Il battiloro solofrano

 

 

Attuando la promessa fatta precedentemente devo riferire ciò che sul battiloro solofrano i miei studi hanno verificato. Questa arte inizialmente era chiamato oropelle perché l’oro, ridotto in sottili fogli, veniva usato per impreziosire le pelli con le quali si facevano oggetti o indumenti di valore alimentando un artigianato di lusso e ricercato. Questa attività era diffusa a Salerno fin da quando, nel periodo longobardo, era un fiorente polo culturale con la Scuola medica salernitana e un ricco centro mercantile, a cui attingevano gli Amalfitani per il loro commercio sulle rotte mediterranee. Anche i Normanni, che successivamente possedettero la città, sostennero quest’artigianato tanto che Federico II ne regolò il commercio concedendo a Salerno il jus prohibendi, il diritto cioè che permetteva di esercitare l’attività solo agli artigiani salernitani, ai quali Solofra forniva la pelle conciata. Il battiloro a Solofra dunque non fu esercitato in questo periodo, contrariamente a quanto si afferma, come si deduce da tutti i documenti del periodo e dal primo corpo statutario, di poco successivo, in cui non c’è alcun articolo al riguardo, mentre ce ne sono diversi che regolano tutte le altre attività artigianali solofrane dalla salatura delle carni, alla concia.

Il battiloro invece si diffuse a Solofra all’inizio del Cinquecento e venne da Napoli. Anche questa città aveva la privativa dell’arte che non poteva essere esercitata in un altro luogo. Essa però aveva altre leggi che concedevano privilegi mercantili ai suoi abitanti, cioè a coloro che prendevano famiglia a Napoli o vi possedevano dei beni. Questa via aveva permesso ad alcune famiglie solofrane, dai Fasano ai Giliberti, ai Guarino, ai Landolfi, ai Maffei, di spostarsi a Napoli, e di godere facilitazioni nel commercio delle merci prodotte dalle relative famiglie di Solofra. Questo sistema fu applicato, per prima dai Maffei, anche al battiloro per cui si potette aggirare il divieto di battere questo metallo fuori di Napoli. All’inizio del XVI secolo una serie di documenti permettono di seguire la diffusione del battiloro a Solofra, operata dalle famiglie solofrano-napoletane, che ebbero, per fare ciò, precisi permessi della Regia Corte. Addirittura si riesce ad individuare, sempre in questo secolo, il sistema che dette la possibilità ad altre famiglie di entrare nell’arte e cioè attraverso il matrimonio con membri della famiglia che godeva questo diritto. Solofra divenne così una sorta di succursale napoletana e, poiché il battiloro era un artigianato di pregio, particolarmente curato e protetto a Napoli  - basti pensare che questa attività era l’unica che non impediva di acquistare un titolo nobiliare e basti pensare alla potente Consorteria napoletana delle Centenare -  anche le famiglie solofrane potettero godere di una ricchezza ed una preminenza unica, che non era affatto legata alla concia, anche se nasceva da essa. La pelle infatti fu sempre necessaria a tale arte anche quando non fu solo questa ad essere impreziosita e quando la lavorazione dell’oro divenne oreficeria. E fu proprio la capacità di concia a dare ai solofrani la possibilità di mettere in atto delle tecniche di lavorazione apprezzate e ricercate, ed impossibili da realizzare in altri posti. Queste tecniche, unite al fatto che solo determinate famiglie potevano svolgere l’attività, crearono intorno al battiloro solofrano quell’alone di segretezza e di particolarità che ha sempre avuto. Quali erano dunque? A Solofra avvenivano solo le ultime fasi di battitura dell’oro (quelle che precedevano la doratura) che giungeva da Napoli, dove già aveva avuto una prima trasformazione, in nastri sottili un millimetro di spessore tagliati in pezzetti e riuniti in pacchetti. La maestria solofrana consisteva nella battitura dei fogli di oro, che riuscivano a raggiungere una sottigliezza estrema, e furono queste tecniche di martellamento una specialità dei solofrani che li resero famosi dappertutto. Essi infatti inventarono il sistema di battere l’oro utilizzando certe parti degli intestini degli animali, abilmente conciate, tanto da essere sottilissime membrane che formavano i fogli di un libro tra i quali veniva messo l’oro per essere battuto a più riprese e a piccolissimi colpi. Queste membrane inoltre proteggevano e mantenevano integro l’oro, fino alla fine del lavoro quando era pronto per essere applicato con olio di lino o colla sulla superficie da dorare. Se quindi la presenza della pelle favorì l’impianto a Solofra del battiloro, le tecniche di concia portarono a quella specializzazione nella battitura che fu apprezzata soprattutto ed quando si trattò di impreziosire il legno, specie nel secolo del barocco.

Questa particolarità non si perdette neanche quando, a metà Seicento, la peste decimò la popolazione causando uno stravolgimento socio-economico non indifferente. Il battiloro infatti si imbarbarì nel senso che si perdette l’antico assetto e nell’arte potettero introdursi maestranze meno protette tale da dare a Solofra un aspetto di succursale deteriore dell’arte e da cambiare persino il processo di lavorazione che si estese a tutte le fasi. Pur tuttavia ancora per molto tempo rimase un alone di pregevolezza intorno all’artigianato solofrano che Napoli riusciva ancora a proteggere come dimostrano, alla metà del XVIII secolo, le 24 botteghe di battiloro, le 109 botteghe di battargento e i 136 addetti dislocati in tutti i casali solofrani. Tutto questo però naufragò nel marasma creato dalla Rivoluzione napoletana del 1799, con le confische e i saccheggi, che colpirono soprattutto questo settore, e fu definitivamente spazzato via dal successivo crollo del sistema economico dell’antico regime. La fine del corporativismo, l’abolizione delle leggi borboniche, che vennero sostituite da quelle murattiane del 1808, causarono la fine del battiloro solofrano che aveva vissuto all’ombra della grande capitale. Ecco perché per salvarlo all’inizio del XIX secolo si tentò di conservare il rapporto con Napoli limitando l’attività solofrana al solo battere l’argento e perché si tentò di unire gli artigiani solofrani, ormai orfani, in una corporazione come quella napoletana, ma che neanche più Napoli poteva avere. Ed ecco perché, nel commentare il fallimento e il tentativo solofrano, Michele Pandolfelli attribuì alle “lotte furibonde tra il 1805 e il 1813”, conseguenti la fine di un regime secolare, la causa del declino di questa arte solofrana.

Mimma De Maio

 

Da “Il Campanile” di Solofra, (aprile 2005, anno XXXVI, n. 4, p. 4)

 

Approfondimento

 

Battiloro

 

 

 

 

Articoli su “Il Campanile”

 

Home

 

Scrivi