Attuando la
promessa fatta precedentemente devo riferire ciò che sul battiloro solofrano
i miei studi hanno verificato. Questa arte inizialmente era chiamato oropelle perché
l’oro, ridotto in sottili fogli, veniva usato per impreziosire le pelli con
le quali si facevano oggetti o indumenti di valore alimentando un artigianato
di lusso e ricercato. Questa attività era diffusa a Salerno fin da quando,
nel periodo longobardo, era un fiorente polo culturale con Il battiloro
invece si diffuse a Solofra all’inizio del Cinquecento e venne da Napoli.
Anche questa città aveva la privativa dell’arte che non poteva essere
esercitata in un altro luogo. Essa però aveva altre leggi che concedevano
privilegi mercantili ai suoi abitanti, cioè a coloro che prendevano famiglia
a Napoli o vi possedevano dei beni. Questa via aveva permesso ad alcune
famiglie solofrane, dai Fasano ai Giliberti, ai Guarino, ai Landolfi, ai
Maffei, di spostarsi a Napoli, e di godere facilitazioni nel commercio delle
merci prodotte dalle relative famiglie di Solofra. Questo sistema fu
applicato, per prima dai Maffei, anche al battiloro per cui si potette
aggirare il divieto di battere questo metallo fuori di Napoli. All’inizio del
XVI secolo una serie di documenti permettono di seguire la diffusione del
battiloro a Solofra, operata dalle famiglie solofrano-napoletane, che ebbero,
per fare ciò, precisi permessi della Regia Corte. Addirittura si riesce ad
individuare, sempre in questo secolo, il sistema che dette la possibilità ad
altre famiglie di entrare nell’arte e cioè attraverso il matrimonio con
membri della famiglia che godeva questo diritto. Solofra divenne così una
sorta di succursale napoletana e, poiché il battiloro era un artigianato di
pregio, particolarmente curato e protetto a Napoli - basti pensare che questa attività
era l’unica che non impediva di acquistare un titolo nobiliare e basti
pensare alla potente Consorteria napoletana delle Centenare
- anche le famiglie solofrane
potettero godere di una ricchezza ed una preminenza unica, che non era
affatto legata alla concia, anche se nasceva da essa. La pelle infatti fu
sempre necessaria a tale arte anche quando non fu solo questa ad essere
impreziosita e quando la lavorazione dell’oro divenne oreficeria. E fu
proprio la capacità di concia a dare ai solofrani la possibilità di mettere
in atto delle tecniche di lavorazione apprezzate e ricercate, ed impossibili
da realizzare in altri posti. Queste tecniche, unite al fatto che solo
determinate famiglie potevano svolgere l’attività, crearono intorno al
battiloro solofrano quell’alone di segretezza e di particolarità che ha
sempre avuto. Quali erano dunque? A Solofra avvenivano solo le ultime fasi di
battitura dell’oro (quelle che precedevano la doratura) che giungeva da
Napoli, dove già aveva avuto una prima trasformazione, in nastri sottili un
millimetro di spessore tagliati in pezzetti e riuniti in pacchetti. La
maestria solofrana consisteva nella battitura dei fogli di oro, che
riuscivano a raggiungere una sottigliezza estrema, e furono queste tecniche
di martellamento una specialità dei solofrani che li resero famosi
dappertutto. Essi infatti inventarono il sistema di battere l’oro utilizzando
certe parti degli intestini degli animali, abilmente conciate, tanto da
essere sottilissime membrane che formavano i fogli di un libro tra i quali
veniva messo l’oro per essere battuto a più riprese e a piccolissimi colpi.
Queste membrane inoltre proteggevano e mantenevano integro l’oro, fino alla
fine del lavoro quando era pronto per essere applicato con olio di lino o
colla sulla superficie da dorare. Se quindi la presenza della pelle favorì
l’impianto a Solofra del battiloro, le tecniche di concia portarono a quella
specializzazione nella battitura che fu apprezzata soprattutto ed quando si trattò di impreziosire il legno, specie nel
secolo del barocco. Questa
particolarità non si perdette neanche quando, a metà Seicento, la peste
decimò la popolazione causando uno stravolgimento socio-economico non
indifferente. Il battiloro infatti si imbarbarì nel senso che si perdette
l’antico assetto e nell’arte potettero introdursi maestranze meno protette
tale da dare a Solofra un aspetto di succursale deteriore dell’arte e da
cambiare persino il processo di lavorazione che si estese a tutte le fasi.
Pur tuttavia ancora per molto tempo rimase un alone di pregevolezza intorno
all’artigianato solofrano che Napoli riusciva ancora a proteggere come dimostrano,
alla metà del XVIII secolo, le 24 botteghe di battiloro, le 109 botteghe di battargento e i 136 addetti dislocati in tutti i casali
solofrani. Tutto questo però naufragò nel marasma creato dalla Rivoluzione
napoletana del 1799, con le confische e i saccheggi, che colpirono
soprattutto questo settore, e fu definitivamente spazzato via dal successivo
crollo del sistema economico dell’antico regime. La fine del corporativismo,
l’abolizione delle leggi borboniche, che vennero sostituite da quelle murattiane
del 1808, causarono la fine del battiloro solofrano che aveva vissuto
all’ombra della grande capitale. Ecco perché per salvarlo all’inizio del XIX
secolo si tentò di conservare il rapporto con Napoli limitando l’attività
solofrana al solo battere l’argento e perché si tentò di unire gli artigiani
solofrani, ormai orfani, in una corporazione come quella napoletana, ma che
neanche più Napoli poteva avere. Ed ecco perché, nel commentare il fallimento
e il tentativo solofrano, Michele Pandolfelli attribuì alle “lotte furibonde
tra il 1805 e il Mimma De
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