La bottega di Giovanni Tommaso Guarini

 

 

Una bottega del Cinquecento

 

per la costruzione della Collegiata

 

 

Abbiamo visto nell’articolo precedente l’importante presenza nella vita di Francesco Guarini della famiglia della madre Giulia Vigilante, che in pratica dominava la vita economica solofrana, nella quale aveva parte importante la gestione delle chiese, sia attraverso sacerdoti che laici. Questa attività era a quei tempi  - nella seconda metà del Cinquecento -  un’importante opportunità economica, e, quando nacque l’”affare” della Collegiata, furono costituiti i procuratori della “fabbrica di S. Angelo”, che lo dovevano gestire. Essi guidarono la costruzione del tempio, stipularono i contratti con gli artisti qui impegnati e ne seguirono i lavori. Anche se questa carica, ricoperta da tre persone, era a rotazione, non usciva fuori da quelli che allora si chiamavano “compatroni” della chiesa, cioè da quelle famiglie del patriziato solofrano che governavano sia la Universitas sia la chiesa. Quando negli anni ottanta del Cinquecento costoro dettero l’incarico ad Antonio Sclavo di Napoli di intagliare il legno dell’organo e del pulpito, l’artista napoletano lavorò a Solofra il legno intarsiato delle due opere e l’oro che ne ricoprì il legno fu quello della bottega dei Vigilante del Toro, cioè della famiglia di Giulia.

Allora non esisteva ancora la bottega di Tommaso, padre di Francesco Guarini, il quale però già a quel tempo era legato alla costruzione della Collegiata. Infatti, imparentati con la famiglia di Tommaso erano i Troisi di S. Agata di Solofra (come allora si chiamava S. Andrea) a cui appartenevano i “fabri lignarii” fornitori delle travi di legno, ottanta, per la copertura della Collegiata. Costoro, che avevano una bottega alla platea, e che erano imparentati con i Vigilante, divennero i fornitori di tutto il materiale in legno che serviva alla Collegiata, da quello per i cassettonati, a quello delle cornici dei quadri, compresa la grande cornice del quadro del Lama e il legno necessario per l’organo e per il pulpito. Tommaso, figlio del pittore Felice ed anche lui pittore, si trovò, quindi, in un ambiente vicino al grande ”affare” della costruzione della chiesa che richiedeva anche opere pittoriche e artistiche. È in questa atmosfera e per rispondere alle esigenze che la costruzione della Collegiata trasformava in opportunità, che la bottega di Felice si trasformò, con Tommaso, in un qualcosa di più grande. Essa divenne una bottega, simile a tante del tempo, al centro di un lavoro, diremo oggi multimediale, infatti si ampliò al lavoro del legno svolto nella bottega dei Troisi e al lavoro dell’oro della bottega dei Vigilante del Toro.

Fu questo “affare” che determinò il matrimonio tra Giovanni Tommaso e Giulia Vigilante, avvenuto nel 1606. Esso siglò, come tutti i matrimoni dell’epoca, un’interessante alleanza economico-familiare con la quale si chiudeva i cerchio che univa tre famiglie (i Troisi, i Vigilante, i Guarino) intorno alla Collegiata, i cui procuratori, tutti collegati alla famiglia Vigilante, assicurarono ad essa, attraverso la bottega di Tommaso, la fornitura delle opere in legno dorate e pittoriche che impreziosiscono il nostro tempio. Vale sottolineare il salto economico che questa alleanza permise a Tommaso, che all’indomani del matrimonio, potette iniziare lavori di ampliamento alla sua casa di S. Andrea, con l’intervento del fratello della moglie, Alfonso, che aveva riccamente dotato la sorella e che sostenne il cognato in diverse occasioni e quello sociale infatti tale matrimonio legò Tommaso ad un'altra importante famiglia solofrana, i Giliberti della Forna (quelli del palazzo con la cappella di Santa Caterina), visto che il medico Tarquinio, padre del drammaturgo Onofrio Giliberti, aveva sposato Diana Vigilante della stessa famiglia di Giulia.

Intensi furono i rapporti tra i Vigilante e il Guarini, intorno alla bottega, che si arricchì di numerosi addetti, presi dalla improvvisata manovalanza locale o del circondario, come dimostrano interessanti contratti di lavoro stipulati subito dopo dal pittore. Inoltre il contratto stilato da Tommaso nel 1617 per la “intempiatura della nave centrale” della chiesa, parla in modo preciso di questa triplice attività della bottega per la quale l’artista si impegnò per una spesa non superiore a 1500 ducati. E tre furono gli artisti  - un intagliatore (Lucantonio de Accetto), un pittore (Francesco Giordano) ed un indoratore (Giovanni Angelo Greco) -  che autonomamente ne valutarono l’opera nel 1624. Questo contratto dimostra in modo chiaro la consistenza della bottega solofrana che ebbe delle botteghe rinascimentali solo la caratteristica di allargarsi ad attività legate tra loro. Essa però della vera bottega rinascimentale non ebbe la qualità essenziale, cioè non fu un luogo di incontro, di studio e di ricerca. Infatti visse finché ci furono le esigenze per cui era nata, finché cioè ci fu la costruzione della Collegiata, e quando queste si esaurirono la bottega perdette la ragione di esistere e si estinse. Lo stesso Francesco Guarini, che ereditò la bottega paterna e l’impegno di completare l’opera di “intempiatura” della chiesa, non le dette la dovuta cura. Egli accolse in essa artisti scadenti, come mostrano le moltissime opere di bassa bottega che si trovano sia nel transetto della Collegiata sia nel cassettonato di S. Agata. Anzi il fatto che il nostro grande concittadino abbia posto accanto alle sue più belle tele solofrane  - quelle del naturalismo caraveggesco del transetto -  opere con interventi di bottega, avvalora la tesi che i suoi interessi non erano intorno a questa bottega né erano a Solofra. Tutto ciò è chiaro anche nel cassettonato della chiesa di S. Agata, che del Guarini ha solo tre tele, tutto il resto è opera di artisti poco impregnati del suo discorso artistico.

Comunque si può dire che la vicenda di questa bottega, che nei suoi limiti è pur sempre un episodio rilevante, segua un po’ la parabola solofrana che, dopo l’esplosione del suo secolo d’oro, ha una linea discendente la quale, colpita duramente dalla vasta moria della peste, non si riprese più affogando nelle secche della vita del meridione. 

Mimma De Maio

 

(Da “Il Campanile”, 2006, XXXVII, n. 6, p. 4)

 

 

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