù la caccia al denaro è un'ossessione, ed in quei paesi più che altrove si specula sopra ogni cosa con tanto più accanimento per quanto è più urgente il bisogno del richiedente. D'altra parte qualsiasi lavoro, causa la mancanza dì braccia, costa cosi caro che si mandano a comperare in Europa delle cose che si potrebbero raccogliere ad un'ora di cammino, e mi fu assicurato che anche alla onnipotente compagnia Booth furono chieste 6000 sterline per portare aiuto ad un suo vapore incagliato ad una giornata da Manaos. E’ facile da ciò prevedere che cosa richiederebbero ad una nave da guerra, e perciò sapevo che non potevo fare assegnamento su nessuno, e che non doveva incagliare; quindi mi imposi le maggiori precauzioni e, grazie alle cure di tutti ed al costante proposito di servirmi dei piloti come di una modesta carta idrografica, ma di non utilizzare mai lo loro testa per ragionare, ebbi la fortuna di riuscire.

Ma per spiegare meglio le cose e far meglio risultare le anomalie del fiume e le speciali condizioni della sua navigazione, aggiungerò ancora qualche dettaglio, cominciando col ricordare che i pericoli naturalmente crescono come dissi nella discesa, anche perché la manovra è più difficile con la corrente in poppa, e per le disposizioni sopra ricordate delle praies, spesso manca lo spazio per girare la nave, od anche per tentare di lasciarla abbattere sull'ancora, onde è bene tenere a poppa un grosso ancorotto pronto ad essere affondato al primo cenno.

Le mie condizioni, dato il pescare della nave, erano rese più difficili delle ordinarie a causa dei repiquetes, che incontrai nell'alto Solimoes, e perciò decisi di navigare nella discesa dall'alba al tramonto, mentre nella salita aveva sempre navigato la maggior parte della notte. Non bisognava tal proposito prestar fede ai piloti che nei momenti buoni dicono di poter navigare in tutte le condizioni di tempo, perché poi si contraddicono nei momenti critici. Infatti la loro scienza consiste nella memoria e negli occhi, ora se la nebbia o l'oscurità della notte non permettono al comandante di vedere, è naturale che anch'essi non vedano, e che occorre fermarsi.

Una notte sul Solimoes mi avvertii che si avvicinava un grosso piovasco, e dissi al pilota che era bene dar fondo. Mi assicurò che non occorreva, che il canale era diritto e che perciò anche con la nebbia si poteva seguitare. Ciò sarebbe stato vero, ammessala prima condizione, perché spesso si naviga cosi vicini alla terra (50 o 49 metri) che gli alberi si scorgono anche con una certa foschia, e siccome ero ben padrone della nave, perché andavamo contro corrente, seguitai a camminare. Ma appena la nebbia ci avvolse, quel bravo uomo mi disse tutto spaventato che bisognava traversare il fiume e che occorreva tentarlo a forza di scandagli. Le vecchie leggi del mare permettevano di punire anche con la morte il pilota che errava, ma i tempi sono mutati e con santa pazienza mi accostai un poco di più a terra e con lo scandaglio cercai un posto adatto ed ancorai.

Un'altra volta, in discesa, mi fu giocoforza proseguire di notte, non ostante il tempo orribile, perché eravamo nel canale di Bojassù che non si arriva a traversare in un giorno e non ha posti per ancorare. Stabilii però di dar fondo appena fuori il canale; ma il pilota mi scongiurò di seguitare, perché ciò gli faceva onore. La posizione, giusta quanto avevo appreso salendo, per un poco di tempo era sicura, e perciò finsi di accontentarlo, sicuro che presto egli stesso avrebbe chiesto di ancorare, e invero appena un nuovo piovasco ci avvolse, pregò con eguale calore di dar subito fondo per aspettare l'alba.

Quando il fiume è secco, è necessario anche - s'intende per una nave grossa - di mandare una imbarcazione a verificare i punti più pericolosi - ben noti ai piloti - del Solimoes e del Maranon ed a tal uopo tutti i vapori inglesi sono provvisti di un'ottima barca a vapore. Noi, causa lo straordinario repiquete, dovemmo anche nella discesa assicurarci che la direzione dei canali più esposti alla corrente non si fosse modificata nei giorni trascorsi dal nostro precedente passaggio, e perciò in quasi tutto il Maranon, dovetti spesso mandare innanzi la barca a vapore per scandagliare.

Ma i piloti, pure indicandomi i posti dubbi, pur dicendomi che presso di essi non c'era posto per girare la nave, avrebbero voluto che seguissi a pochi metri la barca. Non riuscivano a capire che in questo modo, se ci fosse stato segnalato un pericolo, non avremmo potuto evitarlo, e se li avessi ascoltati sarei rimasto in secco nel canale di Loreto, come ora racconterò. Naturalmente li lasciai dire e feci a modo mio, ma non furono mai capaci di dirmi quanto tempo prima doveva mandare la barca, perché mentre io diminuivo la mia velocità, essa potesse andare e tornare. Lo dissi già, a quella gente manca il concetto dello spazio, e mi dicevano con la più grande indifferenza che occorreva mezz'ora quando ce ne volevano 6, ma fortunatamente eravamo nella discesa, e quindi avevo i miei schizzi che mi furono assai utili e mi permisero di regolarmi bene.

Nei primi giorni della discesa stessa trovai solamente piccole variazioni rispetto alla condizione in cui era il fondo del fiume durante l'ascesa, e fui costretto quindi di fare variazione di rotta di poca importanza, salvo in alcuni punti dove avevo a priori stabilito di rinunziare alle rotte più brevi, pure di trovare più acque, ma le cose, si complicarono presso il canale di Loreto. Giunto in prossimità di esso non trovai la barca che avevo mandato da parecchie ore innanzi per scandagliarlo e fui costretto ad ancorare per aspettarla. Tornò solamente a notte fatta, con la notizia che il canale, che pure avevamo traversato salendo, era mutato in modo che non potevamo più passarci. Se avessi, come volevano i piloti, seguito la barca sarei rimasto i secco e questa volta anche loro ne convennero. Il giorno dopo dovetti cercare un altro canale e lo trovai.

Ma scendendo, ed essendo decisi a fermarsi la notte, conviene dar fondo prima che sia scuro, anche perché i piloti sanno presso a poco dove si può girare per presentarsi alla forte corrente, ma naturalmente non sanno a mente la lunghezza di tutti i canali ed occorre, benché non vogliano confessarlo, che ci vedano bene per colpire i piccoli indizi che valgono a fare apprezzare tali larghezze.

b) I pavos. - L'opera demolitrice della corrente strappa dalle rive molti alberi (diverse volte li ho visti cadere io stesso) e mentre trascina galleggianti i più leggeri, ed a mezz'acqua i più pesanti, deposita sul fondo i pesantissimi. Avviene così, specialmente nel tempo in cui l'acqua sale, che il fiume è tutto ingombro di tronchi, sovente grandissimi e che spesso non si riesce ad evitate o per il loro numero o perché in quel momento non è possibile variare la rotta, o perché non si scorgono sotto il pelo dell'acqua o perché infine hanno a galla solamente una piccola punta che li fa parere insignificanti anche agli occhi esercitati dei piloti. Gli scafi quindi si trovano esposti ad urti continui, noiosi e dannosi; quelli piccoli e leggeri possono rimanere sfondati, i grandi in generale resistono ma ne riportano qualche ammaccatura. Spesso poi, salendo, si fermano sulla prora e bisogna levarli presto per non perdere cammino e per non raccoglierne degli altri. Bisogna avere quindi aste e rampini pronti, ma qualche volta si è anche costretti a fermare e ad andare indietro.

Maggior pericolo poi corrono le eliche di tutte le navi grosse e piccine; esse infatti non incontrano il legno abbastanza dolce dei tronchi galleggianti, ma quello duro dei semi-galleggianti, onde tutti i vapori che risalgono il Solimoes hanno le eliche curvate. Anzi vi furono dei grossi vapori inglesi che le ebbero ridotte in così cattivo stato che giunti a Manaos dovettero cambiarle, sbarcando il carico ed immergendo la prora, con un lavoro di cui è facile comprendere le difficoltà.

Ma i pali più pericolosi sono quelli che la corrente fissa sul fondo, perché alcune volte avviene che, in gruppi, restano presi solamente per una estremità, mentre quella libera si erge minacciosa in alto, da profondità anche di 15 metri, costituendo delle vere ostruzioni subacquee, pericolose come gli scogli, e che bisogna rasentare a pochi metri, in canali stretti, tortuosi e traversati da forti correnti.

Durante l'estate le punte di questi pavos generalmente emergono dall'acqua ed i piloti ne osservano con cura la posizione. Fortunatamente nel Solimoes si incontrano numerosi in un sol punto di passaggio, intorno cioè all'isola Tintatuba, ma in quel punto riescono molto pericolosi perché bisogna contornarli mentre si gira in uno stretto e difficile canale.

Nell'ascesa feci quel passo di notte, perché i piloti mi avvertirono solamente quando era troppo tardi per tornare indietro, ma la più elementare prudenza consiglia, come feci al ritorno, di passarci di giorno, dopo di aver mandato un pilota con una lancia a rilevare bene la posizione dei pavos.

I pavos della natura ora descritta sono più numerosi sugli affluenti, e siccome lassù non si possono rilevare l'estate, le lanchas ne soffrono tanto, che molti degli affluenti stessi sono diventati dei veri cimiteri di quelle piccole navi e di moltissimi disgraziati. Ma non bisogna attribuire ai pavos tutte le disgrazie, perché molte volte esse sono la conseguenza della poca cura nella navigazione e dell'ingordigia di guadagno degli armatori, perché caricano le lanchas, con eccessivi pesi elevati e con moltissima gente, le fanno navigare senza precauzioni e con cattivi piloti e le obbligano ad andare anche di notte in luoghi poco conosciuti, per cercare di farle arrivare prime sui mercati.

Sugli affluenti sono da evitare anche gli scogli, mentre sul corso navigabile dell'Amazzone non ve ne sono che in due punti: Manacapurè e Ipixuma, ed i piloti li mostrano come una vera curiosità. Anzi mi dicevano che uno dei più graditi regali che si possa fare ad una buona massaia indigena è una pietra per uso della sua cucina, tanto sono rare nella valle Amazzonica.

Anche i pali che restano completamente coricati sul fondo danno noia, perché alle volte si impigliano nell'ancora e rendono difficile, per il loro peso e per la buona presa che han fatta, di salpare. Una mattina perdetti più di un'ora per tirare su l'ancora, e quando finalmente venne a riva, portò con sé un grosso albero di un bel legno rosso e tanto duro che l'ascia non l'intaccava.

Ma spesso, se si resta un certo tempo alla fonda, l'ancora stenta anche a venire, perché la corrente interra essa e la catena e bisogna aiutarsi con la macchina per poter salpare.

c) I torrones. - I torrones sono conglomerati di fango e sabbia di forma cilindrica, con un diametro di pochi metri, sorgenti repentinamente dal fondo come colonne. Sono pericolosi per le lanchas, ma non riescono ad arrestare una nave, e solamente la espongono ad urti ed ammaccature. Anche 'essi possono essere rilevati nell'estate e nel Solimoes si trovano special. mente presso la costa di Jonato e di San Juan di Camucheco.

***

Concludendo, la navigazione dell'Amazzone fino ad Iquitos è difficile e sparsa di pericoli, ma si riesce ad evitare ed a superare le difficoltà con le molte cure, con le precauzioni e con la buona volontà.

Una relazione quindi completa, nel senso marinaresco, di una traversata riuscirebbe una guida preziosa ed eviterebbe molte fatiche a chi viene qui la prima volta, tanto più che la gente del paese sa poco ed i piloti non amano e non sanno dir molto. Ho cercato perciò di scrivere tutto quello che ho veduto e di fare uno schizzo del fiume con le relative rotte; non è il caso però di riportare qui tutta la relazione marinaresca, e poi per fare un lavoro completo non una, ma le dozzine di volte bisognerebbe fare il fiume. Se però i Governi brasileno e peruviano volessero, potrebbero rendere facile questa via tanto utile al loro commercio, nel modo che già dissi; intanto ogni nave che viene nell'Amazzone dovrebbe:

·         avere una buona, grossa e veloce barca a vapore;

·         avere uno scandaglio Thompson con motore elettrico capace di funzionare continuamente e con la nave in moto, e della gente assai pratica nell'uso degli scandagli a mano;

·         avere una sistemazione solida e sicura a poppa per affondare al primo cenno un grosso ancorotto;

·         variare la posizione dei pesi mobili per regolare l'assetto della nave in modo da avere quasi eguale pescare a prora ed a poppa;

·         procurarsi uno schizzo del fiume fatto di recente da qualche altra nave e la relativa relazione;

·         far contrattare i piloti prima di arrivare a Parà

·         scegliere bene i detti piloti, non badando al prezzo e prenderne almeno due;

·         ricordarsi che vi sono moltissimi piloti, ma pochi sono buoni e la maggior parte sono abituati solamente a navigare con le lanchas;

·         non prendere un pilota che non navighi da oltre 4 mesi e ricordarsi che ogni pilota ha allievi che cerca di far passare per pratici provetti;

·         evitare con cura i giovani pilota ora detti;

·         servirsi dei piloti come di una carta su cui si ha una relativa fiducia, ma mai della loro testa per ragionare;

·         ricordarsi che in generale i piloti non hanno idea di spazio e di velocità: essi sanno solamente quanto tempo impiegano con il bastimento a cui sono abituati per andare da un punto all'altro e riescono solo approssimativamente a riferire tale velocità a un altro bastimento;

·         osservare attentamente il fiume nel primo tratto Parà-Manaos, che è il più facile, per imparare il modo di prevedere approssimativamente la posizione dei secchi;

·         scandagliare sempre nel cammino ordinario e rapidamente nel traversare il fiume, cercando dì tenersi dalla parte degli scandagli maggiori;

·         prima di ogni traversata del fiume chiedere ai piloti le posizioni delle praies per essere pronti a manovrare in caso di pericolo;

·         ancorare quando i propri occhi non vedono, senza ascoltar i piloti che al solito dicono di vedere anche all'oscuro; 

·         non navigare nelle notti scure, specialmente nelle stagioni delle forti piogge;

·         nella discesa del Maranon e del Solimoes restare all'ancora durante la notte e dar fondo un poco, prima del tramonto per

·         scegliere il posto di ancoraggio in sito di poca corrente e sufficientemente ampio. Il fondo è in generale buon tenitore;

·         possibilmente ancorare verso il mezzo del fiume per garantirsi un poco dalle zanzare;

·         nell'ascesa, nelle notti chiare, navigare, eccetto nel Maranon;

·         non passare mai di notte l'isola di Timbotuba, dove sono i pavos e far rilevare questi da una imbarcazione prima d'e nel passo dell'isola stessa;

·         regolare il rifornimento e la quantità di carbone da imbarcare ritenendo come esatte le distanze date per esempio dal mio schizzo, supponendo che la corrente di è 3 miglia fino a Manaos e di 4 da Manaos ad Iquitos, che è possibile far legna da per tutto e specialmente ad Uarà, e che l'acqua del fiume è buona per l'alimento delle caldaie;

·         ricordarsi che la legna porta a bordo insetti fastidiosi e nocivi.

***

Ed ora ritornando al racconto del viaggio, dirò che usciti dai canali ed entrati nell'Amazzone ne seguimmo il braccio che corre al sud ed a ponente di Gurupà e passammo cosi innanzi al piccolo paese di Gurupà che è fornito di un molo e che esporta gomma, bestiame e castagne. Dopo traversammo un piccolo arcipelago che sbarra la bocca del Rio Xingù, affluente della riva dritta, assai ricco ed importante e navigabile per buon tratto.

Dopo ciò uscimmo dalla regione delle isole propriamente detta, (di isole però il fiume ne ha sempre a dovizia), e raggiungemmo un altro paese di una certa importanza, Almeirim, posto alla foce di Parù (riva sinistra) e che oltre la gomma e le castagne, esporta anche cacao. Ivi vedemmo per la prima volta la terra sollevarsi in piccole colline che rompevano, rallegrandola, l'uniformità del paesaggio. Era la serra di Almeirini a cui si attaccano lungo la riva sinistra le altre di Parù, Vellia Pobre, Paranaquara, Tanajury, Everé e Paytuma che arrivano Ano al paesello di Monte Alegre. Questa parte perciò del fiume è forse la più bella del basso Amazzone e in essa trovammo prima il paesello di Prainha, che esporta principalmente cacao, manioca, bestiame, tartarughe e pirarucu e poi la cittadina di Monte Alegre. Questa è situata verso la foce del Rio Maycurù e merita bene il suo nome perché, edificata sul versante di una graziosa collina (alta circa 3oo m.), ha clima assai salubre e belle terre in giro. Oltre le solite derrate in quantità rilevanti, esporta anche cacao e cereali, e potrebbe forse diventare di maggiore importanza, perchè si crede abbia intorno una zona carbonifera suscettibile di essere sfruttata.

Dopo cominciammo a traversare un'altra parte anch'essa assai caratteristica del fiume, che si chiama la regione dei laghi. E’ una estesa zona che penetra anche nello stato dell'Amazzonas, il cui suolo è sparso di moltissimi laghi, i quali mediante una rete fitta ed intricatissima di canali, comunicano fra loro, col fiume principale e con i suoi affluenti. E’ difficile assai stabilire il loro numero ed i loro contorni, perché l'uno e gli altri variano continuamente al cambiar del livello delle acque, onde, nella stagione delle piene, alcuni si confondono fra di loro ed altri spariscono assorbiti dal fiume stesso che si allarga invadendo la campagna.

Proseguendo a monte in mezzo a questi laghi, sovente bellissimi e sempre popolati di uccelli, presto vedemmo anche sulla riva dritta delle piccole elevazioni di terreno e propriamente la serra del Curuà che, partendo dal fiume omonimo, gira parallelamente alla costa e poi volge al sud lungo il Tapajoz.

All'imboccatura di quest'ultima, su una delle dette elevazioni, è costruita la cittadina di Santarem che ha innanzi un'argentea spiaggia di sabbia e l'apparenza di un grazioso paese balneare: fu fondata nel XVII secolo e conserva ancora i ruderi di un piccolo forte di quel tempo. Le sue case, allineate su strade diritte e disposte parallelamente e perpendicolarmente alle rive, sono piccole e la maggior parte nuove, qualcheduna ha due piani e tutte, in generale, sono addette all'uso promiscuo di abitazione e di negozio. Si notano poi una chiesa abbastanza grande, una casa municipale con il lusso di qualche colonna, un mercato sufficiente. mente spazioso, dove si trovano viveri freschi, un buon molo in ferro e legno al quale possono accostare le navi ed un ufficio doganale creato da poco, grazie allo sviluppo acquistato dalla città. Infatti essa è situata in una fortunata posizione, perché il Tapajoz oltre a traversare un paese ricco di gomma e cacao, è via di sbocco dello Stato di Mato Grosso.

Il terreno intorno alla città è sufficientemente coltivato: se ne traggono tabacco, legumi, farinacei e cereali, e vi si alleva il bestiame; ma i prodotti principali che si esportano, e cioè cacao, gomma, pirarucu e ceramiche locali, vengono. principalmente dall'interno, e molti più affari si farebbero se si portassero a termine te progettate strade e ferrovie col Mato Grosso. Per ora vi sono 4000 abitanti in città e 16.000 circa in tutto il municipio: il movimento commerciale è di circa 6000 contos all'anno, vi sono il telegrafo e diverse fermate di vapori, e si sta preparando una stazione radiotelegrafica.

Oltre l'importanza del paese, mi era noto che vi si trovano parecchi italiani, quindi pensai di fermarmi e ci passai alcune ore del giorno 21 dicembre. Poco dopo dato fondo, venne infatti a bordo la colonia quasi al completo. I connazionali mi fecero lieta accoglienza, e si mostrarono entusiasti di rivedere la bandiera della patria. Erano quasi tutti di Basilicata, anzi di San Costantino Albanese e paesi vicini (circondario di Lagonegro), e forniscono un esempio di quel fenomeno per cui, spinti dall'esempio, dalle promesse e dagli incoraggiamenti dei loro compagni, le persone di uno stesso comune, che si decidono ad emigrare, vanno dove il caso spinse il primo dei loro.

Ciò lo avevo già appreso in Italia, osservando dove si dirigono gli emigranti della mia provincia, e pur troppo avevo anche appreso che nessun concetto prestabilito guida quei poveretti, e che generalmente la maggior parte di essi sono privi di ogni istruzione, ignorano tutto circa il paese verso cui si dirigono fino al punto che spesso aveva dovuto penare per scoprire se erano stati nel Brasile, oppure nelle Repubbliche del Plata. Vanno perché il bisogno li spinge ed a loro basta di sapere che in un certo posto un compaesano guadagna qualche cosa, per seguirlo, senza preoccuparsi del fatto di non trovarlo più sul posto al loro arrivo e quindi di rimanere senza aiuto alcuno e senza guida in una terra sconosciuta. A Santarem però le cose, per fortuna, vanno bene: parecchi anni fa, quando l'Amazzone era ancora poco frequentata, pare che vi arrivasse, chi sa come, un certo Vallinotti a cui la fortuna sorrise tanto che ora vive comodamente a Monte Alegre con una fortuna, dicono, di un milione.

Il primo a seguirlo fu un operaio calderaio, certo Mileo, che si stabilì a Santarem e gli affari essendo riusciti anche per lui, presto abbandonò l'arte sua e si diede al commercio. Allora arrivarono degli altri, quasi tutti parenti ed amici del Mileo, cosicché a Santarem e nel suo municipio vi sono ora sei case commerciali possedute da circa 20 italiani tra cui predominano i Mileo, i Calderaro, i Peluso, ecc. e che con un capitale di circa 600.000 lire fanno commercio di mercanzie generali, ossia hanno delle specie di bazar in cui si trova un poco di tutto: conserve, vini, liquori, scarpe, tessuti, armi, bastoni, ombrelli, cappelli, chincaglierie, ninnoli, giocattoli, ecc. E’ doloroso però notare che tutto ciò non proviene dall'Italia, e che quei negozianti non sanno bene che cosa l'Italia produce, e conservano la vecchia credenza che le buone robe bisogna farle venire di Francia. Ma è fuori dubbio che questi errori si sanerebbero se le nostre navi mercantili andassero sull'Amazzone ed i nostri industriali si occupassero di studiarne le piazze. I fratelli Peluso, che fra tutti erano i più colti, fanno venire cappelli da Firenze e coralli da Napoli, ma non sanno spingersi di più, né volendolo ora potrebbero farlo, perché le comunicazioni con l'Italia, specialmente pel trasbordo a Lisbona, sono lunghe, difficili ed enormemente costose.

Tra i detti italiani vi sono due soli operai, e non vi è nessun contadino, ma un commerciante si proponeva di farne venire qualcuno a sue spese, ed a titolo di prova, e se tale prova fosse riuscita sarebbe un gran bene per la nostra emigrazione, come avrò occasione di spiegare meglio in seguito.

***

Da Santarem a Manaos. - Partito da Santarem verso mezzodì, passai la bocca del Curuà, su cui è Aleniquer, - una delle più sviluppate tra le cittadine amazzoniche, - e la notte mi ormeggiai innanzi la città di Obidos, situata quasi alla foce del Trombetas (affluente della riva dritta), bel corso d'acqua che viene dalle Guiane, che è navigabile per i So miglia e che è ricco di ottimi pascoli e di campi agricoli.

Objdos, fondata nel XVII secolo, è situata a levante di un piccolo promontorio coronato da un vecchio forte, ed avanzantesi con una punta acuminata nel fiume. La corrente, urtando su questa punta, forma vortici, e le navi all'ancora sono soggette a larghe ambardate; per ciò e tenuto anche conto che per il molto fondo si deve ancorare vicinissimo a terra, conviene affondare l'ancora di dritta a valle' e mandare un pruese in terra.

Le case della città, costruite su di un terreno ondulato ed alto tanto sul livello del fiume da non temere le- piene, sono in generale piccole e meno belle all'aspetto di quelle di Santarem.

Obidos possiede un molo ed un ufficio doganale; ha 3000 abitanti ed un circondario nel quale se ne contano altri 14.000 e fa commercio di cacao, di castagne e di bestiame per 2000 contos di reis. La nostra colonia è più ricca e numerosa di quella di Santarem; tra la città e il suo circondario aveva circa 66 membri, quasi tutti parenti di quelli di Santarem stesso, e possedeva 14 case commerciali con un capitale di circa due milioni. Vi erano pure tra loro un sarto, tre muratori ed un pittore che facevano buoni affari, perché gli operai, specialmente muratori, trovano largo impiego nelle cittadine amazzoniche, che sono in continuo sviluppo.

Anche in questa circostanza ebbi subito la visita entusiastica della colonia, e notai ancora con soddisfazione che venne accompagnata dalle autorità cittadine e dai notabili del paese, perché tutti i suoi membri sono tenuti in gran conto e molto stimati per la probità, il solerte lavoro e l'ottima condotta. Andai a terra con loro e mi offrirono una bicchierata nella casa municipale, la sola adatta allo scopo. Insieme alle numerose bibite, tra loro ed i brasileri, mi regalarono, sempre inneggiando all'Italia ed alle sue glorie, ben sette discorsi, con l'obbligo relativo di rispondere a tutti e sette coscienziosamente e con pari larghezza per tutti, per non dispiacere nessuno. E così in meno di 24 ore fui costretto ad improvvisare più discorsi di un candidato americano che fa il suo giro elettorale in treno diretto od in automobile a 100 km. all'ora. Ma non era una fatica, perché faceva veramente piacere vedere la soddisfazione con la quale quei bravi lavoratori salutavano la loro bandiera, circondati dal plauso del paese che li ospita.

Trovai Obidos occupato da molti soldati che vi erano stati mandati in seguito alle questioni dei confini col Perù. Gli strateghi locali chiamano Obidos la chiave dell'Amazzone, perché innanzi ad esso il fiume si restringe in un canale unico di un miglio appena e dominato dal vecchissimo forte eretto sul promontorio anzi citato. A dire il vero mal si comprende questa chiave a mezzo fiume quando è così facile proteggere i passi della foce contro una poco probabile azione esterna e quello di Tabatinga contro una improbabile azione peruana. Quella di Obidos quindi sarebbe come la chiave di due porte distanti migliaia di miglia e non si può certo pensare che le poche centinaia di soldati tenuti dal Perù nelle sue provincie cisandine avrebbero potuto tentare di arrivare fino ad essa. Ma se anche il Perù, vincendo le difficoltà insuperabili che presenta ora per le truppe il viaggio da Lima a Iquitos, avesse potuto mandare uomini sufficienti per un'invasione, non si comprende perché le avrebbe fatte arrivare ad Obidos, visto che assai più a monte avrebbero potuto tentare l'importante occupazione di Manaos, e prima ancora raggiungere gli obbiettivi della temuta guerra, con lo stabilirsi nel paese contestato. In ogni modo un battaglione di artiglieria si godeva nel forte un ozio certo non meritato, ma anche non di Capua, e un povero battaglione di fanteria si ristorava dei mali non della guerra, ma delle malattie sofferte nell'Acre, dove, per mancanza di ogni cura e previdenza, era stato quasi decimato.

La colonia avrebbe voluto che mi trattenessi un poco, ma io aveva premura di partire, perché questa volta il lavoro della navigazione era molto anche per la gente, e voleva che il giorno di Natale lo passassero tutti in riposo nel porto di Manaos. Perciò a mezzodì del 23 dicembre dovetti lasciare quei buoni coloni, e ripresi il cammino a monte, mentre dalla riva partivano ancora i loro evviva all'Italia ed al Re.

Poco dopo aveva girato il piccolo promontorio di Obidos ed ero di nuovo in pieno Amazzone, circondato dal solito bosco lussureggiante, ma di rive così basse che ad acque alte restano quasi tutte sommerse, onde le case sparse su di esse erano in generale costruite su palafitte.

Il paesaggio però appariva assai gaio, perché gli davano vita gli uccelli in numero assai più grande del solito, grazie ai numerosi laghi che avevamo intorno.

Pare che 500 siano le specie di uccelli della valle amazzonica, e posso dire che delle principali ci fu dato di ammirare qualche campione. Naturalmente il primo ad apparirci, fin dall'arrivo sul Parà, fu l'Uruba, anzi presso Belem noi ne vedemmo delle vere nuvole, perché passammo vicino ai macelli. Questo orribile uccellaccio (dell'ordine Raptores) che ha qualche cosa del gallinaccio, è una bestia ripugnante, la quale, sul bel verde di quelle terre, fa lo stesso effetto di uno scarafaggio sul candido biancore di un giglio. Eppure esso è il solo che nell'Amazzonia, nelle Antille, nel Centro America, ecc., gode la protezione della legge, non già per compiacere le società protettrici degli animali, ma perché presta opera utile facendo sparire nel suo stomaco le carogne e tante altre sudicerie che ammorberebbero l'aria. E’ una specie di spazzino economico che non farà mai sciopero, quindi è naturale che sia tenuto caro in paesi, dove manca qualche volta completamente e spesso in buona parte il lusso di un servizio di nettezza pubblica.

Anche fin dalle foci quasi vedemmo volare assai più alto degli urubi un magnifico uccello che, pei giri larghi e maestosi, ricordava il volo dell'aquila. Più tardi infatti lo ritrovammo sull'Amazzone e, se il nostro giudizio non fu errato, lo classificammo come un bell'esemplare dell'Aquila delle Guiane, quasi tutta nera e con un ciuffo bianco. Dall'entrata poi nei canali, quando ci serravamo presso alle rive, ci appariva sempre tra altri numerosi uccelletti il Salvia (genere Turdus), tutto nero come un merlo, che merita di essere ricordato perché, cosa non comune laggiù, canta un poco e si è perciò guadagnato il nome pomposo di usignolo dell'Amazzone. Più in alto poi, da certe specie di borse appese ai rami più sottili di alberi altissimi, scappava di tanto in tanto il Sapiju (anche del genere Turdus), assai grazioso pei suoi colori gialli e neri, e che ha il nido e la casa in quelle borse, da lui stesso costruite, per mettere i piccoli al riparo dei serpenti. Ma tra tutti si distingueva meglio il Tucano, veramente ridicolo per il suo becco enorme, e più numerosi di ogni altro erano sempre i pappagalli di tutte le specie, che sovente ci assordavano con le loro stridule grida. Turbati dal nostro passaggio o da un colpo di sirena, dato appositamente, si levavano dagli alberi torme di piccole cucorite, tutte verdi e dal volo rapido e tremulo come quello delle farfalle, o di grossi pappagalli; ma più spesso questi li vedevamo passare a coppie sul fiume, specialmente al tramonto e diretti sempre, a quell'ora, dalla riva di levante verso quella di ponente. Anche le are, che pure andavano sempre a coppie e che per vivacità di colori e magnificenza di volo mi parvero tra i più belli uccelli di quella regione avevano le stesse abitudini. Soventi, vedevamo anche i Tigana, di un bel color marrone con un grazioso ciuffo, che hanno qualche cosa del fagiano e del pavone, e che abituati a non essere cacciati, non si spaventavano molto delle fucilate che passando tiravamo negli alberi su cui essi in gran numero si riunivano. Più interessanti però di tutti, come quelli che quasi danno una caratteristica speciale al paesaggio, mi parvero sempre i trampolieri, tra cui sono notevoli, per la grandezza il Marabutto e per la bellezza i Langirostri, e specialmente l'Ardea candidissima, le cui penne sono tanto ricercate dalle signore; l'Ardea cinerea al forme elegantissime e l’Ibis rubra, che appare quasi vivissima lingua di fuoco corrente come una meteora nel verde della foresta. Alle volte ci appariva anche qualche uccello a becco piatto, come i patos - grosse anitre - ma nel fiume ce ne sono pochi e per vederne molti bisogna andare sui laghi. Così pure bisogna proprio andare nella foresta per vedere i meravigliosi colibrì od uccelli mosca, cosi risplendenti al sole, che quando si levano appaiono come pietre preziose lanciate nell'aria.

Quasi tutti gli uccelli che ho ricordato e moltissimi altri ancora, che abbastanza numerosi sull'Amazzone, abbondano sugli affluenti meno frequentati, sono buoni da mangiare e possono essere un'ottima risorsa per i coloni e per l'esploratore come lo sono per gli Indú Altri, come le Ardee candidissime, sono preziosi e qualcheduno perciò le caccia, ma senza metodo e regola, onde si tende più che altro a distruggerle. Anche altri uccelli potrebbero essere utilizzati o semplicemente venduti al mercato, onde anche la caccia, se bene sfruttata, sarebbe fonte di buoni guadagni, ma visto che tante altre maggiori ricchezze sono trascurate, non è da meravigliarsi che si pensi poco a questa.

Verso la sera del 24 vedemmo le piccole colline di Parentins che segnano, a partire dalla riva dritta, il confine tra lo Stato di Parà e quello dell'Amazzonas; dalla parte dell'altra riva il confine è determinato dal Rio Jamunda, un braccio del quale prende il nome di Rio Cunuriz o fiume delle donne, perchè alla sua foce il fantasioso Orellana immaginò di aver combattute le Amazzoni. Nel punto in cui si stacca il Cunuriz dal Jamunda è la città di Faro.

L'Amazzone in quelle località appariva più ristretto del solito, il bosco era meno fitto, aveva minore quantità di parassiti, e spesso si elevava sopra basse rupi rossastre o dietro bordi erbosi. La riva dritta specialmente era sparsa di case, ma i paesi erano pochi, e Parentins fu il primo di qualche importanza che incontrammo nello Stato dell'Amazzonas. Dopo vedemmo il borgo di Urucurituba, che serba il nome di una grossa isola ora legata alla riva, e che è assai piccolo, ed in seguito Itacoatiara che è più notevole. Quest'ultimo nome significa pietra dipinta, ed invero ad acque basse si vedono presso la spiaggia certe pietre su cui sono incisi dei segni rimasti finora indecifrabili: una leggenda, derivata forse da quella di Orellana, vorrebbe ricordassero la disfatta delle Amazzoni.

Itacoatiara potrà divenire assai importante, perché, essendo situata dirimpetto al Madera, ha una posizione fortunatissima, specialmente se si costruirà la ferrovia Madeira-Mamorè; intanto il Governo dice di averne fatto un punto di disinfezione. Nel 1896 la sua esportazione comprendeva 173 tonnellate di cacao, 12 di gomma e 91 di pirarucu, ed altre cose diverse per un valore di 105 contos.

Passammo innanzi ad Itacoatiara la vigilia di Natale a notte fatta e sentimmo che la gente cantava e sparava fucilate in segno di gioia, mentre l'allegro suono delle campane, ripetuto dai mille echi del bosco, ricordava nella valle infinita il gran fatto che s'era compiuto 19 secoli prima nella lontana Betlemme, e che doveva redimere l'umanità dalla schiavitù pagana, E quel suono destò in noi un dolce e melanconico senso di nostalgia perché pensavamo che in quell'ora si faceva sentire anche nei nostri lontani villaggi. Ma forse la neve, accumulata sulle vecchie case, lo faceva giungere smorzato e raddolcito fino ai buoni camini, intorno ai quali in quel giorno di festa tutti i membri delle famiglie erano accorsi per cercare il buon calore dei grossi ceppi per i corpi ed il conforto degli affetti sinceri per le anime stanche. Là invece il calore era nell'aria, le tenebre avvolgevano in una grande ombra di mistero tutte le cose, e sentivamo i palpiti di quella vergine terra che fremente nella lunga e desiosa attesa dei volenterosi che devono renderla feconda, pareva dicesse: nel lavoro è la gioia, perché esso è la fonte vera della salvezza e della fortuna, ed è il trionfo dei buoni e dei forti.

E sentimmo che quelle parole erano rivolte a noi, marinai ai d'Italia, della gran madre delle genti latine che fu sempre maestra al mondo di sapienza e di fecondo lavoro, e ci furono perciò di conforto nella dolce mestizia dell'ora e di guida nella nostra via operosa in quella suggestionante notte di Natale, passata nella, più immensa delle foreste, e sul più maestoso fiume della terra. E veramente maestoso tornava ad apparire l'Amazzone in quel punto, perché esso riacquista quasi la grandezza del basso corso quando riceve il più importante affluente della riva dritta, il Madera. Anzi questo affluente il cui nome è stato ispirato dalla grande quantità di tronchi che vi galleggiano o che sono conficcati nel fondo, per la grandezza dei propri tributari, per la bellezza delle sue rive, per la popolazione fissa sulle sue terre e per il commercio che vi si svolge, è il più notevole dell'Amazzonia, e sarebbe anche una delle linee di comunicazione più rapida con lo Stato di Mato Grosso e con la Bolivia se non fosse interrotto da rapide e cascate.

Le navi anche di 12 piedi possono risalirlo per 600 miglia, ossia fino dal salto di San Antonio, ma i 50 miglia più al nord (a Villa Bella) la navigazione diviene di nuovo possibile, e seguendo gli affluenti del Madera stesso si può penetrare bene nell'interno dello Stato di Mato-Grosso. La detta interruzione però è molta dannosa al commercio, ed urgerebbe di ripararvi con una ferrovia, ma, caratteristico esempio del modo come vanno le cose laggiù, è il fatto che una società tentò l'impresa, e non ostante i vantaggi che doveva aspettarsi, fu costretta ad abbandonarla lasciando nella foresta tutto il suo costoso materiale.

Il Madera propriamente detto comincia in lat. 10° 20' S. (ossia a Villa Bella) dove si congiungono il Beni con il Mamorè che sono i suoi tributari importanti, benché siano anche notevoli l'Abuna (lungo 900 km.), di cui ora molto si parla per le foreste di gomma che si sono scoperte, ed il Mamorè.

Il Beni, che era quasi sconosciuto fino al 1880, ha molti affluenti (come l'Orton ricchissimo di gomma, e navigabile), il suo corso è di 1500 km ed è navigabile fino a Salinas nel cantone di Reyes; vi si contano 40oo abitanti e molte case commerciali, ed alla sua confluenza col Mamorè, ossia a Villa Bella (città di 800 abitanti), è situata la principale dogana boliviana.

Il Madre de Dios proviene dal dipartimento di Cuzco, e si unisce al Beni in 10° 48' di lat. S., ha una lunghezza i 1500 km, ed è navigabile per 500 km., ma ha molte cadute; le sue rive sono ricche di gomma e di altri prodotto importanti, ed ha numerosi affluenti tra i quali il Manu, che, come dissi, è diviso dall'Ucayali solamente da un piccolo tratto di terra.

Dopo il Madera incontrammo solamente qualche sitio (abitazioni circondate da culture), ed il mattino arrivammo alla confluenza del Rio Negro, dove, come dissi, l'Amazzone prende il nome di Solimoes, con corso abbastanza ristretto, mentre il Rio Negro che viene più da nord, ha apparentemente un aspetto più maestoso.

Le acque di questo affluente hanno il colore di una densa decozione di tè, e stentano a confondersi con quelle fangose dell'Amazzone, onde tra le une e le altre appaiono linee di divisioni ben nette. Ma presto la corrente poderosa del fiume principale assorbe le acque del suo tributario e procede indisturbata, senza che il suo colore presenti la più piccola variazione.

La poca corrente del Rio Negro, l'assenza di acque provenienti dallo scioglimento di nevi montane, o di materie fangose, la grande presenza di ossigeno, fanno dedurre (e ciò forse può ripetersi anche pel Tapajoz) che la colorazione sopra detta sia dovuta a materie humiche in soluzione: vi è però una certa quantità di ferro, ma non sarebbe sufficiente da sola a dare quel colore all'acqua. Ad ogni modo si ritiene che tale colore non rende nociva l’acqua, ma recentemente si è osservato che essa contiene un numero eccessivo di microrganismi e perciò non si crede che si possa rendere potabile. Infatti Manaos si provvede da un piccolo affluente del Rio Negro, ma anche esso non dà acqua pura, onde sono stati costruiti dei bacini per filtrarla, e poi mandarla con pompe in un gran serbatoio da cui si distribuisce alla città. Il lavoro è bello, ma i filtri sono lontani dall'essere perfetti e la questione di una buona acqua potabile per uso della città è sempre in studio.

Il Rio Negro ha un corso di 1500 miglia, e sarebbe una importante via di comunicazione con le Guiane ed il Venezuela, se non fosse basso ed interrotto da cascate. Ed invero, mentre alla confluenza presenta grandi ' profondità, presto gli resta poca acqua e la navigazione è praticamente interrotta dopo 300 miglia.

Tra i suoi affluenti è molto importante il Rio Bianco per la ricchezza delle terre ed è molto noto il Parimè perché la leggenda voleva che sulle sue sponde dovesse trovarsi la tanto ricercata città della ricchezza: "Manoa de el Dorado".

La foce del Rio Negro è assai bella, la riva sinistra è circondata da una rupe elevata una trentina di metri, e grazioso è il passo dell'isola di Marapatà, dopo il quale si apre una larga insenatura da cui cominciammo a scorgere prima grosse navi a -vapore ancorate innanzi Manaos e poco dopo la città, tutta ridente pei gai colori delle sue case nuove, sulle quali dominano le guglie della cattedrale e la cupola del teatro. Questa è~ rivestita di mattonelle verniciate che risplendevano al sole, ma le ricche entrate che lo Stato ritrae dalla gomma mi fecero subito pensare che più opportuno sarebbe stato se l'avessero dorata quasi per simboleggiare che la leggendaria Manao de el Dorado è stata finalmente materializzata nei seringaes.

Eccezionalmente, il giorno 25 era una giornata proprio limpida, e su di un bel cielo sereno brillava il sole tanto decantato dei tropici. In verità da che eravamo partiti dall'Italia, a dispetto di tutti i poeti che non devono aver viaggiato nei tropici in certe stagioni, non avevamo quasi mai più avuto lo spettacolo del cielo completamente azzurro e del sole splendente in tutta la sua magnificenza come nel nostro bel paese, ma quel giorno era Natale, ed anche il vecchio sole voleva fare le cose per bene, e fare apparire, se è possibile, più gaie e più belle le numerose bandiere italiane che pavesavano due vaporini che ci venivano incontro.

Era la colonia che esultante di vedere per la prima volta una nave nazionale in quella alta regione amazzonica veniva ad esprimerci la sua orgogliosa gioia.

Le buone grida di saluto salivano più alte a maniera che ci avvicinavamo e giunsero al delirio quando al suono della marcia reale fu risposto dai miei marinai coi fatidico grido di "viva il Re". E la commozione non ebbe più limiti quando, appena dato fondo, quei buoni lavoratori vennero a bordo e ci ringraziarono perché avevamo portato loro un ricordo vivo della patria. a. fatica ebbe ricompensa più bella di quel ringraziamento, raramente lode più alta di quelle semplici parole fu detta in onore della i marina nostra e delle sue nobili navi che, pur vegliando alla difesa del suolo sacro della patria, nei fecondi periodi della pace cercano nuove vie per lo sviluppo dell'attività umana e percorrono i mari, messaggere di pace tra i popoli e di affetto e conforto per i fratelli che le vicende del lavoro fecero esuli.

E per meglio dirci la loro gioia, 4 coloni ci vollero, qualche giorno dopo, ospiti, foro in un magnifico padiglione costruito in mezzo al bosco, ed anche là nella dolcezza dell'ora, e mentre su tutti troneggiava l'effigie del Re, che, pareva sorridere a quella nobile festa, i cuori si affratellavano nell'amore infinito della patria lontana. E quando mi alzai per ringraziare, e vidi tutta quella gente stringersi intorno a me come per ascoltare più da vicino il saluto della patria, ebbi intera la visione di quello che dovranno diventare le nostre colonie, parti vive d'Italia, che si irradieranno, nel mondo per portare fino negli angoli più remoti le fonti di una vita nuova e per conquistare alla nostra attività le te ancora vergini. E queste colonie, legate tra loro e con la madre patria con vincoli d'amore fecondo, amate e stimate dai paesi che le ospitano per la loro onestà e per i benefici che esse producono, concorreranno a dare alla terza Italia una, gloria ed una potenza pari all'antica.

Tutto questo sogno io cercai di dire come il momento lo ispirava al mio cuore; quegli onesti lavoratori mi intesero, e come alle parole di una vita nuova, bene augurante per quelle terre, parve che la natura intorno esultasse, quando l'eco della foresta ripetette con le sue mille voci il grande saluto all'augusta persona del Re, che tutte le nostre speranze impersona.

 Ed in quel momento, come al primo incontro, come in tutte le numerose occasioni in cui ho dovuto parlare ai nostri coloni, li ho sempre visti animati di un amore infinito per la patria lontana e di una devozione senza limiti per la gloriosa bandiera pendente dal pick della mia nave senza che mai si levasse da alcun di loro una nota discordante, quasi che tutti volessero dimostrare la grande potenza educativa e morale delle navi da guerra. Che esse dunque sieno benedette in eterno e sia lode in eterno al Latin che disse: " navigare è necessario, non è necessario vivere".

***

Lo Stato dell'Amazonas è il più vasto del Brasile, ha la sua origine nella capitaneria del Rio Negro, che fu fondata nel 1755 e messa alla dipendenza di Parà. Questa soggezione con lo Stato vicino non cessò neanche con l'indipendenza del Brasile, e solamente dopo molte lotte e rivoluzioni, nel 1852, l'Amazonas fu eretta a provincia indipendente. Manaos, fondata nel XVIII secolo col nome di Barra do Rio Negro, e che per la sua posizione doveva naturalmente attrarre l'attenzione dei governanti della nuova provincia, prese il nome attuale e fu elevata all'onore di capitale.

 Però in quel tempo aveva appena 3600 abitanti, allogati in case basse e meschine, e tre o quattro costruzioni a due piani si contavano come una meraviglia. Da quel tempo però le cose sono cambiate, e benchè il progresso non sia stato quale avrebbe dovuto essere in relazione alle immense ricchezze del suolo, pure ora ha 45.000 abitanti.

 Più notevole è invece lo sviluppo del commercio e della ricchezza. Le entrate dello Stato hanno avuto questo crescendo: 18 contos nel 1852, 1814 nel 1889, 21.426 (di cui 18.476 provenienti dalla esportazione e perciò specialmente dalla gomma) nel 1898. Ma a queste somme vanno aggiunte le entrate municipali anche esse rilevanti, e quelle d'importazioni che spettano al Governo federale, e che nel 1898 ascendevano a 6000 contos.  […] (pp. 169-171).

Le case e gli edifici della città sono in generale di bello aspetto e le prime sono allineate su strade larghe e diritte, tagliantesi ad angolo retto e qualche volta anche di buona costruzione. Si notano la cattedrale, il teatro, il palazzo di giustizia, il deposito dell'acqua potabile, il mercato; al mio passaggio erano costruzione i palazzi dei governatore e del Parlamento, la prigione, ecc.

 Una delle più belle opere e recenti è il dock galleggiante. Date le grandi variazioni di livello (oltre i 10 m.) occorrevano per il traffico, che è fatto tutto per acqua, speciali disposizioni; e perciò si cominciò col costruire un grandissimo pontone sul quale le navi :sbarcavano le loro merci. Questo pontone appoggiava il fianco interno contro un piano inclinato preparato sulla riva e lungo il quale un, cavo continuo faceva scorrere dei carretti. Al variare del livello 1 del fiume si spostava il pontone in modo che galleggiasse sempre, pur toccando il piano, e le merci erano vuotate sui carretti che le trasportavano in alto. Essendosi molto sviluppato il traffico, questo pontone è stato lasciato per le piccole navi, e per le grandi se ne è costruito un altro, vera banchina galleggiante, che può essere accostato sempre dalle maggiori navi, perché è ormeggiato in molto fondo. Tale nuovo pontone è unito alla terra ferma mediante cavi aerei che servono di guida alle grosse corbe sulle quali si caricano le mercanzie. Un sistema di pesi tiene sempre tesati i cavi, dimodochè i guardiani devono semplicemente pensare a filare ed a ricuperare gli ormeggi del pontone per mantenerlo nella giusta posizione, mentre varia il livello del fiume. Le corbe poi vanno dalla banchina alla terra e viceversa col solito sistema dei cavi continui.

 Tutta la città è illuminata a luce elettrica ed è percorsa da trams elettrici che vanno fino ai sobborghi di Flores e di Cocheheira, traversando il bosco sempre così ricco di attrattiva.

 L'igiene, stante la costruzione più recente della città, è meglio curata che a Parà, ma le latrine e le fognature lasciano sempre a desiderare. Vi sono due ospedali ed un ufficio d'igiene che potrebbe fare la fortuna del paese, se pensasse ad isolare le malattie infettive. Ma per quanto scarse siano le cure, è sempre notevole che tali malattie si estendono meno di quelle che si potrebbe aspettare, e se si pensa che anche negli ospedali sovente si trascurano elementari precauzioni e che a Manaos affluiscono, quando possono, i malati dell'interno, è facile conchiudere che le sue condizioni sono assai migliori di quanto può apparire. Ma è necessario ed è possibile rendere veramente e mantenere Manaos una città sana, per abbattere le barriere che fermano molto spesso gli immigranti.

 Infatti non si può affermare che una vera e sufficiente corrente d'immigrazione sia avviata verso questo paese, ne vale il ricordare che gli abitanti dello Stato dell'Amazonas, compresi gli Indi addomesticati, sono saliti in un periodo di sette lustri da 30.000 a 250.000 o 300.000 circa perché questa cifra che corrisponde ad una densità di popolazione di 0,8 per kmq è semplicemente derisoria rispetto a quella che al paese occorrerebbe e che il suolo potrebbe nutrire.

 La nostra colonia (di 2000 membri circa) è, relativamente a questa scarsa popolazione, abbastanza numerosa, ma conta poco o nulla, perché è composta in generale da povera gente, senza legami ed unione tra loro, così che quei buoni lavoratori, sono semplicemente sfruttati senza formare quel complesso tanto utile per gli interessi loro e dell'Italia, a cui avrebbero diritto e modo di aspirare se sommassero le loro energie. Ma invece molti di essi (ricordo della Ligure-Brasilena che pare avesse un premio per ogni emigrante) hanno dimenticata financo la loro lingua, tanto che gli Italiani benestanti devono parlare loro in portoghese per farsi capire e la gente del paese li chiama con un nome generico che vuol dire facchino. Vi è però un nucleo di operai che lavora bene e guadagna anche bene e 60 o 70 persone tra impiegati e commercianti che sono in discreta posizione e potrebbero riunire intorno a loro la colonia, come la rappresentarono nelle feste date al Dogali. Ma per cercare un primo rimedio a questi mali e provvedere ai numerosi bisogni presenti ed agli interessi futuri era necessario - ed ora, credo in seguito alle mie proposte, è stato fatto - che si mandasse a Manaos un console di carriera, capace di accoppiare alle virtù del missionario per predicare l'amore ai coloni, la più fine e ferma sagacia diplomatica per navigare senza urti nel mar politico di quei paesi che, per molte ragioni, è assai irto di scogli.

 Da Manaos al Purus - Trovai a Manaos la stagione della piena molto in ritardo, ma siccome non poteva aspettare, l'8 gennaio partii: appena però entrai nel Solimoes vidi con soddisfazione molti alberi in deriva, segno evidente che il fiume cominciava a crescere in alto e che quindi nei punti più pericolosi avrei potuto trovare acqua sufficiente. In cambio dovevo aspettarmi una corrente forte e certo superiore alle 3 miglia, e ne ebbi subito la prova perché impiegai 16 ore e mezzo per arrivare fino al Purus. In seguito fu anche peggio: per andare a Iquitos ci vollero 13 giorni; ma, tolte le fermate di qualche ora che feci successivamente e specialmente nella notte per concedermi le indispensabili ore di sonno, presso l'isola di UaJaratuba (8 gennaio), innanzi la bocca del lago Onca (9 gennaio), all'affluenza de1 Rio Copea (10 gennaio), presso l'isola Panani (11 gennaio), a Caixara (12 gennaio), ad Uarà (13 gennaio), presso le isole Tararà (14 gennaio) presso la foce del Tocantins. (15 gennaio), a San Paolo di Olivenca (16 gennaio), presso l'isola Capiay (17 gennaio), al principio dell'isola Cacao (18 gennaio), a San Matteo (Perii) (19 gennaio), presso l'isola di Janamaco (2o gennaio), impiegai in complesso circa 8 giorni e due terzi di sola navigazione alla velocità di macchina, di 10 miglia.

 Tra il Rio Negro ed il Purus si trovano affluenti di poca importanza, e si può citare solamente il Manacapurà sulla riva sinistra.

 La costa è invece abbastanza varia, le parti inondabili si alternano con graziose piccole alture, molte località sono assai ridenti, in diverse piccole savanes si alleva bestiame, e bellissima è la foresta presso il Purus. I piloti dicono che le savanes ora dette sono artificiali, ed è molto probabile, perchè tagliando il bosco ed impedendo che si riproduca, nasce naturalmente un magnifico prato come infatti si osserva in tutti i posti dove stanno sorgendo dei villaggi. Incontrammo parecchie case isolate, ed anche alcune riunite in piccoli gruppi, come per esempio a Boa Vista, dopo vedemmo la cittadina di Manacapurà, assai graziosa, con case in muratura ed una fortunata posizione sopra una piccola collina, ed, innanzi di giungere al Purus, il paesello di Uanama. Nelle vicinanze poi del fiume trovammo più numerose le case, le vendite di legna e le baracche dei seringueros, e specialmente alla sua bocca c'erano parecchie baracche, tra le quali una grandissima che serviva, direi, da H8tel, ed era piena di seringueiros con donne e bambini, arrivati fin là in balse e canoe, ed aspettanti le lanchas per risalire il Purus o per scendere a Manaos.

 Ma qui devo dire che non mi è possibile fornire dati sulla maggior parte dei paeselli che vedemmo, perché poco ne sa il Governo stesso. Le agglomerazioni di case si formano dove il bisogno lo richiede, e sarebbe difficile dire l'entità del loro commercio, poiché i loro prodotti sono trasportati a Manaos dove passano per gli uffici governativi senza che 1 alcuno si preoccupi molto dei paesi di origine. Devo anche notare che quando indico il nome di un paesello o di una, certa località e li segno sul mio schizzo del fiume, si deve intendere che i m, iei piloti mi dicevano quel nome, ma che non si può fare molto assegnamento su di essi. lo cercai di mettere, come `meglio potevo, di accordo le indicazioni spesso diverse dei piloti e delle carte a cui accennai, ma non è difficile che, altri chiamino le località stesse diversamente, però a chi consultasse il detto schizzo navigando sul fiume, sarebbe facile chiarire le differenze senza dubbi pericolosi.

 È utile anche ed opportuno accennare brevemente al modo come son fatte le abitazioni del fiume a cui ho spesso accennato, e che alcuni autori locali descrivono come deliziose, ed aggiungere qualche cenno su alcuni costumi degli abitanti. Le abitazioni isolate possono appartenere a coltivatori della terra (sitio), a pescatori di tartarughe o di pirarucù, a rivenditori di legna ed a persone che lavorano la gomma. In questo caso possono essere le capanne dei lavoratori o le baracche (puertos) di padroni seringueiros, o di mercanti dove gli indi o i meticci, che raccolgono per proprio conto la gomma, vanno, come presso una casa avviatora in miniatura, a vendere od a scambiare il loro raccolto od anche ah prendere roba in credenza. Di tali puertos se ne trovano parecchi, specialmente allo sbocco dei ricchi affluenti dell'alto Solimoes e del Maranon, e quando fanno molti affari, le lanchas ed i va, pori della linea Amazzonas sogliono fermarsi presso di essi, onde è bene applicato il loro nome. I Puertos, le rivendite di legna e di tartarughe espongono fanali la notte.

 Le capanne sono in generale costruite con rami e foglie, ma quando i proprietari sono abbastanza agiati le pareti sono fatte di legno. In questo caso sogliono mettere le assicelle un poco scostate l'una dall'altra, cosicché l'aria ed anche la luce vi penetrano liberamente senza bisogno di finestre. Di questa ultima specie di costruzioni ho viste alcune assai graziose sull'alto Marafion ed anche sul Solimoes, ma ivi, eccetto per i sostegni principali. il legno era sostituito da canne.

 Non è facile stabilire una linea di divisione tra le capanne e le case: le prime subiscono miglioramenti successivi, mentre le condizioni degli abitanti diventano più prospere, e finiscono col trasformarsi nelle seconde. Del resto il sistema di costruzione è lo stesso: pareti di legno o canna e tetto di grosse foglie di palma, sporgente in generale alla moda toscana, e qualche volta prolungato per coprire una veranda sul fronte della casa.

 L'interno è diviso per lo meno in due ambienti: quello anteriore serve da sala comune e da lavoro, e quello posteriore da camera da letto. Molte case però, specialmente quelle dei patroni seringueiros e dei commercianti, oltre il pianterreno hanno anche un piano superiore riservato alla famiglia del proprietario, con una scala esterna di accesso. 

Quando il suolo è inondabile, tutta la casa si eleva su palafitte, ha un pontile che la unisce al fiume ed un pavimento di legno, ma quando il posto è elevato ed allo asciutto, i poveri si contentano del terreno per pavimento.

 La gente, come le case, è pulita: l'opera provvida della scopa appare da per tutto, e l'acqua ed il bagno sono amati anche dai poveri. I vestiti sono molto semplici, gli Indi selvaggi più semplicemente ancora li sopprimono, quelli un po’ civilizzati seguitano le vecchie abitudini nella foresta e le mutano solamente quando debbono andare in città. Gli altri più civili ed anche molti bianchi che vivono nel bosco o sul fiume, si contentano, gli uomini, di un paio di pantaloni e di una giacchetta, se le zanzare non impongono una maggiore copertura, e le donne di una semplice vestaglia. Le scarpe sono assai poco in uso e qualche bianco le sostituisce con zoccoli; alle volte però mi è capitato di vedere in qualche paesello del fiume degli uomini ed anche delle donne in vestiti civili, ma facevano uno strano effetto, mentre erano graziosamente intonate con l'ambiente le vestaglie rosse delle donne che, attirate dal nostro passaggio, apparivano sulle rive. E dico che venivano solamente le donne, perché il più delle volte esse solamente erano sul posto, essendo gli uomini a lavorare nella foresta. Accorrevano però sul nostro passaggio, perché avevamo l'aria di tirar dritti; se ci fossimo fermati sarebbero fuggite, perchè pare che i marinai locali ne abusino. Ma è bene aggiungere che, fatta eccezione nell'alto Solimoes, in generale gli abitanti delle rive, non trovavano, nella loro apatia, la curiosità di osservare il fatto poco comune del passaggio di una nave, ed anche di una nave, come la nostra, assai diversa e più grande di tutte le altre che potevano aver viste.

 Anche i mobili sono semplici: per letti servono certi panconi di legno con sottili strapuntini, le brande sono pure molto usate; e le donne amano restarci il più a lungo possibile, allogandole spesso nella sala comune. Sulle pareti sono appesi il corredo, gli utensili da lavoro, le poche provviste e l'immancabile carabina Winchester. Qualcheduno ha pure un fucile da caccia, ma la carabina od il rifle, come dicono leggendo all'italiana il vocabolo inglese, è indispensabile al seringueiros, come la machedina, non solamente per la difesa personale ma anche per procurarsi, cacciando un poco di carne fresca. Gli Indi sono abilissimi nel suo uso e le scimmie ed i quadrupedi cadono infallibilmente sotto i loro colpi; ma il malanno è che anche gli Indi selvaggi presto acquistano la stessa abilità, e quando riescano ad avere, cosa non difficile, una carabina, diventano, finché posseggono cartucce, nemici assai temibili per i bianchi. E così si spiegano certe ecatombe di seringueiros o di caucheros; ma per esser giusti bisogna pur dire che quei massacri sono una delle conseguenze delle condizioni generali di un ambiente dove sola legge è la forza. Invero non è raro che, invece di tentare l'educazione degli Indi, i cosiddetti uomini civili organizzino delle correiras nella foresta per assaltarne le tribù, rubare le poche robe, catturare i bambini ed uccidere i vecchi e gli adulti che non si riuscirebbe ad addomesticare. So bene che a ripetere queste cose a Manaos si passerebbe il pericolo di essere lapidati, o almeno di sentire addossare il peccato agli Stati vicini, ma la finzione non è sufficiente per smentire i fatti, e pur troppo tutti sanno dire quanto si paga un ragazzo od una bambina cacciati in quel modo. Se quindi gl'Indi uccidono combattendo per difendere la loro vita, i loro bambini e le loro robe, od uccidono a tradimento per rappresaglia, la colpa è della gente che si vanta di essere più civile di loro. Del resto sono i mercanti stessi che li armano, scambiando fucili e munizioni con la gomma ed altri prodotti della foresta che anche quei selvaggi raccolgono. Ma un signore mi diceva seriamente di aver trovato il mezzo di evitare ogni inconveniente col fornire armi in cui le molle del cane erano state intaccate con acidi, in modo che si rompessero dopo pochi scatti. E’ uno strano sistema questo di sanare un errore con un volgare imbroglio e con lo stesso criterio di quel signore un Indio potrebbe dire, quando si rifà uccidendo il suo padrone per provvedersi di buone armi, che agisce secondo giustizia.

 Nei paesi del fiume le case in maggioranza sono analoghe a quelle descritte sopra, ma se ne vedono anche parecchie che sono od hanno l'apparenza di essere costruite in muratura. Infatti alcune volte sono fatte in mattoni (la pietra manca in tutto l'Amazzone) ma altre volte l'ossatura è un traliccio di legno, i vuoti sono riempiti di argilla, e l'insieme è completato da un intonaco ed è dipinto in modo da fingere la muratura.

Si può ritenere che ad ogni casa corrisponda un pezzo di terra coltivata, ma come dissi, sull'Amazzone e sul Solimoes ciò in generale non appare al navigante, nel Maranon invece amano circondare la casa con un piccolo orto nel quale predominano le piante di certe grossissime banane, che ivi sostituiscono quasi il pane. Anche nei villaggi ogni casa ha in generale il suo piccolo pezzo di terra più o meno coltivato, che, secondo gli scrittori brasileri, dovrebbe essere, ma non è, un bellissimo giardino.

È notevole che sono assai pochi i villaggi che hanno una chiesa, non ostante che Parà, per esempio, ne sia piena, e che il popolo della città almeno, più che la credenza, abbia tutto il fanatismo religioso dei vecchi portoghesi. Ad Iquitos esisteva una sola chiesa; era caduta, quando io vi giunsi e trovai che avevano pensato di utilizzarne il suolo per farne un giardino, quasi che nella valle Amazzonica mancasse un poco di terreno; erano però rimasti sul posto due preti che non avevano in nessuna maniera cura delle anime. In generale dunque la povera gente è abbandonata a se stessa, senza nessun insegnamento morale, e ciò ha una trista influenza sul modo come si costituiscono molte famiglie 2 assai spesso le unioni sessuali sono regolate da affinità casuali più che elettive, onde il paese è pieno di bastardi prodotti dai più svariati incrociamenti.

Ad Iquitos mi dicevano (ed erano dolorosamente le persone più serie del luogo a parlare) che, gli immigranti non si possono sottrarre a questi legami eterogenei, perché hanno bisogno di qualcuna che curi la casa, regoli l'azienda domestica, ed offra assistenza in casa in caso di malattia.

 Pare che le cholites (graziose piccole creature indie o meticce) si prestino mirabilmente a tutto ciò, e perciò i nuovi arrivati sì affrettano a fare il contratto. La cosa è semplice assai: scelgono la loro piccina (che spesso non ha ancora 12 anni), le parlano, la chiedono alla madre, promettendole una veste, una macchina da cucire, una branda e poche altre cose, e se la portano a casa con soddisfazione di tutti. I figli arrivano di conseguenza, spesso, il padre li abbandona insieme alla madre, ma altre volte si lega a loro, ed a poco a poco si piega alla loro vita, scendendo egli verso la donna, ma mai elevando questa verso di lui e la sua civiltà. E così pur troppo aumenta quella popolazione meticcia, che si incontra non solo nell'Amazzonia, ma nelle Antille, e in buona parte dell'America del Sud, e che è uno dei peggiori prodotti umani, perché raccoglie tutti i difetti e nessuna delle virtù dei genitori.

 È notevole anche che in tutti i paesi del fiume - naturalmente non parlo di Parà e Manaos - non si trovano alberghi (nella stessa Iquitos si trovano trattorie solamente); ognuno deve farsi una casa, e nei primi giorni dell'arrivo deve ricorrere all'ospitalità, veramente assai larga, degli abitanti.

 Ma non si può parlare delle case dell'Amazzone senza dire dei loro molesti ospiti: le zanzare. La prima notte che passai alla fonda sul Solimoes, benché fossi ancorato vicinissimo a terra, non ebbi da esse molte noie, ed in vero i piloti mi avevano detto che in basso ce ne sono poche, ma che aumentano salendo ed avevano ragione. Non sono però egualmente distribuite, e nella località in cui abbondano (i piloti le conoscono) conviene, quando si dà fondo la notte, di mettersi quanto più è possibile in mezzo al fiume se si vuol riposare. Devo aggiungere però che tali insetti ed altri non meno noiosi ed anche pericolosi infestano è vero la regione, ma non sono più numerosi di quelli che si incontrano in tanti altri posti d’America, e mi ricordo che anni fa a Guaiaquil ci facevano soffrire molto più che qui. Tra quelli dell'Amazzone, ricorderò i centopiedi e gli scorpioni velenosi; i micuim; i carrapetos - larve che si cacciano nella pelle e producono infiammazione -; i bicci che penetrano nei piedi e producono piaghe; le formiche che infestarono anche la mia camera, e sono capaci di distruggere interi raccolti; ed oltre le zanzare di tutte le specie (sancudas), già citate, e che farebbero dannare anche un santo, i mosquitos, piccoli moscherini insidiosi e molesti, perché oltre il prurito producono bruciore. Ma è contro le zanzare ed i mosquitos che bisogna principalmente difendersi, ed anche i poveri si forniscono di zanzariere che portano sempre con loro quando vanno nella foresta, e mi è capitato di vederne stese, lungo la riva del fiume, sotto la pioggia, da gente che si era accampata per la notte. A riscontro però di tanti insetti noiosi, mi piace ricordare l'ape (ce ne sono 180 specie) che è poco sfruttata, ma che potrebbe essere fonte di ottimi guadagni.

Il Purus (le cui origini non sono ancora ben note) è, uno degli affluenti più importanti di tutto l’Amazzone, ed è un vero rivale del Madeira, Lungo quasi come questo, gli corre spesso vicino e parallelo ed ha egualmente boschi ricchissimi di gomma; anzi ora per la quantità non per la qualità di questa, lo supera, grazie specialmente ai prodotti dei suoi affluenti.

Tra questi ve ne sono alcuni divenuti famosi oramai nel mondo commerciale, e di conseguenza in quello Politico, perché se non fosse stato per la loro gomma, il Brasile non si sarebbe dato certo la pena di contestarli al Perù, insieme con l'alto corso del Purus stesso (1500 km) e non sarebbero avvenutele rivolte dell'Acre.  

Tra i detti affluenti ricorderà i seguenti che sono anche navigabili: riva dritta: il Chandless, il Tulinianu (che ha molto caucciù), il Yacos l'Acre o Aquiry (che è il Più importante: fu scoperto nel 186oR ha 18>Ooo abitanti nel suo bacino e dà nome al territorio in questione col Perù),. l'Ituxy (che è molto ricco) ed il Jacarè (Poco esplorato); riva sinistra: l'Inauhnyn (che è ricco di caucciù), il Pauhiny (che è assai importante), il Mamorià, ed il Tapaoà.

 Grazie all'acqua di tutti questi tributari, il Purus durante la piena è navigabile per 1900 miglia e nella secca per 800; cinque Compagnie regolari e numerose lanchas ed anche vapori oceanici vi fanno il traffico e non incontrano molta corrente (2 o 3 miglia l'ora). Nel terreno circostante vi sono molti laghi e paludi che interrompono le dense foreste, ma queste sono abitate da Indi selvaggi e feroci, tanto che difficile assai è la loro esplorazione. Ciò non ostante, il commercio del Purus tra importazione ed esportazione si eleva a circa 35.000.000 di lire, e si crede che in tutto il suo bacino vi siano 80,000 abitanti, senza contare gli Indi.

 I prodotti (gomma, cacao, caucciù, tabacco) affluiscono a Manaos, ma una parte va anche ad Iquitos passando attraverso brevi istmi sull’Ucayaly.

 A questo punto è opportuno dire un po’ più a lungo delle questioni sopra accennate dei confini, senza però discuterle altrimenti andrei troppo lontano dai limiti di questa narrazione.

 Il Perù sostiene che gli apparterrebbe tutto il territorio dell'antico vicereame a cui è succeduto, territorio che si estendeva fino a Teffè; ma, se anche si volesse pigliar per base il trattato corso tra Spagna e Portogallo, afferma che il suo confine tra il Javary ed il Madera dovrebbe essere all'incirca il segmento di parallelo 6°50' S., compreso tra i detti fiumi. Senonchè nel 1851 si addivenne ad un accordo col Brasile e si indicò il Javary, come limite di confine al sud. dell'Amazzone, ed il vallone di Sant'Antonio (Tabatinga) come origine del confine al nord dell'Amazzone stesso. Ciò però fu un errore dovuto all'ignoranza de la Commissione peruana (sono loro stessi che lo dicono), e se finora non sono sorte molte questioni anche per i confini settentrionali, lo si deve al fatto che le terre da quella parte valgono poco. Dall'altra parte invece si sono scoperte grandi ricchezze ed il Brasile di conseguenza , ha avanzate molte pretese avvantaggiandosi, secondo i Peruani, dei detti errori. E che malamente operasse la detta Commissione è fuori dubbio, perchè non si comprende come non si occupasse dei confini oltre le sorgenti del Javary. Se ne occupò invece il Brasile quando (1867), promettendo alla Bolivia la via del Madera per le comunicazioni coll'Atlantico, conchiuse un trattato in cui era detto che il confine tra loro era la linea compresa tra Villa Bella (confluenza del Beni col Mamorè) e le sorgenti del javary. Protestò subito il Perù, sostenendo ohe il confine tra esso e la Bolivia doveva invece estendersi fino al Madera ed al Beni, che la linea anzidetta era tutta compresa in territorio suo, e che con quel trattato gli si toglievano iooo leghe quadrate di terre ricchissime e propriamente l'alto Juruà fino alla confluenza col Taruacà (1500 miglia e 8000 abitanti) e l'alto Purus con i suoi famosi affluenti, ed i non meno ricchi affluenti del Madera, quali per esempio il Madre de Dios. Ma non ebbe la forza necessaria per sostenere queste affermazioni, mentre il Brasile, che ogni giorno diveniva più potente, chiara mente dimostrava di volere ad ogni costo quelle terre per assicurarsi il monopolio della gomma e del caucciù, tanto che chiuse il Juruà, il Jutahy ed il Purus alla navigazione dei Peruani, cosicché questi, quand'anche fossero entrati in possesso degli altri fiumi, non avrebbero potuto asportarne, i prodotti con navi proprie. Inoltre nel 1895 insistette con la Bolivia perchè si definisse bene la linea Villa Bella-sorgenti del Javary, e nel 1898 fece stabilire la dogana boliviana di Puerto Alonzo, nel punto in cui la linea stessa taglia l'Acre,

 Contro questi fatti il Perù fece ogni sorta di proteste, ma il Brasile seguitò la sua politica, e poiché la dogana di Parà non volle lasciar passare la gomma licenziata da Puerto Alonso ne trasse occasione per spingersi più al sud; fu sostenuta una teoria un po' strana e cioè che se il parallelo di Villa Bella non tagliava il Javary, ma passava al sud di esso (se fosse passato al nord la teoria non sarebbe più convenuta) alla retta Villa Bella, sorgente Javary dovevasi sostituire la spezzata formata dal parallelo di Villa Bella, e dal meridiano delle sorgenti del Javary. E mentre su ciò si discuteva, alcuni brasileri, guidati da un alto impiegato, costrinsero (maggio '99) i boliviani a ritirarsi da Puerto Alonzo; ed a Manaos, senza mistero di sorta, Luis Galvez preparò la spedizione con la quale (luglio '99) invase l'Acre, -ne dichiarò l'indipendenza, e ne assunse il governo quale presidente della nuova repubblica.

 Il Brasile contrattò (30 ottobre '99) una nuova revisione di confine, accondiscese al ristabilimento della dogana di Puerto Alonzo, ed intervenne per sedare la rivolta. Perciò quando giunse la spedizione boliviana, Galvez era già deposto, e siccome era d'estate e quindi i caucheros erano nella foresta, il successo arrise alla Bolivia. Ma la rivolta scoppiò di nuovo, e dopo varie vicende la Bolivia stessa pensò bene di finirla cedendo (i i giugno igoi) il turbolento territorio ad una compagnia americana che si chiamò Bolivian Syndacate. Seguirono nuove proteste del Perù ed anche del Brasile, perché, secondo una nuova teoria di diritto, quelle terre erano divenute " territorio sacro della patria " visto che le lavoravano braccia brasilere.

 E fu proprio il Brasile che ebbe ragione (17 novembre 1903), perché mediante Is. 110.000 versate al Sindacato, e 2.000.000 di sterline date alla Bolivia, rilevò tutto il territorio dell'Acre e portò il confine sulla linea Madera-Abuna-Ripirran-Aquri, parallelo 100 20, sud e confine col Perù. In tale contratto di compra-vendita, il Perù che sosteneva di essere il più interessato, non ottenne neanche di essere ammesso a pigliar parte nelle trattative, non ostante che oramai si limitasse a discutere il possesso delle terre comprese tra il Beni, il Madera, la linea Villa Bella-sorgente Javary, e la cordigliera di Apolabancha. Gli fu semplicemente risposto di intendersi prima colla Bolivia, e questa solamente dopo la vendita accondiscese a rimettere ad un arbitro (il governo argentino) l'intricata questione, mentre il Brasile, forte del contratto stipulato, cominciò ad esercitare la sua sovranità sul territorio in parola. Così le sue forze vennero a contatto con quelle che i Peruani avevano mandate o tenevano nelle località medesime, gli attriti tra i cittadini dei due paesi si inasprirono, e come si sosteneva sul luogo, molte liti furono risolte a colpi di fucile; onde vi fu, a cominciare dal 903, una vera guerra combattuta in tempo di pace e la minaccia di guerra dichiarata. I giornali brasileri cominciarono a far la voce più grossa, minacciando sterminio, la cannoniera Tupy fu inviata ad Iquitos, e fu sostenuto, come sopra si disse, il diritto di occupare l'Acre e le altre terre i cui abitanti erano diventati in maggioranza brasileri.

 E mentre il Perù cercava una soluzione pacifica, il Brasile seguitò a mandare al nord navi e soldati, e con decreto del 7 aprile 904 organizzò l'amministrazione civile e fiscale del paese che ora si chiama Acre e che comprende tutto il terreno contestato. Mandò anche spedizioni militari negli alti juruà e Purus e richiese al Perù di definire i suoi confini con la Bolivia, sgombrando intanto il territorio in questione (messaggio presidenziale 13 maggio 904), quasi nel mentre (9 marzo 904) si ratificava il trattato di arbitraggio conchiuso in proposito tra esso e la Bolivia. Però si riuscì ad evitare la guerra, e quando io era sul posto una commissione mista doveva partire per stabilire il progetto di un accordo al fine di evitare gli urti tra i posti armati dei due paesi e le quistioni doganali.

Dal Purus al japurà. - Il paesaggio è sempre meraviglioso ma non mi è possibile, scrivessi dieci volumi, seguire punto per punto il lungo viaggio, dire le mille e svariate impressioni di tutti i momenti e dare fosse anche una pallida idea delle bellezze ammirate; la foresta ed il fiume hanno un potere ammaliatore che si sente ma non si può esprimere e le loro particolarità sono così fini e così variabili che non si possono descrivere. 

È sempre la corsa nel viale immenso che il fiume apre nel cuore della foresta; ma il bosco cambia continuamente di forma e di natura; le rive appaiono ora cadenti a picco sul fiume, rose dalla corrente che ha messo a nudo una bella rupe rossa, ora tasse e degradanti verso l'acqua che comincia a sommergerle, coperte da un tappeto verde, o da sabbia bianca e sottile; le lagune, i pantani, graziosi igarapè, o piccoli canali, i prati verdi delle savanes, che di tratto in tratto interrompono la foresta, si succedono come in una lanterna magica; le bianche ardee appaiono come nuvolette candidissime che si levano dalle sponde dei laghi; le isole che sorgono da tutte le parti e centuplicano i canali, mille altre attrattive sempre nuove tengono desto l'osservatore non ostante che la mente voglia ripetere ad ogni momento ci è sempre lo stesso paesaggio, perché manca la grande seduzione della montagna. E si succedono anche le confluenze di un numero indicibile di fiumi, alcuni di poca importanza, altri che son laggiù di secondaria grandezza, ma che sarebbero fiumi notevoli in ogni paese, ed altri ancora assolutamente grandissimi.

 Nel tratto Purus-Japurà vedemmo sulla riva sinistra tra g altri, lo sbocco del Copeá che con l'isola che quasi lo sbarra forma un grazioso quadretto; ma più notevoli per numero sori i piccoli torrenti e gli igarapè, di cui molti fanno capo al lunghissimo canale che va quasi da Manacupurù fino al Japurà. Nel tratto stesso gli affluenti della riva dritta, come ad esempio Camarà, il Mamià, il Coary, il Catauà, il Caamè, sono di maggioi importanza.

 Incontrammo anche le solite abitazioni isolate e un discreto numero di paesi: Onory (sul lago omonimo), Codajaz (di una cert importanza), San Francisco Casana (quattro o cinque case con tet di zinco), Camarà (poche case), Drogary, Coary (alla foce d( fiume dello stesso nome, pffi importante dei precedenti e co case ben costruite), Joaquim di Cuanar~, Barro Arto, Ipixumà, Sant'Edoardo Teffè; tutti costruiti su piccole elevazioni e circondati da un bel prato, in cui vedevamo pascolare il poco, ma ottimo bestiame che gli abitanti si danno la pena di allevare. Teffè poi, che sorge tra il fiume ed il lago omonimo era, fino a poco tempo fa, una delle località più importanti dei Solimoes, ma ora ha molto perduto, perché la gente l'ha disertata per andare a cercare la gomma. Conserva però sempre una istituzione assai notevole, la casa dove alcuni padri francesi educano i piccoli indii e ne fanno agricoltori ed operai. La piccola missione è assai fiorente e fa, credo anche buoni affari.

 Alla confluenza del Japurà vi sono molte isole e canali, ma sembra che effettivamente una bocca solamente possa assegnarsi al fiume ora detto, e non già come alcuni volevano, otto, comprendendovi ad oriente, il Codajaz e ad occidente l'Auaty-Paranà.

La parte del Japurà navigabile per le imbarcazioni (a prescindere dalle interruzioni) è di un migliaio di chilometri, il suo o pare che sia assai esteso ed è traversato da numerosi tributari, alcuni notevoli come il Cahuan (lungo 900 km.), altri conosciuti per le solite questioni di confine, ed altri iniport4nti r le comunicazioni con l'Iga e col Rio Negro.

***

Dal Japurà al Juruà. - Dopo Teffè, il primo paesello che incontrammo fu Caisarà, e poiché vidi vicino ad esso due depositi di legna abbastanza grandi, mi fermai per comperarne.

Il paesello è situato verso la bocca di un flumicello e su di una graziosa punta di terra che divide la bocca stessa in due rami, di cui quello di ponente comunica con un lago piccolo, ma assai bello. Un gran prato è al solito, tutto intorno al paese, le case allineate su diverse strade. sono, salvo poche, in legno, e si notano una scuola (quando vi capitai, il maestro spiegava ai piccoli meticci che cosa è l'Italia), una casa municipale e molte rivendite di mercanzie generali, di generi alimentari e di bevande spiritose. Gli abitanti si occupano de' soliti prodotti della foresta (gomma e castagne), ma allevano pure bestiame e non trascurano anche di occuparsi di politica, perché mandano un deputato al Parlamento di Manaos. Pare che tale carica sia assai apprezzata, ed rivali se la contendono a suon di contos di reis. Nell'ultima elezione il fortunato vincitore vestì a nuovo e diede un pranzo ai suoi fedeli, aggiungendovi tutto il liquido necessario per ubriacarli, e tutto ciò non è piccola liberalità, perché nella foresta il vino, anche elettorale, costa caro, e non è applicabile il nostro vecchio modo di dire inventato pei mangioni, perché laggiù non se convenga meglio vestire un individuo o dargli da mangiare. Intanto alle prossime elezioni bisognerà forse aggiungere parecchie cose alle dette liberalità per conquistare i voti, e così finirà re un ottimo mestiere quello di elettore a Caisarà.

Passato questo paese l'Amazzone fino al Juruà non riceve affluenti, importanti; vedemmo invece molte bocche di igarapè specialmente sulla riva sinistra, incontrammo i villaggi di Vista Alegre (una casa con tetto di zinco e diverse capanne), San Francisco di Palheta (pochi casolari con depositi di legna), Uarà (alcune case con tetti di zinco e parecchie baracche con depositi di legna) e Tamanicoa (3 baracche e qualche capanna) e poi giungemmo al Juruà.

Questo fiume è assai importante, non solo per le sue ricchezze, ma per le quistioni di confine. Infatti esso viene da una diramazione della catena orientale delle Ande, ed il suo alto corso, come dissi, è in discussione tra il Perù ed il Brasile. Ha una estensione di 1500 miglia circa, è stato esplorato dai caucheros peruani, e durante la piena le lanchas si spingono fino all'alto corso e propriamente fino al Breu. Tra i suoi affluenti, abbastanza popolati, ricorderò quelli dell'alto corso che sono in discussione tra il Perù ed il Brasile: l'Amuenya, il Tejo, l'Arara, il Breu, il jurua-Miry, e molti di questi sono separati da strette lingue di terra dagli affluenti coll'Ucayali.

***

Dal Juruà all'Ica. - Dopo il Juruà, gli affluenti più importanti sono il Jutahy e l'Ica, ma tra loro ve ne sono altri anche abbastanza notevoli come: (riva dritta) il Manaroà, il Purumi, il Campina, l'Amanapià. Su questo tratto di fiume trovammo i paeselli di Araras e di Fonte Boa (su terra alta con abbastanza case, quasi tutte in muratura) e case isolate, in maggior numero che nei tratti precedenti. Queste in vero aumentano in maniera che si sale a monte, ed è sul Maranon, lo dico fin d'ora, che ne trovammo la maggior quantità.

Il Jutahy ha comune cogli altri tre grandi tributari del Solimoes (il Purus, il Juruà, ed il Javary), la particolarità di avere rive basse ed allagate durante la piena, le acque torbide, moderata corrente e il corso libero da salti e rapide; contrariamente a quanto avviene per i maggiori affluenti dell’Amazzone propriamente detto (Xingù, Tapajoz e Madera) che corrono in un terreno più accidentato e sono perciò interrotti da salti. Fino dal 1.897 le lanchas si spinsero sul Jutahy per oltre 400 miglia, ma il suo alto corso non è ancora completamente esplorato, e quello che se ne sa è dovuto specialmente ai caucheros peruani. E ricco infatti di gomma e caucciù, ed ha affluenti importanti..

Dopo il Jutahy seguitano le solite abitazioni di seringueiros e pescatori, alcune sparse, alt re riunite in piccoli gruppi come quelli di Spirito Santo, di Bom Jardin e di Pararoa. Poco a monte di questo è il difficile passo di Timbotuba (l’isola con l’ostruzione di pavas), segue il paesello di San Gioacchino e poi la confluenza. del Tonantins (riva sinistra) che è il tributario più importante che si incontra prima dell’Ica o Putumayo. Quest’ultimo ha alla bocca, su di una graziosa elevazione di terra, l’interessante paesello, di Sant’Antonio di Ica, possiede boschi molto ricchi di gomma, nasce nelle Ande, a 2° di latit. nord, ha un corso di 1500 km, riceve 36 affluenti, è navigabile per molta parte del suo corso, ed ha molta popolazione di Indi. Nella parte inferiore appartiene al Brasile, alla sua confluenza col Cutubù diviene peruano, e nell’alto corso corre sul territorio della Columbia; tanta diversità di padroni è causa naturale di numerose e difficili questioni.

***

Dall'Ica al Javar. - Passato l'Ica, l'ultimo grande affluente del Solimoes è il Javary, ma prima di arrivarci ricorderò tra gli altri fiumi secondari che incontrammo sulla riva dritta, il Patià, l'Acarua ed il Jandiatuba. Sulla riva stessa che nel tratto in parola è abbastanza alta, vedemmo il pesello di Josè formato da poche capanne, e poi la colonia di Riosana, fondata recentemente da un peruano di Rioja (provincia cisandina), che ha parecchie capanne e una bella casa in muratura del detto peruano. Grazie al commercio della gomma e delle castagne pare che la nuova colonia prosperi bene, e ne avemmo indizi anche dalle terre coltivate che circondavano le case e che apparivano ricche di frutta e verdura, ossia di due cose di cui da qualche giorno difettavamo. Cercai quindi di avvicinarmi per comperare qualche cosa, ma lo scandaglio mi avvertì che non c'era fondo abbastanza per noi, e perciò dovemmo a malincuore, rinunziare alle succolenti banane che in quell'ora calda del meriggio ci attiravano come una gran ghiottoneria, e seguitare il cammino a monte.

Dopo passammo innanzi ai villaggi di Maturà (presso il lago omonimo), di Larangial (parecchie capanne e poche case in muratura), di Correnteza (sole capanne), di Ricreo, di San Joaquin e di San Paolo di Olivenca, che costruito su di una collinetta alta una ottantina di metri è uno dei più importanti del Solimoes. Tutte le sue case sono o appaiono di muratura, ha una chiesa ed uffici per le pubbliche amministrazioni, e, come avviene in tutti li paesi che hanno quest'ultima fortuna, un palo per la bandiera, ed un uomo destinato ad alzarla al passaggio delle navi; per noi quindi il buon uomo fece il dover suo, e circondato dalle autorità cittadine, si tenne pronto a rispondere al saluto che aspettava da noi. I piloti nella loro ingenuità me lo fecero notare, onde io spiegai loro che la bandiera di una nave da guerra risponde ai saluti, ma non saluta alcuno, salvo il Capo del suo Stato, e da quel giorno li vidi scoprirsi con più riverenza quando, il nostro bel tricolore saliva al pick coi primi raggi del sole.

A mezzo la rupe di San Paolo si nota un deposito per le mercanzie, e in basso una officinetta per riparazioni delle lanchas, con argano e catena per tirarle a terra, ed una piccola diga per ripararle dalla corrente durante questo lavoro: nemmeno un cantiere.

Dopo San Paolo di Olivenca trovammo Buon Futuro, Buona Speranza e Nuovo Paradiso, e passando tra la riva sinistra e le isole Santa Rita, andammo a dar fondo innanzi al borgo di questo ultimo nome per imbarcare altra legna.

Il borgo di Santa Rita è costruito su di una piccola elevazione di terra: la casa di un tedesco che è il proprietario del luogo, ed alcune capanne di lavoratori sorgono in mezzo ad un gran prato, ma altre capanne sono un poco più a monte ed altre ancora, di Indi e meticci sono riunite più indietro, nascoste tra le altre.

Il tedesco sopra detto faceva principalmente il seringueiro e teneva la legna per comodità delle barche che si fermavano per comperargli la gomma. A quanto pareva i suoi affari dovevano andare assai bene, ed aveva mandato i suoi due figli a studiare in Germania in ottimi istituti. li maschio anzi stava ancora a sorbire la scienza e la birra nelle vecchie università alemanne la ragazza solamente era tornata da poco. Conservava ancora i vestiti del convento, ed a primo aspetto non destava alcun interesse, ma bastava guardarla negli occhi per sentire una grande pietà per lei. In quei poveri occhi di sogno si intravedeva una piccola anima, satura di tutte le sentimentalità nordiche, e che pareva inseguisse una cara visione lontana, di cui il nostro improvviso arrivo aveva reso più scottante il ricordo. E quando partimmo la vidi a lungo sulla porta della baracca, immobile come una statua; solamente le misere gote, già rose dall'anemia, erano divenute ancora più pallide. Forse la piccola anima si sentiva ancora più sola in mezzo a tutti quegli uomini, quasi selvaggi, che non potevano comprendere le aspirazioni e le nebulosità che essa aveva pensato sotto il cielo della sua grigia Alemagna, e che ora per l'ambizione di altri era costretta a ricordare come un sogno sotto il sole abbagliante dell'equatore...

Assai poco pratica mi pare in vero l'abitudine dei seringueiros di mandare più che a studiare, ad ingentilirsi in Europa, delle. creature destinate a passare tutta la loro vita nella foresta. Per ciò di cui han bisogno, le scuole di Manaos sarebbero più che sufficienti, e mandandoli nella detta città si eviterebbe di farne degli scontenti e degli spostati. Le povere creature, come quelle di cui ho parlato, se non scendono presto dalle nuvole per riprendere le vecchie usanze della foresta ed imparare a servirsi del revolver, subiscono nella foresta mille martiri morali, ed in una notte afosa sono violentate dai seringueiros e divengono le loro schiave.

Profittai della piccola sosta a Santa Rita per fare una gita nella foresta, guidato da un Indo che balbettava qualche parola italiana, appresa ad Obidos, e che mi fece vedere alcuni degli animali di. cui fino allora non avevo sentito, che le grida ed i rumori che facevano la notte, nel bosco, a poca distanza forse da noi, mentre eravamo ancorati.

A proposito di grida non saprei dire se siano più rumorosi le scimmie od i pappagalli, ma il certo è che questi sono belli, mentre quelle sono poco interessanti. E, bisogna aggiungere, la valle amazzonica, mentre è assai ricca di alcuni animali, come gli uccelli e gli insetti per altri, come i mammiferi terrestri, è assolutamente povera.

Tra i detti mammiferi si possono ricordare in primo luogo le scimmie: e le più grandi, Guaribas (scimmia micetis, urlatrice), sono a coda prensile, alte quasi due piedi, e vanno generalmente a coppie. Le altre sono più piccole, e sono cacciate specialmente dagli Indi perché le considerano un cibo delicato. Alcuni negano questo fatto ma ad Iquitos me lo confermarono, ed una sera in cui mi capitò di sentire sulle rive parecchi colpi di fucile, i piloti mi dissero come una cosa nota: sono i seringueiros che tirano alle scimmie.

Tra i carnivori (genere Felis) è notevole l'Onca, che i brasileri ed i peruani chiamano tigre, e gli indi jaguarà: è il giaguaro d'America e ce ne sono di diverse specie. Quelli appartenenti alla più grande, benché non abbiano niente da fare con la magnifica tigre indiana, sono però belli animali, e benchè non attacchino in generale l'uomo, sono dannosi per le stragi che del bestiame, specialmente nell'isola di Marajò.

Il più grosso mammifero però è un pachiderma, noto sotto il nome di tapiro od auda e che ha un embrione di proboscide e buona carne, sono poi notevoli il Capivata, grosso come un cignale col pelo grigiastro e poco fitto; il Pacari o il cignale dell'Amazzonia che sta sempre in numerosa compagnia ed offre una magnifica caccia; il Pacà, simile al maiale e che ha pelo biancastro o rossastro, strisce longitudinali di macchie nere e carne squisita; il cervo, la cui carne è assai buona, e la cui pelle è abbastanza ricercata (dal solo Parà se ne esportarono 67.000 nel 1898), l'Aguti, specie di lepre che può essere allevato in schiavitù; i formichieri con una pelle dal pelo lungo e ruvido, ma, assai bella, ecc.

Ho citato solamente gli animali che interessano il cacciatore e quindi anche i coloni, perché non posso trascrivere qui un capitolo di storia naturale, ma prima di finire ricorderò il topo comune importato dall'Europa, che infesta Parà con gravi danni specialmente come veicolo di infezioni.

Dopo Santa Rita trovammo tra gli altri paeselli Belem, molto grazioso e provvisto anche di una chiesa e di una baracca cantiere in cui era in costruzione una barca abbastanza grossa; Auque, composto di poche case, Guanabarre, e. finalmente Sant'Antonio che è l'ultimo paese brasilero della riva dritta, ed è importante perchè le navi mercantili vi si devono fermare per le operazioni doganali. Così alle 6 pomeridiane del 18 gennaio giungemmo alle foci del Javary, il fiume di confine e penetrammo finalmente nel Perú. Salutai l'avvenimento tanto atteso con un colpo di cannone e ne avvisai l'equipaggio con un grido del primo nocchiere.

Il Javary ha importanza non solo politica, ma anche commerciale; molte baracche costruite alla sua confluenza già accennano al grosso traffico di gomma e caucciù che vi si fa, ma poco più dentro della bocca sorge l'importante paese di Remata de Males, dove si raccolgono molti prodotti della foresta, e dove risiedono ricchi negozianti..

Il corso di questo affluente è di almeno 5oo miglia, ma. non .e ancora bene esplorato. In buona parte è navigabile e raggiunge il terreno famoso dell'Acre, però ha rive paludose, come tutti i posti più ricchi di gomma, e perciò vi domina la malaria.

***

Dal Javary a Iquitos - Dopo Javary. il fiume appariva sempre più bello: il bosco in principio non era molto fitto, ma man mano che avanzava a monte riacquistava la magnificenza del basso corso, col vantaggio che le rive erano in generale più alte, e quindi il paesaggio si mostrava più allegro.

Passammo innanzi al paesello di Suvary, e poi raggiungemmo Tabatinga, l’altro paese brasilero di confine (riva sinistra). Tempo fa era molto importante, perché vi affluivano tutti i prodotti del Maranon: ma da che è sorta Iquitos, la gente l'ha disertato, onde è ridotto ad una stazione militare di confine, con una grossa caserma in muratura sorgente su rupe rossastra. A tale stazione brasilera fa naturale riscontro quella peruana di Letizia, che è separata dalla prima da un vallone e che è frequentata dalle navi mercantili per le formalità doganali, perché le navi stesse nel viaggio di ascesa vi devono imbarcare gli agenti peruani destinati da quel momento a sostituire nella sorveglianza i brasileri.

Dopo Letizia trovammo Loreto, nel passo omonimo (paesello florido una volta, ma ora assai decaduto); Delfos (su di un bel prato), Caballo Cocha (assai importante), San Juan di Comocero (assai piccolo), San Paolo (sopra una rupe abbastanza alta, e con una segheria a vapore ed una fabbrica di acquavite), San Giuseppe, di Peruaté (un puertos, al quale era attraccata una lanchas di cui profittai per mandare mie, notizie a Manaos), Macoris (con una casa di commercio ed una capanna), San Matteo, Mancalate (con un grosso deposito di legna), Bisciana, Sancudo, Calacala, Pebes (diviso in due parti, una poco importante sul fiume, l'altra, quasi una cittadina, dove gli indiani portano gomma e curiosità), Piriquitos, Marupà. Raggiungemmo così la bocca del Napo, l'affluente più importante della riva sinistra del Maranon, sia per la lunghezza del corso e per le sue ricchezze, che per le questioni di confine a cui ha dato luogo coll'Equatore. Il Perù fondandosi sulla "real cedula" del 1802, per la quale era aggregato al vicereame di Lima, tutto il territorio bagnato dagli affluenti settentrionali del Maranon fin dove per salti o rapide cessano di essere navigabili, vorrebbe rivendicare per sè tutto l'antico governatorato di Mainas. L'Equatore invece pretende di arrivare fino al Maranon ed al Solimoes andando a cercare i suoi confini oltre la riva dritta di questo fiume, salvo poi a seguitare a discutere col Venezuela circa il possesso di queste nuove terre. Sarebbe troppo lungo rifare la storia della controversia, della convenzione di arbitraggio del 1887 e del trattato del 1890, non approvato dal congresso peruano; ricorderò solamente che nel 1900 gli Equatoriani mandarono truppe sul Napo per occupare alcuni dei terreni contestati, e che nel 1901 decretarono la formazione di un dipartimento nelle località stesse. Naturalmente il Perù protestò e mandò a sua volta truppe per impedire che fosse alterato lo stato quo, e per occupare Aguarin, al fine di assicurare la sua sovranità sull'alto corso del fiume stesso. Dopo vari incidenti, l'Equatore accondiscese a ritirare il decreto circa il dipartimento, ma tanto esso come il Perù seguitano a lasciare soldati sul Napo, ed il Perù vi tiene, o vi teneva al tempo del mio passaggio, anche una lancha da guerra.

Questi provvedimenti di ordine interno che in ogni paese servirebbero a garantire l'ordine pubblico ed il libero lavoro, laggiù invece sono fonte di gravi pericoli, perché i soldati dei due paesi vengono spesso alle mani. Pare che i più irrequieti siano gli Equatoriani, e che il Perù faccia invece ogni sforzo per calmare gli animi. Sul posto infatti si raccontava che i primi nel luglio 1904 assaltarono i Peruani mentre celebravano la loro festa nazionale, e che da allora in poi le schioppettate si erano ripetute assai spesso sulle sponde del Napo, e mi mostrano a conferma i fori lasciati dalle palle nello scafo di una lancha da guerra. Comunque, sia nel febbraio 1904 era stato firmato un trattato con cui si sottometteva all'arbitraggio del re di Spagna la. grossa questione, e la stampa peruana se ne era mostrata entusiasta, affermando che era fortuna si ponesse termine al noioso incidente di Angotera "insignificante en si mismo, pues se reducio a unos cuantos tiros cambiatos entre una fùerza peruana en Angotera, y unos pocos soldatos ecuatorianos que pretendieron avanzar en territorio que el Perù ha estimado siempre come suyo". Pare dunque, certo che mentre i diplomatici discutevano politicamente, i soldati dei due paesi invece di inoltrarsi nella foresta dandosi la mano per sorreggersi a vicenda e spianare ai loro concittadini la via del lavoro e della prosperità, per incidenti insignificanti, si uccidevano fra loro. Ma la dichiarazione di guerra non c'era stata e non ci sarebbe stato nessuno che doveva darsi la briga di contare i poveri meticci morti, perchè nessuno forse si era data la pena di registrare la loro nascita; quindi mancava ogni documento ufficiale per giustificare lo stato di guerra e ce ne è più ci abbastanza per giurare che regnava la pace.

Passato il Napo, traversammo rive, passi assai difficili, ma circondati da terre belle e popolate ed alle ore 9 del 21 gennaio raggiungemmo l'isola di Iquitos, dove, secondo i piloti brasileni, dovrebbe cominciare il Maranon. Seguimmo il canale tra essa e la riva sinistra (Paranà di Iquitos), stretto, veramente incantevole, e finalmente ancorammo ad Iquitos innanzi la prefettura.

***

La città, edificata su di un terreno elevato circa 15 metri sul livello dei fiume, presenta verso l'estremità settentrionale, ossia dalla parte che prima s'incontra risalendo il fiume, gli uffici della dogana, della capitaneria del porto, con il molo per lo sbarco delle mercanzie, costruito con un sistema in certo modo analogo a quello del piccolo molo di Manaos.

Dopo il molo corre una rupe selvaggia e dirupata, e siccome il canale navigabile si trova presso di essa, arrivando, malamente si vede la città. Ma presto si scopre la parte migliore di questa, perché innanzi la prefettura la rupe è stata tagliata a piano inclinato per oltre 300 metri e aggiustata a gradinata, in modo rudimentale se si vuole, ma sufficiente per non rompersi il collo. Dopo questo piano inclinato il terreno degrada naturalmente verso il. fiume e perciò vi attraccano le lanchas che non trovano posto lungo la gradinata. Al nostro arrivo però ve ne erano poche perché era la stagione in cui navigano sugli affluenti, ma mi dicevano che spesso se ne vede una fila lunghissima. Più innanzi ancora, dove la costa comincia a piegare a levante è il posto delle balze; ce ne erano parecchie; la gente che le aveva portate in giù seguitava a viverci aspettando di vendere le sue mercanzie od il suo bestiame; dopo le avrebbe abbandonate come di nessun valore, per risalire il fiume in lanchas o canoe. Non è a credere che la ripartizione della riva a cui ho accennato sia imposta da un regolamento; è il caso o la convenienza che l'ha fatto adottare, ché anzi fino a poco tempo fa quasi nessuna norma regolava la navigazione i mercanti facevano perciò i comodi loro e si ricorda sempre, a proposito del disordine con cui partivano i vaporini fluviali, la fine della lancha Amazonas carica di passeggeri (oltre 200) che investì perché capitano e pilota dormivano con tutta la gente.

Il nuovo prefetto ed il capitano del porto stavano cercando di mettere un poco di regola in tutto ciò; per loro ordine ogni lancha doveva avere due piloti inscritti in capitaneria, non imbarcare gente e robe oltre certi limiti, pigliare provvedimenti per garantire e tenere in certo modo al riparo gli esplosivi che trasportava, disporre con criterio logico il carico e finalmente sottostare prima di partire ad una visita del capitano del porto e ad una piccola prova per dimostrare praticamente. che i suoi organi principali funzionavano bene e che poteva accostare senza acquistare inclinazioni pericolose. Eppure non si crederebbe, i cittadini e specialmente i rappresentanti della civiltà europea strepitavano contro questi provvedimenti in nessuna maniera gravosi e cercavano discreditarli col ridicolo che il capitano del porto aveva scambiato Iquitos per un gran porto di mare. Ma essi erano scottati dal fatto che non potevano più sovraccaricare le loro lanchas, ridendosi dei pericoli della vita e delle robe dei passeggeri, perché la proprietà loro era assicurata. Anzi, anche la perdita delle lanchas, cariche per esempio, di gomma, poteva essere una fonte di guadagno, perché le assicurazioni si fanno supponendo la gomma stessa tutta di prima qualità. Una volta assicuravano anche i valori che portavano per gli acquisti, ma ora le società non ne vogliono più sapere, perché sono venute a conoscenza che in generale il denaro delle lanchas affondate era sempre rimasto a Parà, a Manaos o ad Iquitos all'atto della partenza.

Lungo la riva del fiume corre una discreta strada (il Malecon) ed in essa ed in quella seguente, Via Prospero, si svolge quasi tutto il commercio e si trovano le migliori case in muratura di Iquitos. Nel Malecon si notano anche la prefettura, specie di caserma, a cui si spera di aggiungere un secondo piano, un'officina meccanica governativa, ed il mercato, ossia i tre soli edifici del governo. Gli uffici amministrativi, il tribunale, le scuole e le carceri sono allogati alla meglio in case private, ma sull'isola di Iquitos vi è anche una specie di lazzaretto che appartiene allo Stato. Tutte le strade sono tracciate parallelamente o normalmente al Malecon, ma solamente tracciate, perché, salvo alcuni tratti molto limitati, ed una specie di marciapiede lungo le case, nel resto l'andamento generale del terreno, che per fortuna è abbastanza piano, non è stato alterato. Si è avuto cura solamente di toglierne tutti gli alberi, forse perché sarebbe stata una bella ed utile cosa lasciarne almeno una fila. Anche nelle altre strade sono molte case in muratura, ma sono costruite come quelle del Brasile. e quindi ne hanno tutti i difetti. Due sole avevano uni, certa struttura razionale (furono acquistate nel nord America), erano in ferro e legno con portico e veranda, ma credo che avrebbe dovuto formare una casa sola, e per farne due avevano lasciata una facciata senza veranda ed alterato il sistema di aerazione.

Seguitando verso l'interno del paese, alle case in muratura succedono le vecchi e abitazioni o le capanne di legno e canna, con tetti di palma. Ma ciò non deve meravigliare, anche nelle colonie inglesi quelle specie di casse da imballaggio, dove vivono i neri e che sono inferiori alle capanne ora dette, si trovano spesso interposte tra i graziosi cottages dei bianchi. A complemento di questo piccolo cenno di Iquitos aggiungerò che non esistono fognature, non vi sono condutture di acqua potabile e per bere la gente benestante manda, a rifornirsi ad una sorgente fuori città, ma la povera gente ricorre, con poco rispetto dell'igiene, ad una sorgente, certamente inquinata, presso la prefettura. Ed a proposito di igiene dirò che il solo medico vero locale quando noi giungemmo, era partito per l'Europa, onde sul posto restava un praticante columbiano; eppure la salute pubblica era buona. Pare che dominino sul posto la malaria, che però si contrae specialmente in località fuori di Iquitos, il vomito nero, sinonimo di febbre gialla, che attacca specialmente. i nuovi arrivati se non fanno vita regolare e comoda, come avviene dei soldati che scendono dalla montagna, e la dissenteria che è caratteristica dei paesi tropicali; ma è da ritenere che tali. malattie non siano molte estese, perché la popolazione locale (l'immigrazione esclusa) è in continuo aumento, per quanto manchi ogni cura.

***

La buona popolazione di Iquitos venne tutta sulla riva per assistere al nostro arrivo; gli Italiani (50 circa) ci salutarono con entusiasmo da terra, perché non c’era sul posto, un mezzo per venirci incontro, ed appena ancorati il prefetto mi mandò le più alte autorità locali per ossequiarmi ed offrirmi i suoi servigi Anche la colonia, appena fu possibile, mi mandò i suoi complimenti per mezzo dell'agente consolare francese che reggeva anche il nostro consolato, e del sig. Delle Piane, che mi chiese quando volevo ricevere i connazionali.. Buona e brava gente, i nostri colono fanno ogni sorta di strepito a tempo perso, prendendo i più strani, atteggiamenti politici, ma all'apparizione della bandiera nazionale, si riuniscono come un sol uomo per applaudire alla patria ed al Re e, cosa più notevole, riescono anche ad essere disciplinati. Naturalmente mandai subito a prendere tutti quelli che volevano venire e seppi che erano in tutto una cinquantina, ma che su pel fiume ve n'erano altri di cui qualcheduno in assai buone condizioni finanziarie. Anche quelli di Iquitos facevano in generale buoni affari: i più fortunati tenevano negozi di mercanzie generali, uno esercitava una trattoria (la migliore del paese), altri erano impiegati nei negozi stessi degli Italiani o lavoravano come operai. Tra questi ultimi ve ne erano alcuni assai bravi, e tutta la colonia godeva ottima fama ed era molto stimata. Un sol male, ma assai grande la rodeva: le discordie intestine prodotte da cause futili o, doloroso a dirsi, da regionalismo; ma al mio arrivo le cose erano un poco calmate, e mi auguro che la nostra presenza abbia portati buoni effetti. Mezzo di pace appariva la saggia istituzione di una società di beneficenza: fondata nel 1901, aveva già un discreto capitale e contava soci non solo italiani, ma anche stranieri (in totale 97) perché tutti desideravano di appartenervi. Da questa società partirono gli inviti per noi ufficiali e per i marinai; furono feste semplici, ma indimenticabili per l'affettuosità e l'entusiasmo che vi regnarono sovrani. lo ne serberò sempre vivissimo il ricordo, e vorrei che, come in quella sera, i nostri bravi e laboriosi coloni restassero sempre uniti nell'amore della patria lontana, per sostenersi a vicenda e riuscire vittoriosi nella, grande e nobile battaglia del lavoro che combattono in quella vergine terra.

Anche il prefetto signor Fuentes fu per noi ospite assai gentile, ed insieme coi suoi concittadini ci offrì banchetti e un ballo. Tutti poi, Italiani e Peruani vennero a bordo a brindare alla grande madre Italia ed al paese che così affettuosamente ci aveva accolti.

Il dipartimento di Loreto, di cui Iquitos è la capitale, comprende 5 provincie: Mojabamba, Alto Amazonas, Bajo Ama. zonas, San Martin e Ucayali; confina al Nord con le repubbliche dell'Equatore e della Columbia, che tante quistioni di confine hanno sollevate col Perù, all'Est con il Brasile che trova sempre nuove ragioni per estendere il suo dominio dalla parte del Perù stesso; e dagli altri lati con altri dipartimenti peruani. Tra questi è il più esteso, e potrebbe essere anche dei più ricchi se fosse convenientemente coltivato, e se avesse la popolazione a tal uopo necessaria. Ma mentre la sua superficie supera quelle della Francia, della Svezia, del Belgio, dell'Olanda e della Danimarca riunite insieme, non ha che 20.000 abitanti (circa 0,16 abitanti per kmq.) dei quali buona parte vivono nelle principali città (Iquitos 14.000, Mojabamba 7000, Tarapoto 5000, Saman, Yurimaguas, Rujo) e 30.000 si valuta che siano gli indi selvaggi. Ma quest'ultima cifra è semplicemente approssimata; nessuno ha mai contato gli abitanti dei boschi; si ha solamente qualche nozione di quei pochi che sono in relazione con i bianchi, vivono in vicinanza dei fiumi secondari, e diminuiscono annualmente, avvelenati dai cattivi liquori che i bianchi stessi offrono loro in cambio di gomma ed altri prodotti della foresta. […] (pp. 197-203)

L'agricoltura nel dipartimento di Loreto non è molto più avanti che nell'Amazzonia; però, non ostante che quest'ultima abbia leggi e disposizioni assai più vantaggiose per il suo sviluppo e per attrarre gli emigranti, per le considerazioni generali che avrò da fare a proposito delle leggi stesse e per una certa maggiore solerzia dei cholos peruani, quello che si vede lungo il fiume fa pensare che nel Perù la terra sia un po' più curata. E si può aggiungere che in tutti i seringal si vanno formando coltivazioni di banani, yucas (manioca), mais, fagiuoli, riso, ed in alcune si comincia, con buoni risultati, l'allevamento del bestiame e si coltiva la canna da zucchero per fare acquai, vite (se ne producono litri i 620.000 annualmente nel dipartimento di Loreto). Nelle vicinanze di Iquitos alcuni emigranti hanno coltivato orti, e ne hanno ottenuti buoni risultati, anzi un italiano vi traeva grandi utili da un pezzo di terra di pochi metri in cui coltivava insalata. E ciò non deve meravigliare, perché senza arrivare ai prezzi favolosi di Manaos, la verdura, quando c'è, si vende carissima e si fa pagare 50 centesimi una cattiva lattuga. La pesca è trascurata come nell'Amazionia e, tolta la cattura del pesce da. salare e delle tartarughe nei limiti che servono all'uso locale, non si pensa quasi ad altro, onde al solito, non ostante la ricchezza del fiume, è difficile trovare sul mercato un poco di pesce.

Industrie non esistono, a meno che non si voglia ricordare la manifattura dei famosi cappelli di Panama o meglio di Chile come dicono là, fabbricati a Moyatamba, Rima e Lamas, due fabbriche di mattoni e tegole, una di sigarette, una di ghiaccio, due segherie a vapore, una privata (a Puritania), l'altra dello Stato, per preparare il legno (cedro) che occorre per le casse di imballaggio della gomma e le vendite della legna da ardere. Vi è poi il piccolo arsenale militare di cui parlai, vi sono anche un'officina della Casa Wische, che come l'arsenale, può fare lavori di qualche importanza, quando ci sono gli operai e altre officinette per piccole riparazioni alle lanchas.

La città oltre la società italiana di beneficenza sopra citata, aveva tre giornali, di uno umoristico che un italiano scrive e stampa per avvolgervi le sigarette della sua fabbrica, la società di beneficenza pubblica di Iquitos, una sezione della Società geografica di Lima (Centro geografico), un club "Iquitos" e 6 scuole (non vi sono quasi analfabeti).

 

Da lquitos a Santa Fè - Siccome la mia macchina aveva bisogno di qualche rettifica e riparazione, decisi di farle ad Iquitos, perché la colonia potesse godersi il più a lungo possibile la nave che l'aveva tanto entusiasmata.

Intanto feci i preparativi e cercai di proseguire a monte: il repiquite di cui parlai aveva resa pericolosa la bocca meridionale, del Paranà d'Iquitos, e perciò lo feci scandagliare a lungo, e finii col trovare un passo stretto, ma navigabile. Cosi potetti il 28 gennaio ricominciare salire il Maranon; la costa ivi parve più abitata che nelle parti precedenti e mi assicurarono che verso l’huallaga e nell’Ucayalli le abitazioni sono anche più fitte, e le piccole coltivazioni più prospere Intanto vedo i villaggi di Angagni, Bella Vista, Tarapota, Progresso, San Raffaele, Sant’Anna, San Giorgio: erano gruppi di abitazioni alle volte abbastanza numerose, composti principalmente di capanne, ma avevano aspetto grazioso e ridente per i ricchi prati e le coltivazioni che le circondavano e per la bellezza dei dolci pendii sui quali sono costruiti.

Al tramonto del 28 stesso diedi fondo presso San Giorgio ed all'alba del 29 ripigliai l'ascesa. Il fiume diventava sempre più interessante, la costa era abbastanza alta ed i villaggi assai numerosi. Incontrammo Omagnes, Pancarpata, Puritania, importante per le sue segherie, e Nazaret del Maranon. Dopo questo villaggio raggiunsi l'Ucayali, la cui riva sinistra verso la confluenza, è divisa da quella dritta dal Maranon mediante una sottile striscia di terra che finisce in una punta bassa, cuminata e sabbiosa. Si discusse molto se quello che ora chiamasi Ucayali fosse un fiume a parte o la vera continuazione dell'Amazzone, e per quanto la scienza conchiudesse col relegarlo tra gli affluenti, per i Peruani esso è più importante dell'ultimo tratto del Maranon, perché ha maggiori ricchezze, ed è via commerciale più importante; invero si potrebbero attirare su di esso i prodotti di terre ricchissime di gomma, specialmente se in un definitivo assetto dei confini restassero al Perù gli alti corsi dei fiumi Purus, Yuruà, ecc. Quasi alla confluenza ora detta, vedemmo dietro l'isola di Pairoti il paesello omonimo con una distilleria abbastanza importante, e poi (ore 13,20) passammo innanzi a Sant'Ignazio sull'isola dello stesso nome, ed a Nauta che resta un poco più indietro ed ha una discreta importanza. Subito dopo trovammo un’isola senza nome; pensai di darle quello di Dogali, in ricordo della prima nave grande che le passò davanti. ed al ritorno ad Iquitos il prefetto mi promise che il nome sarà conservato per simpatia a noi e all’Italia nostra.

Incontrammo poi i villaggi di Casual, sparso graziosamente su piccole colline, e di Sorepanga e Analmente giungemmo a Santa Fè alle 15,40 del 29 gennaio. Ivi diedi fondo e mi recai subito a terra per visitare quell'estremo lembo di terra peruana che ci era dato vedere, perché oramai la proprietà delle acque la strettezza dei canali non permettevano assolutamente di andare più innanzi.

Santa Fè è composta di quattro o cinque capanne che sembravano tutte chiuse e disabitate, meno una dove ci ricevettero due donne ed un bambino. Mi fermai un poco a discorrere con loro, e parve che il nostro contegno facesse scomparire la paura destata dall'arrivo di una nave così grossa, perchè le altre porte si aprirono ad una ad una, e nell'accomiatarci dalle nostre ospiti, mi trovai circondato da una frotta di donne e bambini. Non c'erano uomini, perchè lavoravano nella foresta, e vidi con piacere che oltre alla gomma pensano a coltivare la terra, e con balze e canoe ne portano i prodotti ad Iquitos.

Tornato a bordo, salpai e volsi prora a valle, mentre riunivo il mio equipaggio, per rammentargli che, avendo avuto fede nella Provvidenza e nella Stella d'Italia, le nostre fatiche erano state ricompensate, poiché avevamo raggiunto Santa Fè a 2285 miglia, dal mare, dove mai era arrivata altra nave, e che era quindi doveroso mandare da questo remoto angolo della terra il nostro devoto saluto alla Patria ed al Re. E la eco della foresta ripetette giulivamente i colpi di cannone con i quali salutai l'avvenimento, ed il gran grido di "Viva il Re" partì dai miei buoni marinai.

 

Il ritorno da Santa Fè al mare. La corrente oramai invece di contrastare il cammino, lo facilitava; tanto che potevamo correre a 16 o più miglia all'ora. Cosi alla sera del 29 gennaio stesso eravamo di nuovo a Sant'Ignazio; ivi diedi fondo, e per avere un ricordo ufficiale del nostro passaggio, feci vidimare dall'impiegato del porto di Nauta il messaggio con cui il prefetto d'Iquitos ordinava a tutti gli impiegati del fiume di mettersi graziosamente a mia disposizione. L'indomani 30 ripresi di buon'ora la rotta, che oramai doveva riportarmi ed mare, al buon mare di cui sentivo, da che avevo raggiunta la meta, vivissima la nostalgia. La sera era di nuovo ad Iquitos e il 3 febbraio ne ripartii, toccando successivamente nei seguenti porti: presso l'isola Breo, a ponente dell'isola di Loreto, sulla costa SE della più a levante delle isole Caldeirao, all'estremità occidentale della costa Maturà, presso l'isola Santo Spirito, all'estremità orientale della costa di Palheta, all'ovest di Ipixuma, presso la costa Morieru, e finalmente a Manaos alle ore 5 pom. dell'11. Restai in quest'ultimo porto fino al 16 per gradire le feste preparateci dal Governatore, e per rifornirci di viveri e carbone. Contrariamente a quanto era avvenuto nel Solimoes, trovai l'Amazzone in piena, ma causa le piogge dirotte che portavano molta foschia, fui costretto ad ancorare la notte successivamente presso l'isola Trinidad a 6 miglia circa a valle di Obidos, all'ovest di Itautuba ed a Yaya fuori il passo di Bujassù.

Come già dissi, nella discesa potemmo correre verso il mezzo del fiume ed inoltre per la ragione contraria a quella che ce lo aveva consigliato a monte, ossia per accorciare cammino, profittando della piena, cambiammo diversi canali e cioè intorno alle isole da Serpa e di Asgasse seguimmo la riva sinistra invece della dritta come avevamo fatto salendo, ed intorno all'isola Maracas seguimmo invece la riva dritta.

Il 22 finalmente demmo fondo a Musqueiro alle ore 10, evitando Parà, dove infieriva la peste, e ripartii poco dopo per il mare.

Ma la notte non fu possibile proseguire causa la pioggia e la nebbia e dovemmo ancorare nel Parà a NW di Colares; perciò solamente il giorno dopo, 23 febbraio, uscii dal, fiume, dopo di esserci stato 74 giorni, durante i quali avevo percorso oltre 4550 miglia in acque dolci e più bionde di quelle del Tevere.

 

Il commercio e l'emigrazione nell'Amazzonia - Nel Brasile la popolazione attuale, scrive il Brasileno barone di S. Anna Nery, è il prodotto dell'incrocio delle tre razze: bianca, color di rame e nera; la prima ha fornito il fattore più importante dal punto di vista sociale e politico, la seconda è stata predominante nella Amazzonia dal punto di vista etnografico, e l'ultima nell'Amazzonia stessa ha avuto minore influenza. Ed allo stesso proposito l'Agazis, il quale aveva fatto prima la stessa osservazione, nei suoi importanti studi sull'Amazzonia, aggiunge che tali prodotti lasciano molto a desiderare dal lato sociale, ed una forte e sana' emigrazione sarebbe necessaria per portare il paese all'altezza che gli compete.

Gli emigranti non trovano ora tutte le facilitazioni che le leggi loro promettono, ma le necessità del paese dovranno inevitabilmente far cessare questo stato anormale di cose, e costringeranno gli abitanti a rendere le loro terre propizie a quella folla immensa di emigranti (un milione e più) che ogni anno si dirige verso il nuovo mondo e che è costituita per oltre un terzo da italiani, spagnoli e portoghesi. Questi ultimi sono predominanti nell'Amazzonia, perché hanno per loro i vantaggi dei vecchi legami, e della lingua; ma non bisogna dimenticare che importante assai in Brasile è anche l'emigrazione dei tedeschi.

Nè bisogna pensare che questi ultimi preferiscano le parti meridionali perché più temperate; la scelta di Santa Caterina fu inspirata da altre ragioni di opportunità, le loro mire verso l'Amazzonia già si accentuano, e noi quindi dobbiamo affrettarci ad agire per non trovare occupati i migliori posti.

I paesi adatti all'emigrazione sono: l'Australia, gli Stati Uniti del Nord America, il Canada, l'Argentina, le Guiane ed il Brasile; ma l'Australia è lontana troppo, il Canada promette più di quello che può date, l'Argentina è già stata troppo utilizzata e gli emigranti che arrivano negli Stati Uniti del Nord America incontrano gravi difficoltà, perché quelli già ivi stabiliti contrastano la loro concorrenza, e perciò spesso sono schiacciati dalla miseria, oppure per le grandi forze e vita del paese sono da questo assorbiti, onde si allentano i legami con la madre patria. Anzi i giovani ed i nati nel paese spesso la dimenticano completamente, e cambiano nazionalità ed unicamente pel nuovo paese di adozione lavorano. E’ bensì giusto che l'emigrante debba essere utile al paese che l'ospita e mostrargli affetto e riconoscenza; ma col suo lavoro ha modo più che largo per dimostrare questi sentimenti, anzi dà assai più di quello che riceve, quindi avrebbe il dovere ed il diritto di conservare la sua nazionalità materialmente e moralmente e seguitare a riuscire utile alla vera patria, facendovi. affluire i suoi risparmi, sia serbando con essa quelle larghe relazioni che facilitano l'estensione del. suo commercio col paese in cui risiede.

E poiché ciò non accade negli Stati Uniti, bisognerebbe lasciare un poco da parte questi, per rivolgersi con maggiore interesse alle Guiane ed al Brasile. Del1e prime già dissi; mi occuperò del secondo, ma specialmente della sua parte nord e meglio dell'Amazzonia che è la meno conosciuta e, che, per quello che dissi, se l'agricoltura, che ora è più indietro di un secolo fa, vi rifiorisse ed accanto alle fattorie ed ai seringaes sorgessero le officine, non avrebbe rivali. Ma poiché ne il clima ne le mal possono spaventare gli emigranti e poiché i vantaggi e le ricchezze che presentano queste terre sono enormi, risulta chiaro che devono esistere altre cause che impediscono l'emigrazione. Certo ha grande importanza il fatto già citato, che l'Amazzonia è poco conosciuta al dire degli scrittori locali, dai brasileri stessi, ma è predominante l'influenza delle condizioni politiche e morali del paese.

Lo sfruttamento della gomma ha fatto disperdere la popolazione nelle foreste, impedendo la formazione di centri agricoli stabili, e provvisti quindi di quelle garanzie verso gli individui che possono offrire i comuni civilmente organizzati, e che assicurano da una parte l'emigrante isolato contro il pericolo di venir confuso con le razze inferiori o di diventare lo schiavo del patron seringueiro, e garantiscono meglio dall'altra la vita dell'emigrante facilitando il suo adattamento organico al paese ed il risanamento scientifico delle località. Ogni sforzo quindi dovrebbe fare il paese perché tali centri si stabilissero, lungo le rive però dei grandi fiumi, perché in generale esse sono salubri, mentre le terre in cui abbonda la gomma sono paludose e vi infieriscono la, malaria ed il beri-beri. Il colono europeo quindi che volesse dedicarsi all'agricoltura, potrebbe accorrervi circondato da ogni garanzia e sicuro di buoni guadagni, perché quelle terre sono molto fertili, ed i loro prodotti sarebbero ricercati, e facilmente avviati in ogni direzione per la facilità delle comunicazioni offerte dai fiumi medesimi. Ed il detto colono avrebbe infinite altre risorse, come l'industria del bestiame, delle api, delle fibre tessili, delle castagne, del legname, e fin anche delle orchidee, ed infine potrebbe, a tempo perduto, tentare quella famosa coltivazione delle hevee, alla quale un giorno bisognerà ben venire.

Esistono in verità disposizioni legislative assai liberali per gli stranieri in genere e per gli emigranti in specie, ma la realtà non corrisponde alle parole scritte; i coloni non ottengono nulla delle mirabolanti cose promesse, ed arrivati nelle così dette colonie agricole sostituiscono gli schiavi. E tra tutte le schiavitù la più terribile è quella che si esercita nei seringaes, perché i padroni difficilmente liberano i disgraziati che capitano nelle loro mani e che la foresta s'incarica di tener prigionieri. Purtroppo una parte di quei disgraziati che furono trasportati nell'Amazzonia e dalla Ligure-Brasiliana e che non si sa quanti siano stati, perché non s’iscrissero al Consolato, devono esser finiti nella foresta, ed importerebbe che fosse ben nota a tutti in Italia e che fosse gridata, direi, da tutti i campanili della penisola la triste sorte riservata ai nostri contadini che, lasciandosi guidare dal caso, vengono al Brasile. Ed invero quelli che si dirigono nelle provincie meridionali sovente vanno a sostituire materialmente e moralmente gli schiavi africani, e quelli che vanno al nord possono diventare schiavi assieme agli Indi nella foresta, o nella migliore ipotesi lavorare insieme coi neri come facchini.

Certamente le cose andrebbero diversamente per le piccole comitive di contadini che si recassero nell'Amazzonia provviste di un piccolo capitale, ma la nostra emigrazione non ha queste risorse e perciò questo metodo, certamente molto rimunerativo, di colonizzazione non la riguarda. È facile però rimediare a questo inconveniente, ché quanto dirò in proposito vale non solo per l'Amazzonia, ma anche e più specialmente per le provincie cisandine del Perù, perché offrono clima e condizioni generali spesso più favorevoli all'emigrante, e perché le simpatie che i suoi abitanti bianchi hanno per l'Italia farebbero meglio gradire l'opera nostra e renderebbero più facili i nostri tentativi4 colonizzazione verso la valle Amazzonica.

Bisogna premettere che gli operai si trovano in condizioni diverse da quelle dei contadini e possono con profitto immigrare fin d'ora nell'Amazzonia, perché, essendovi tutto in formazione, l'opera loro è assai ricercata, quindi i muratori, i fabbricanti di mattoni, i fornaciari, i manovali, gli scalpellini, i lattonai, i coltellinai, gli arrotini, i pittori, i calafati, gli imballatori, i garzoni, i funaiuoli, trovano immediato, facile e rimunerativo impiego; cosi pure avviene per i cuochi, i domestici, i caffettieri, i pasticcieri, i trattori, i barbieri e simili, e finalmente il grande sviluppo della navigazione fluviale rende molto ricercati gli operai meccanici e i macchinisti. Ma perché i lavoratori anzidetti potessero facilmente avviarsi nell'Amazzonia, occorrerebbe stabilire con quelle terre una linea di navigazione nostra, ed a ciò dovrebbero spingere i grandi vantaggi che si ricaverebbero, estendendo il nostro commercio sulle terre medesime.

 La Ligure-Brasilera tentò l’impresa, ma siccome non la tentò bene, dovette ritirarsi e la gente, poco edotta delle cita questo fatto come un precedente atto a sconsigliare altri tentativi. Ma se si pone mente che l'Amazzonia domanda all'estero tutto quanto occorre per la vita umana e che dal Mediterraneo viene molta merce, non ostante le difficoltà delle comunicazioni, si comprende che una linea di vapori in partenza da Genova dovrebbe fare buoni affari perché le più facili comunicazioni toglierebbero gli ostacoli opposti finora alla diffusione dei prodotti non solo italiani, ma di tutto il Mediterraneo. E per convincersi di ciò basta osservare che molte merci nostre arrivano sull'Amazzonia per la via di Francia e sono richieste in Francia e che molte altre sono spedite con una maschera forestiera. A queste considerazioni si risponde come ho detto che la Ligure-Brasilera effettivamente trasportava oltre i passeggeri i nostri principali prodotti agricoli e manufatti, come vini, oli, agrumi, riso, farine, paste e conserve alimentari, frutta secche, aglio, zafferano, aceto, liquori, acque minerali, burro, formaggio, latte condensato, confetti, profumerie, medicinali, prodotti chimici, drogherie, salumi, cartucce per fucile, orologi, zolfanelli, cappelli di seta e di feltro, coralli, dipinti ad olio, filati di seta, di lana e di cotone, oggetti di cancelleria, stampe, libri, porcellane, ceramiche e mobili artistici, pizzi, ricami, specchi, pianoforti, cappelli di paglia, chincaglierie e giocattoli, scarpe ed oggetti di calzoleria, seterie, cristallerie, cordami, cornici, lavori da valigiaro e in pelle, ombrelli, marmo e lavori in marmo, statuette in gesso e in terracotta, sapone, sego, spugne, spazzole, tappezzerie, armi, aghi, crine animale, strumenti musicali e chirurgici, conterie di Venezia, zolfo, carta d'imballaggio, candele, caratteri tipografici, cuoi, oggetti di metallo, tubi di ghisa, di ferro e di piombo, cavi metallici, asfalto, cemento, tegole, mattoni, lavagne, marmo in blocchi, ecc., e ciò non ostante trasporta quel poco come appare dal quadro seguente […] (p. 211)

Ciò però avvenne perché - taccio gli errori - la società come tante altre credette che l'emigrante fosse la mere rimunerativa, rese molto irregolari i suoi viaggi e quindi disgustò i clienti, accettò una sovvenzione dei paesi Amazzonici , ciò che le tolse ogni iniziativa, si immischiò di politica e volle diventare essa stessa commerciante, trasportando per suo conto quelle merci che le parevano più ricercate. È chiaro quindi, che, prima di stabilire una nuova linea, bisognerebbe assicurarsi gli affari coll'istituire vere case di rappresentanza e di commissioni incaricate anche di raccogliere e di formare un campionario delle merci che hanno facile smercio laggiù, e mandarlo in Italia per cercare di produrre le merci stesse a prezzi di Concorrenza. Quando ciò riuscisse, e quando fossero con questo mezzo assicurati il traffico ed i clienti, si dovrebbe fondare la società di navigazione, non perdendo di vista che la preparazione è necessaria anche per presentarsi bene agguerriti alla lotta che impegneranno le società già esistenti e specialmente la Booth che vorrà difendere il suo vantaggioso monopolio. E sarà una lotta tremenda, ma si finirà col vincerla se si avrà costanza e serietà, ed alla vittoria contribuiranno anche i passeggeri che sono stanchi dei disagi degli attuali vapori, e sanno come si sta bene sui nostri. L'obbiezione che i vapori in partenza non troverebbero carichi sufficienti, non deve spaventare, sia perché quelli in andata sarebbero largamente rimunerativi, sia perché presto l'Amazzonia dovrà esportare qualche cosa di più della sola gomma, ed anche ora esporta, per esempio, cacao ed altro e con facilità potrebbe venire iniziato il commercio dei legnami fini e da costruzione. Inoltre ci sarebbe subito un mezzo per riparare a tutto, e sarebbe quello di legare la nuova linea transatlantica con le Guiane e l'America del Nord.

Non mi dissimulo la gravità della questione cui accenno, ma ho la sicurezza che essa sì possa risolvere, e che si possa riuscire quindi ad aprire una facile via agli operai che diretti nel Sud America, con serio accorgimento potrebbero fermarsi nell'Amazzonia. Qui, grazie ai buoni guadagni ed alle loro abituali virtù di sobrietà. e di parsimonia, potrebbero in breve. fare delle piccole economie e mettersi in grado di trasformarsi presto in commercianti, imitando gli esempi precedentemente citati di quelli che si stabilirono ad Obidos ed a Santarem. Potrebbero così in quella schiera di piccoli venditori di mercanzie generali che ha fatto così buona prova nelle località ora dette, e invadere tutte le cittadine del fiume e degli affluenti. sarebbe compiuta a favore della nostra energia la conquista morale del paese ed allora solo i nostri contadini potrebbero avviarsi all'Amazzonia. Mai però dovrebbero farlo di loro iniziativa, ma dovrebbero essere singolarmente invitati e, contrattati dai loro compaesani divenuti commercianti per fare piccole coltivazioni, come già dissi parlando di Obidos e di Santarem. Ciò sarebbe facile, perché i guadagni realizzati, per piccoli che siano, mettono quei commercianti in grado di far coltivare da qualche contadino la terra vicina alle loro dimore e quindi diventerebbe possibile la fondazione di tanti centri agricoli intorno ai centri commerciali dei nostri coloni, il che farebbe la fortuna del paese e della nostra emigrazione.

Quando questo sistema si estendesse e si allargasse, l'aiuto reciproco potrebbe esercitarsi anche dai contadini già stabili rispetto ad altri che essi stessi potrebbero chiamare. Si fonderebbero in tal modo delle vere e proprie società agricole cooperative tra italiani, le quali avrebbero anche il vantaggio di cementare i sentimenti di nazionalità e patriottismo e di rendere più facile la sorveglianza e l'azione protettrice del governo, eliminando così per sempre i tristi fatti sopra detti.

Ma molto lavoro occorre per ottenere tutto ciò, e se le cose per ora procedono diversamente, è perché in generale gli emigranti lasciano il paesello natio spinti dalla miseria, e si dirigono in America, solamente perché sentono dire che vi si mangia facilmente. Ignoranti di tutto ed incapaci di scrivere anche il loro nome, appena la nave che li porta lascia gli ormeggi, si spezza anche per loro ogni legame con la terra natia. Molti infatti non danno più notizie, vivono alla giornata e spesso ignorano anche che vi è un uomo, un console, che rappresenta il loro paese e che può aiutarli e proteggerli occorrendo. Altre volte invece ne conoscono l'esistenza, ma hanno sospetto che. non serva a niente e che è meglio tenersene lontani, specialmente perché vi è gente male intenzionata che ispira loro questi sentimenti, con lo scopo di isolare l'emigrante per meglio dominarlo. Quando esso infatti si trova solo nella miseria e nelle difficoltà, per inerzia o per stanchezza si lascia facilmente sedurre dagli infami demagoghi o dai mestatori. Vissuto sempre nell'ignoranza delle leggi civili e morali e della grandezza della patria, perché il parroco od il maestro per dimenticanza o a bella posta non glielo insegnarono, non è al caso di discernere il male dal bene e finisce col credere a quei demoni che sono i primi ed i soli che gli parlano da amici. Ed egli, mentre è inconsciamente ammalato di nostalgia, sente un refrigerio da quelle parole, onde solamente perché è avido di vita, succhia la fonte del male, con la stessa facilità che avrebbe assorbita quella del bene, ed inconsciamente può prepararsi a divenire uno dei peggiori adepti delle associazioni sovversive, perché proprio per la sua ignoranza e la sua semplicità può riuscire un istrumento terribile nelle mani di chi si è impadronito della sua anima, per trasformarlo in delinquente. Ma anche quelli che, per essere più illuminati e meglio preparati alla lotta, si salvano da questo contagio malaugurato, si credono sempre abbandonati dalla patria e perciò non pensano più a lei al punto di dimenticare anche la propria lingua, onde mi capitò di dover parlare in portoghese per farmi intendere da qualcuno di loro che lavorava da facchino a Manaos, Ed avevo la prova di tutto ciò anche osservando la maraviglia da cui molti erano colti quando vedevano apparire la mia nave che faceva risplendere al gran sole Amazzonico la nostra gloriosa bandiera, quasi come un sorriso ed una promessa della grande madre lontana. Ma la dolorosa enumerazione dei mali delle nostre colonie non è ancora completa, ché molti ve ne sono ancora e tutti richiedenti rimedi urgenti; qui però mi basta ricordare i più tristi e forse ancora i più gravi, e cioè il campanilismo e le lotte regionali, tristi ricordi di un tristissimo inglorioso passato. Essi infatti portano le più dolorose conseguenze, rendono rachitiche o arrestano del tutto lo sviluppo delle piccole colonie in formazione, riducono deboli e facili ad essere superate dagli stranieri quelle che dovrebbero essere fortissime, e forniscono la più semplice spiegazione del doloroso fenomeno per cui, avendo in Brasile, ossia in un paese che possiede appena 16 milioni di abitanti, oltre 1.500.000 connazionali, invece di riuscire predominanti, siamo appena tollerati.

Ormai l'emigrazione è diventata una funzione naturale e necessaria della nostra vita nazionale, ed è d'uopo insegnare ai nostri giovani non solo a diventare buoni cittadini, ma anche l'arte direi di farsi buono emigrante. E, come per molti problemi della nostra vita, la soluzione di questo bisogna farla nella scuola. Occorrerebbe per ciò una schiera di maestri colti, amanti della patria e delle istituzioni, e ben consci dei loro doveri, che insegnassero nelle scuole elementari ed in quelle serali non solo a leggere e scrivere, ma anche, e con pari cura se non con maggiore interesse, da una parte ad essere onesti, e dall'altra come si diventa buoni cittadini, solerti e laboriosi operai, e come si possa portare anche all'estero la propria energia, restando alla patria legati e dalla patria sostenuti, incoraggiati e difesi, come i figli devono esserlo da una madre amorosa.

Se nella scuola, ripeto, si insegnassero tutte queste cose, se, come ci sono cattedre ambulanti d'agricoltura, ce ne fossero                 per parlare dell'emigrazione a quei miseri che devono esulare, infiniti mali si eviterebbero, ed una immensa forza sarebbero per noi quel 4 milioni d'Italiani che vivono e lavorano all'estero. Ma la scuola dovrebbe seguitare anche all'estero, ed a ciò dovrebbero concorrere quelle ottime istituzioni che si occupano degli emigranti e la Dante Alighieri. Santissima necessità è quella di ridare la patria a chi l'ha perduta, ma bisogno assoluto ed immediato è il provvedere a che restino italiani quelli che già lo sono.

 

Vai alla cartina della valle amazzonica

.

 

 

 

Ritorna a

Gregorio Ronca

 

Home

 

Manda un messaggio