A colloquio con un reduce della guerra di Russia
Ci sono
avvenimenti che col trascorrere degli anni vedono aumentare la loro
incisività, per il valore di cui sono pregni, per l’efficacia dei loro
significati come a dirci che quell’evento
non può e non deve essere dimenticato. Mi riferisco a ciò che vissero tanti italiani nelle sterminate pianure russe
durante la seconda guerra mondiale. Tra costoro c’era Carmelo D’Arienzo. Il nostro
concittadino fece parte del Corpo di Spedizione Italiano in Russia. Era un
soldato di leva, classe 22, chiamato alle armi il 29 gennaio del 1942 ed arruolato nel
72° Reggimento Fanteria, poi
trasferito, il 3 agosto di quello stesso anno, al 79° Pasubio
in Verona. Partì per La
battaglia del Don, che coinvolse tutto lo schieramento tedesco ed alleato,
tra la grande ansa del Don e il Caucaso, durò, per
gli italiani, tre mesi, durante i quali i disagi di una guerra, già di per sé
difficile, furono accentuati dalle gelide temperature, quell’anno
particolarmente dure. Fu un fronte di Il
D’Arienzo fu coinvolto nella seconda fase della battaglia del Don. Era l’11 dicembre, ci dice, quando i combattimenti si fecero
insistenti. I russi attaccavano con assalti continui e furiosi, usando la
loro micidiale arma, il katiuscia. Non ci fu tregua, le ondate divenivano sempre più frequenti “ed
erano in tanti”. Tutto questo inferno durò 5 giorni,
cinque giorni di “apocalisse”, dice il D’Arienzo che era addetto alla
ricetrasmittente che funzionò finché fu possibile. Il
cedimento fu inevitabile, venne a mancare l’appoggio dell’artiglieria, non
c’erano munizioni, nè viveri, nè
acqua. I soldati cadevano ad uno ad uno, interi reparti
furono completamente annientati fino a che si ebbe al certezza
dell’accerchiamento, di trovarsi in una sacca senza via di uscita, per di più
incalzati dai soldati russi rincuorati dai risultati, sicuramente più adatti
a sopportare quel freddo e meglio equipaggiati. Il racconto
dei giorni della ritirata si fa incalzante e crudo. Si andava a piedi, nella
neve alta dove si affondava o dura dove l’equilibrio
diveniva precario, sferzati dal freddo pungente e dal gelo che se di giorno
era di meno 25 gradi di notte raggiungeva i meno 40. Si giunse anche ai 47 al di sotto dello zero. Tutto si gelava dal respiro,
all’urina, dallo sputo, all’acqua che non si poteva bere. Si andava spinti
dalla voglia di non soccombere, chi si fermava era perduto, cadeva e non si
rialzava più. Si andava senza possibilità di difendersi, sempre inseguiti dal
nemico che si nascondeva dappertutto, compariva all’improvviso, faceva
imboscate. Si riposava dove e quando si poteva, le rade case erano insicure poiché non sempre si trovava un posto più
protetto o un po’ di caldo o del cibo. Le isbe russe potevano essere
terribili trappole. Solo dal cielo giungeva qualche aiuto paracadutato dagli
aerei tedeschi, era cibo ma erano anche munizioni,
allora succedeva che cadendo al suolo quelle esplodessero e l’aiuto sperato
si trasformava in fonte di altra morte. Ricorda il nostro
“soldato nella neve” la “valle della morte”, la ormai famosa depressione nei
pressi di Toposh dove la carneficina divenne totale
con i suoi trenta mila morti. Ma anche con i suoi
coraggiosi episodi sotto il fuoco dei micidiali katiuscia.
Era lì il D’Arienzo quando dovette lasciare i suoi
commilitoni, anche i più cari, e quando i tanti, i troppi feriti furono
ammassati al riparo di un capannone perché fossero difesi dal freddo della
notte e quando da un costone, dove si erano riparati, videro il capannone
avvolto dal fuoco di un incendio. Testimoni di quella mattanza furono con lui
altri solofrani, alcuni ebbero la fortuna di portare tra noi quei terribili
ricordi, altri li lasciarono lì con loro nella neve. Il racconto
contiene gli stessi orrori, ha la medesima connotazione di oppressiva
impotenza, crea la stessa atmosfera di quelli narrati da Bedeschi
o da Rigoni Stern, che
erano con lui negli stessi luoghi e nella stessa vicenda, allora mi accorgo
di essere di fronte ad uno di quei testimoni silenziosi che ha conservato
nella memoria la sua vicenda, rimasta lì senza subire dal tempo neanche una
scalfittura, un testimone che dice con naturalezza degli arti - tutti e quattro - completamente congelati, un congelamento di
secondo grado, e della sua buona sorte, di aver avuto cioè quel male, che
prendeva e non perdonava, tardi, in tempo, spiega, per avere le cure in due
ospedali militari già in quei luoghi di guerra e poi in Italia, al “Mazzacorati” di Bologna, dove, guarito dal congelamento,
l’11 marzo del 1943, venne inviato in convalescenza a casa. Interessante
è quello che si legge sul suo foglio militare. Qui è scritto che il militare
è “ritornato in servizio al 79° Reggimento il 25 aprile del Ancora più
gelido e distante appare il tutto se si considera che il nostro D’Arienzo non
ha avuto alcun riconoscimento, non una medaglia, che non si nega a nessuno,
non un segno, mentre quella esperienza è rimasta in
lui, per tutti i suoi anni, viva, mai dimenticata o entrata solo in penombra
come per ristoro. Mimma De Maio
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