Il territorio e le sue acque,

 

un rapporto di rispetto e razionalità

 

 

 

La fotografia della valle solofrana che pubblichiamo al lato è significativa poiché il manto di neve mette in risalto i fianchi dei nostri monti segnati da un grande numero di valloni e fravolari, come si chiamano da noi i valloncelli minori, evidenziando il dilavamento delle acque ed facendo intuire la formazione alluvionale del fondovalle solofrano. Essa ci dice anche che i valloni hanno ben svolto la funzione di raccogliere le acque e convogliarle in un alveo più grande.

Parimenti i documenti solofrani ci dicono che l’uomo è intervenuto su questa natura con razionalità e rispetto. Per esempio quando la collina del castello fu tagliata da una strada (oggi via Maffei) essa fu detta scanate (da scanalatura) proprio perché aveva la funzione di operare un’interruzione lungo le pendici a mo’ di terrazzamento. Essa, senza fare alcuna forzatura alla morfologia del luogo, rispondeva all’esigenza di creare una via di passaggio e nello stesso tempo di mettere in sicurezza la collina che finiva nel vallone Vellizzano, nello stesso tempo non era di ostacolo all’invaso di canale che delimita la collina ad est, le cui acque potevano liberamente confluire nel più grande vallone. Come per questa opera tante altre furono realizzate per rendere utilizzabile questo prezioso corso d’acqua lungo le cui sponde c’erano le concerie di Fontane sottane (il casale che poi sarà detto Santa Lucia) e di Fontane soprane (la parte di Caposolofra intorno al ponte) e che fu attivamente presente nella vita di coloro che vi abitavano intorno.

Insomma un tempo si conviveva con i corsi d’acqua, usandoli secondo il loro stato, adeguandosi ad essi e alle loro piene. I primi ad usare in modo razionale il fiume, da S. Agata in giù, furono i Sanniti che nei momenti di secca utilizzarono il suo greto come strada, e quando c’era la piena questa servì per creare nello stesso alveo un tratto libero che divenne una vera strada.

Nell’identico modo si comportarono i Romani quando costruirono la loro via antiqua lungo il vallone dei Granci, che aveva acqua perenne e diverse sorgenti, oltre ad essere pescoso, quindi fonte di nutrimento. Qui non mancavano piene periodiche e distruttive considerate “normale vita del fiume”. Si pensi che negli atti di fitto dei terreni, fino a tutto il settecento, erano considerate parte integrante di essi ed in modo esplicito le operazioni di messa a coltura delle viti distrutte dalle piene del “fiume delli granci”.

Una convivenza che metteva insieme esigenze umane e bisogni del fiume. Essa si ripeteva lungo le cortine di S. Agata dove l’acqua fu addirittura ingrottata per un breve tratto e controllata perché non si creassero pericolosi tappi.

Persino i nostri statuti più antichi  - del XIII secolo -  avevano degli articoli che regolavano il comportamento dei proprietari dei terreni invasi dalle acque o consideravano il caso in cui questi venivano occupati dalla legna mandata a valle utilizzando le acque dei valloni e prescrivevano il comportamento sia dei padroni del terreno che di quelli della legna. Un rapporto, diremmo oggi, di civile convivenza.

I solofrani erano costretti ad avere un buon rapporto con le loro acque perché esse servivano per la concia. Il rapporto uomo-acqua divenne forte al Toppolo, il casale dominato dal fiume delle Bocche tanto da dargli il nome. Proprio in questo luogo, dove c’è una concentrazione di alvei più piccoli che si innestano in quello più grande: il fiume che scende dalle Bocche prima del ponte si unisce al vallone della Forna e più giù al Rialvo. Lungo le loro sponde furono costruite vasche e botteghe che tenevano presente le esigenze di questo elemento della natura considerandolo quasi una persona di famiglia con un rapporto  - qua e là emerge con chiarezza -  di grande comunione. Senza dubbio c’erano piene in cui la forza dell’acqua era distruttiva ma a queste si rispondeva con interventi appropriati che erano anche frutto di accordi tra gli abitanti che si mettevano insieme, univano le forze, si dividevano il lavoro nel programmare patti che stabilivano una turnazione per riparare i ponti, allora di legno, distrutti dalle acque. Tutto però sembrava una normale modalità di vita.

Il rapporto si allargava alla cura dei boschi e delle selve dove la raccolta della legna, un’attività permessa dagli usi civici, serviva a tenere puliti i valloni ed il sottobosco mentre forniva legna per l’inverno. Il bosco poi era di grande aiuto all’economia di sussistenza, nulla si perdeva tra le foglie secche, ed anche queste servivano. La sua pulizia era affidata agli animali, che, sempre per gli usi civici, vi potevano pascolare liberamente in alcuni periodi dell’anno. Si pensi che le querce erano divise tra la concia e la pastorizia, prima i conciatori avevano il diritto a raccogliere il frutto prezioso per la concia e poi l’allevatore vi introduceva i suoi maiali.  

Fino a tutto il secolo XVIII non abbiamo documenti che parlano di eventi alluvionali di grande rilievo. Il primo documento che parla di un evento drammatico causato dalle acque sul nostro territorio  -  erano stati soppressi gli usi civici, quindi lo sfruttamento del bosco -  è del 21 gennaio del 1805, quando tutti i rioni di Caposolofra e di conseguenza la Fratta furono completamente devastati. Fu interessato il vallone del Vellizzano le cui acque distrussero ben tre chiese, due ponti, nove concerie e molte case per un totale di 79 vani soprani e sottani, soprattutto morirono 37 persone. L’acqua, dopo aver distrutto ciò che trovava lungo le sue sponde, proseguì un rovinoso percorso nell’alveo del vallone si immise a valle nella Solofrana depositando attrezzi di conceria e pelli a San Severino. La chiesa di Santa Lucia e quella di San Gaetano subirono danni irreparabili e insieme alle concerie di Caposolofra non furono più ricostruite.

Circa cinquanta anni dopo ci fu un altro evento calamitoso e più ampio del precedente poiché interessò tutta la fascia ai piedi del Vellizzano e del Garofano, quindi anche il Sorbo e parte dei Balsami. Si ripeterono i danni nei casali di Caposolofra. Furono interessati due valloni del Sorbo quello che scende dai Cappuccini e quello di Santa Caterina. Dai Balsami le acque giunsero nella Solofrana, il cui alveo, all’altezza del ponte di San Rocco, che fu distrutto, si riempì giungendo in piazza San Michele e mettendo in pericolo la stessa Collegiata. Fu gravemente danneggiato il ponte dello Spirito Santo, fu devastata parte dei Volpi. Profonde voragini si formarono lungo tutta la strada fino alle masserie che furono allagate e le coltivazioni distrutte. L’ultimo evento fu l’alluvione del 21 agosto 1993 che interessò il vallone del Sorbo-Balsani detto di Santa Caterina causando la morte di un concittadino trasportato fino a San Severino.

Oggi molti invasi sono scomparsi occupati dall’urbanizzazione o coperti da strade mentre le loro acque sono costrette in cunicoli sotterranei. Noi ci auguriamo che siano state prese nella giusta considerazione le loro necessità e che siano stati tenuti presente i bisogni del territorio.

Mimma De Maio

 

Da “Il Campanile”

 

 

 

 

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