IL MATRIMONIO E LA DOTE A SOLOFRA

 

Una realtà dell’antico regime

 

Approfondiamo in questo articolo un argomento che ha particolarmente incontrato l’interesse dei lettori, infatti la condizione della donna era talmente all’opposto di quella di oggi da suscitare stupore e sconcerto ed è utile parlarne perché una delle funzioni della storia è proprio quella di dare il giusto significato alle realtà del presente.

Ciò che maggiormente interessa della donna di una volta è il matrimonio per le enormi differenze con oggi, infatti ella non solo non sceglieva l'uomo che avrebbe dovuto tenere vicino per tutta la vita, ma il suo matrimonio era un vero e proprio affare economico. Esso avveniva per mezzo di un contratto molto interessante - i famosi Capitoli matrimoniali - stipulato in presenza di un notaio e seguito da altri atti che completavano il "negotio", come allora si chiamava ogni tipo di "affare". Da una parte c'erano il padre e i fratelli della sposa che erano gli intestatari del patrimonio, che, nella dote, veniva assegnato allo sposo e non alla donna. Mentre questa, se pure presente fisicamente, era rappresentata da un'altra persona, detta mundoaldo, perché non aveva potere legale. Dall'altra parte c'era il padre dello sposo che esercitava sul figlio la patria potestas, una tutela anche di carattere economico. Comunque raramente lo sposo stipulava da solo questo atto. C'erano poi altri agenti: i tutori, in presenza di figli minori in caso di secondo matrimonio, gli esecutori testamentari, se la dote interessava un lascito, gli amministratori dei Monti familiari, che gestivano questi istituti dotali, infine c'erano i testimoni. Importante era il numero e la funzione di questi ultimi che non erano mai in numero inferiore a sette. In prevalenza erano religiosi, sicuramente membri della famiglia o persone influenti e ritenute idonee ad assicurare il rispetto e l'osservanza degli accordi nuziali oppure erano padri spirituali degli sposi, o anche sacerdoti della parrocchia. Non mancavano letterati laureati in utriusque juris doctor e altre autorità locali come il Capitano, per cui i Contratti matrimoniali danno la possibilità di individuare i legami che le due famiglie avevano con gli ambienti della società locale ed anche le persone influenti che erano presenti in quel momento sul territorio.

Il contratto, che era preceduto da vari accordi orali tra le parti, conteneva i termini di questi accordi in modo chiaro e preciso. Si affermava infatti "habuisse colloquium et tractato de felice matrimonio in vulgari sermone" e si stabiliva l'impegno delle parti affinché si addivenisse ad "un felice matrimonio". Dopo la parte iniziale, con l'indicazione delle persone presenti all'atto, si dichiarava che l'accordo era avvenuto dinanzi alla chiesa, che era in genere la Collegiata o altra chiesa parrocchiale, e ciò per dare la sanzione religiosa al patto, che diveniva così un patto religioso. Si stabiliva poi il sacerdote che doveva celebrare il matrimonio, che era il primicerio o un canonico della Collegiata o della parrocchia della sposa addetto a questa funzione. Per lungo tempo nel XVI secolo questo compito fu svolto dal canonico della Collegiata Paolo Papa, che era anche rettore di S. Agata e S. Andrea, un canonico anziano e molto presente in tutti gli atti legali di tipo religioso. Costui provvedeva a scrivere l'avvenuto matrimonio nei libri parrocchiali, che, insieme a quelli che registravano i battesimi e le morti, erano gli unici registri anagrafici della popolazione. Dopo il Concilio di Trento nel contratto si citarono le norme tridentine, cioè il tempo feriale imposto dal Concilio e le dispense vescovili o pontificie richieste, queste ultime, in casi eccezionali.

La data del matrimonio era stabilita in modo molto approssimativo. C'erano dei periodi preferiti come settembre-dicembre ed aprile-maggio, ma c'erano anche matrimoni che si celebravano nei giorni antecedenti o posteriori alle tre fondamentali festività della Cristianità: il Natale, la Pasqua e la Pentecoste. Molto vario era il periodo intercorrente tra la stipulazione dell'atto notarile e la celebrazione in chiesa del sacramento, che variava da un minimo di quindici giorni ad un massimo di sei mesi, non mancavano matrimoni concordati e differiti nel tempo anche di tre o sette anni.

Un tratto generico di questo atto era quello che riguardava le modalità della cerimonia e il peso delle spese che non erano sempre a carico della famiglia della donna, spesso era lo sposo a impegnarsi per esse, compreso il pagamento dei vari atti notarili. Ancora lo sposo faceva solenne promessa di fedeltà e protezione della donna in tutte le circostanze della vita e si impegnava a mettere in atto tutto ciò che poteva realizzare il "felice matrimonio".

Molto articolata e centrale era la parte che trattava della dote. Essa veniva consegnata dal padre della sposa al padre dello sposo il quale si impegnava, per il figlio, di farla fruttare, di non decurtarla e di consegnarla integra, alla morte della sposa, se questa non aveva figli, alla famiglia originaria. La dote era costituita di una parte in corredo (detta ad usum Solofre) il quale era descritto in una lista allegata al contratto matrimoniale ove erano elencati gli oggetti del corredo, costituiti in capi di biancheria per la casa e per la donna con la relativa cassapanca, materassi e coperte, ma anche in oggetti di rame per la cucina che venivano indicati in peso. C'erano persone apposite, amici o consanguinei, addette alla valutazione del corredo che ne consegnavano al notaio la lista dove, accanto ad ogni pezzo, era riportato il relativo valore, e alla fine l'ammontare del valore del corredo.

Un'altra parte della dote era costituita dal denaro, la pecunia, che veniva consegnato all'atto del matrimonio in una unica soluzione o in rate stabilite da altri atti notarili. Altre volte il padre della sposa stipulava un mutuo, cioè un atto di credito, con lo sposo in cui si impegnava a versare il denaro entro un determinato tempo - non oltre i tre anni - e dava in garanzia un bene, descritto in un altro atto, che veniva restituito alla risoluzione del mutuo. Il mutuo dotale era quindi un vero e proprio credito, infatti c'erano gli interessi e, se i termini del pagamento non venivano rispettati, le penalità. Molto più complessa era la procedura se si trattava di una dote costituita da beni immobili, perché in tal caso si decurtava il patrimonio familiare e ciò era contrario alle modalità patrimoniali del tempo. Se comunque ciò avveniva il bene veniva descritto in modo particolareggiato in un atto, detto docium, dove ci si impegnava di riconsegnarlo alla famiglia di provenienza della donna in caso di suo decesso e se dal matrimonio non erano nati dei figli. Qualche volta allo sposo veniva concesso come dote l'uso della conceria o di una bottega artigiana per un determinato periodo che poi poteva anche allungarsi e permettere allo sposo di essere assorbito nella impresa della famiglia della moglie. Gli immobili, oggetto della dote, erano per lo più case, un piano inferiore terraneo ed uno superiore con gradinata esterna, il cortile ed il pozzo, difesi da cancelli, quasi sempre sul retro dell'abitazione c'era un piccolo podere coltivato ad orto. Se la nuova coppia non si allontanava dal nucleo familiare, e ciò succedeva con la famiglia dello sposo, la casa patronale veniva ampliata di una "cammara" ricavata e costruita ex novo sulle zone adiacenti - un cortile o una terrazza - oppure venivano individuati e divisi in essa degli ambienti.

Lo sposo rispondeva alla costituzione della dote con dei donativi propter nuptias di minor valore. Erano indicati con i termini pro muliere e pro viro ed erano un residuo di un istituto giuridico di origine longobarda, il cosiddetto antefato costituito dallo sposo alla donna e consistente nell'usufrutto di una certa parte (anche un quarto) dei beni del marito, mentre una parte (un sesto) dell'usufrutto della dote era devoluto all'uomo. Entrambe le donazioni venivano stabilite in due atti legali accompagnati dalla rinuncia, da parte del padre della sposa, della patria potestas sulla figlia che passava allo sposo. Entrambi i coniugi venivano in possesso di queste donazioni soltanto alla morte del coniuge perciò di questo se ne parlava nei testamenti.

La dote era quindi l'impegno più autentico del vincolo matrimoniale, qualificava in modo indiscutibile il matrimonio come un atto economico attraverso il quale, in una economia debole come quella del meridione, due famiglie ponevano insieme le proprie forze economiche proteggendole dalla dispersione. Si preferivano infatti matrimoni di due sorelle con due fratelli, di vedove con cognati e naturalmente tra cugini per far rimanere nell'ambito della famiglia il capitale. E si preferiva sancire un patto societario, che univa due famiglie in una unica attività o in due attività complementari, con un matrimonio dove la dote veniva a far parte del capitale che si impegnava nella società. Addirittura il matrimonio sanciva il trasferimento di una famiglia dal casale di origine ad un altro. Per capire tutta questa complessa procedura delle alleanze familiari bisogna considerare che la famiglia costituiva una impresa in se stessa e considerare che allora non esistevano famiglie costituite ad un unico nucleo. Se il matrimonio non sanciva un'alleanza familiare bisogna sempre tenere presente che la donna apportava nella famiglia in cui entrava un suo preciso contributo che concorreva a determinare un progresso economico di essa. È chiaro ora che ci troviamo di fronte a qualche cosa che non ha a che fare con la sfera dei sentimenti e degli affetti e spiega perché non si richiedeva l'intervento della donna nella scelta del marito.

La dote fu anche uno strumento di difesa del patrimonio nel senso che all'atto di riceverla la donna rinunciava a qualsiasi eredità futura, sia da parte delle madre che del padre. Così l'atto notarile non serviva solo a legalizzare la trasmissione dei beni, ma ad escludere la donna dalle successive suddivisioni del patrimonio, favoriva quindi la discendenza maschile ed evitava ulteriori dispersioni del capitale immobiliare della famiglia.

A costituire la dote erano obbligati i familiari maschi: in assenza del padre c'erano i fratelli, poi venivano gli zii o altre persone indicate nei testamenti dove i genitori ne stabilivano l'ammontare o incaricavano appunto un esecutore testamentario a costituire la dote se la donna si sposava. Non mancavano casi in cui il marito incaricava la moglie a costituire la dote alle figlie. La donna solofrana infatti poteva stipulare gli atti ma doveva essere assistita, come si è detto, dal mundoaldo e da un rappresentante legale. In caso di morte del marito e di assenza di figli la donna poteva avere accanto alla dote alcuni beni stabiliti nel testamento del capo famiglia. Se c'erano i figli invece la dote non le era restituita e la donna era usufruttuaria dei beni di famiglia solo se manteneva "il letto viduale", si diceva.

Le donne avevano la dote anche se entravano in convento in tal caso essa determinava il trattamento che la giovane aveva nel monastero. Se infatti prendeva i voti senza dote era assegnata ai lavori di pulizia, cucina o cucito cioè contribuiva con il suo lavoro al mantenimento del monastero. Il monastero gestiva le doti delle monache attraverso il prestito, esse quindi ritornavano nel circolo della economia locale e per molto tempo costituirono un valido sostegno alle attività mercantili ed artigiane solofrane. La gestione di questo patrimonio veniva affidata alle Badesse o a suore addette a questo scopo, come fu suor Maria Raffaela Giliberti che per molti anni nel XVII secolo gestì il patrimonio del Monastero di S. Chiara avendo anche diverse liti con la Universitas. Dato questo uso delle doti per molto tempo per la donna entrare in monastero significò assicurare alla famiglia di provenienza un sostegno alle proprie esigenze economiche. Ecco spiegato perché a Solofra ci furono tanti monasteri e perché gli Orsini ne costituirono ben due: essi attraverso questi enti entrarono nel circuito finanziario della economia locale. Si consideri che ben quattro figlie di Ostilio Orsini furono monache di S. Chiara e che suor Baetrice Orsini fu una badessa molto attiva in tale gestione e per suo merito il monastero assunse le forme di un vero educandato femminile di donne delle famiglie facoltose non solo di Solofra.

Col tempo la dote assunse le caratteristiche di un obbligo civile, di un dovere e di un segno della consistenza economica, e della rispettabilità della famiglia tanto che veniva ritenuto disonorevole maritare una figlia senza dote. Per questo motivo nacquero i Monti familiari o maritaggi che erano istituzioni che gestivano una parte del patrimonio di famiglia per assicurare con tale gestione la dote alle donne della famiglia. Erano gestiti da persone incaricate a ciò all'atto della costituzione del Monte. Il Monte più antico, istituito a questo scopo, fu quello di Gregorio Giliberti che a metà cinquecento impegnò una parte del suo patrimonio in questo ente per le donne della famiglia che fu utilizzato per ben due secoli. In seguito anche le altre famiglie facoltose di Solofra istituirono Monti familiari o laicali. Nel 1754 il catasto onciario indicava i seguenti Monti: Monte della famiglia Vigilante fondato da Pompilio, Monte della famiglia Giannattasio fondato da Antonello, Monte della famiglia Giliberti, fondato da Giovanni, Monte della famiglia Ronca fondato da Aurelio, Monte della famiglia Landolfi fondato da Gio. Pietro, Monte della famiglia Verità fondato da Pirro, Monte della famiglia Pandolfelli fondato da Antonello, Monte della famiglia Giaquianto fondato da Pompilio; e poi c'erano i Monti delle famiglie Iuliani, Papa e Maffei. Da sottolineare il Monte dei Battitori d'oro della città di Napoli, sito nella Chiesa di S. Maria della Moneta, era detto delle Centenare, perché così si chiamavano i fogli di oro da battere, e fu utilizzato da molti battiloro solofrani i quali per poter fare questa attività a Solofra dovevano avere residenza a Napoli. Era un Monte molto ricco e dotato di molti privilegi come tutta la consorteria dei Battitori di oro tra i quali si trovavano anche coloro che avevano un titolo nobiliare, come i Maffei, poiché questa arte non era considerata disonorevole per un nobile.

Per le fanciulle povere c'erano invece i lasciti testamentari fatti da persone facoltose e finalizzati alla costituzione di un reddito dotale. In genere il lascito era affidato ad una chiesa che lo gestiva per le giovani povere del paese. La consuetudine delle Verginelle solofrane aveva proprio questo scopo. Era un'istituzione religiosa che si appoggiava alle chiese dedicate alla Madonna - a Solofra ce ne erano molte - alle quali si iscrivevano le giovani senza dote. Esse in occasione delle festività mariane si recavano vestite di bianco ai piedi della Madonna e pregavano per le benefattrici, in genere chiedendo per esse la grazia di una buona maternità, di un buon parto o il dono del latte. Se si tiene presente che in quei tempi altissimo era il numero di persone che morivano di parto e di neonati che morivano nei primi mesi di vita e se si considera che il dono del latte era una vera grazia poiché con esso si nutriva il piccolo per molti mesi, questa istituzione appare in tutta la sua importanza. Alle ragazze, considerate degne della dote per meriti di onestà e purezza, questa veniva consegnata nel giorno di S. Michele, l'otto maggio, durante la celebrazione della messa solenne. In questa occasione avveniva anche il sorteggio di altre doti.

Per le donne che lavoravano come domestiche presso le famiglie facoltose nel contratto di lavoro veniva stabilito che parte del salario era destinato a costituire la dote che, ad usum Solofre, era sempre diviso in corredo et pecunia. Non mancavano casi in cui il contratto di matrimonio era stipulato dal datore di lavoro che donava di suo una dote alla domestica.

Molto importante si faceva l'azione legale nel controllare i matrimoni e le doti nei momenti di pestilenza. Sia durante la peste del 1528 che quella del 1656, ma anche in periodi minori di calamità, le ragazze rimaste orfane e le vedove o anche le domestiche rimaste senza padrone, affidavano, in un preciso atto notarile, "personalmente e con affetto", la dote al futuro marito. Neanche in questo caso si può dire che esse fossero libere di scegliere il marito poiché la scelta era sempre dettata da motivi economici che erano così dominanti che si avevano matrimoni tra familiari ed anche tra persone con grande differenza di età per salvare l'impresa di famiglia. Spesso in questi casi il matrimonio era determinato dalla necessità di risolvere situazioni debitorie e non poche volte la sposa rinunziava ai beni a favore del marito che rivendicava delle somme di denaro dovute dalla famiglia della donna. Non pochi contratti di matrimoni erano seguiti da atti notarili che liberavano lo sposo dal debito, il cui ammontare corrispondeva esattamente a quello della dote. Le doti in occasione delle due epidemie più disastrose aumentarono enormemente e furono costituite da concerie e botteghe proprio perché bisognò sistemare interi patrimoni che erano rimasti senza proprietari.

Circa la gestione della dote dobbiamo dire che in vita era gestita dal marito o dai parenti dell'uomo, la donna ne poteva disporre totalmente alla morte del marito e in presenza di figli; altrimenti poteva decidere a suo piacere nella misura di un terzo, mentre gli altri due terzi andavano a coloro che le avevano costituito la dote cioè alla sua famiglia di provenienza.

A conclusione di questo articolo voglio augurarmi che nel lettore sia nato lo stesso sentimento che è nato in me nel fare questo studio e cioè della pregnanza di certe modalità di vita che, pur giustificate dalla contingenza della storia, facevano della donna, in quanto madre e moglie, il perno della famiglia e della economia caricandola di doveri e di incombenze a cui però non corrispondeva una eguale autonomia.

Mimma De Maio

 

 Da “Il Campanile” giugno 2006.

 

Vedi questa realtà nel Cinquecento e nel Seicento

(2003, nn. 1-2-3, p. 4)

 

 

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