Da “Il Campanile”. Notiziario di Solofra.
Il “caso Solofra”
analizzato dal “Riformista”
“Il
Riformista”, il bel giornale romano a tiratura nazionale di
area progressista del centro-sinistra, molto attento alla
cronaca e all’analisi politica, sia italiana che estera, dedica il
venerdì una pagina intera alla Campania, chiamata significativamente
“Gennaro”. Venerdì 1° luglio il giornale, diretto da Antonio Polito, una
delle firme più prestigiose di “Repubblica” prima di
approdare a questo giornale, ha dedicato un articolo a Solofra a firma di una
promessa del giornalismo, l’irpino Alberto Alfredo
Tristano. Già nell’occhiello il termine “Decadenze” dà
la chiave di lettura dell’analisi della crisi conciaria solofrana che l’articolista
affronta non senza aver prima tributato il giusto merito alla nostra
cittadina con il significativo appellativo della “Mirafiori dell’Irpinia”. Forse noi che la viviamo dall’interno, presi dalla tangibilità e
concretezza della contingenza, ne cogliamo meno l’altro senso. Per chi guarda
dall’esterno invece i dati della crisi solofrana - “mille posti di lavoro bruciati,
venti concerie chiuse per cessata attività” “in poco meno di due anni” - sono il segno di un declino
“irreversibile”, frutto di una crisi “non ciclica, ma strutturale”. “La causa principale” approfondisce l’articolista, “è la caduta
delle esportazioni, per le quali si registra un -23.9%
rispetto al 2004. All’estero è riservato circa l’80%
della produzione, una quota troppo grande per non terremotare
l’intero sistema, che, fra diretto e indotto, assorbe oltre il 60% della
forza-lavoro occupata locale”. Il tutto legato alla “feroce concorrenza” della Cina e persino di quei paesi - Argentina, Marocco, Turchia, ecc - che una volta ci fornivano la materia prima
e che “oggi sono in grado di proporre sul mercato internazionale un prodotto
finito a prezzo contenuto, con costi più bassi per la manodopera e lo
smaltimento delle scorie” e dove, aggiungiamo noi, il problema dello smaltimento
delle acque reflue non esiste, perché questa nostra attività si sta
qualificando sempre più come adatta a paesi sottosviluppati. La soluzione
allora è quella che propone Raffaele Rusolo della Filcea Cgil, intervistato dal Tristano, per il quale “non c’è via d’uscita se non si
punta a un prodotto di qualità medioalta”. Il Rusolo inoltre indica anche un ostacolo al “cambiamento
di rotta”, e lo vede nella “classe imprenditoriale” che “preferisce governare
la crisi ricorrendo agli ammortizzatori sociali, piuttosto che fare sistema e
darsi una strategia di ripresa”. E la strategia
sarebbe abbandonare certi comportamenti che hanno caratterizzato gli
imprenditori solofrani, troppo “individualisti”, troppo legati “al proprio
intuito e troppo poco all’analisi del mercato, poco propensi alla formazione
manageriale, eccessivamente accentratori, sospettosi degli altri imprenditori
in quanto possibili sottrattori della propria fetta di business”. Forse
perché irpino il giornalista ha colto nel segno, e
noi, percorrendo le vie della storia troviamo in essa
vari segni di questa caratteristica della imprenditoria solofrana. Ci
fermiamo all’episodio più eclatante determinato proprio dall’individualismo
che dette al corso della storia solofrana il cammino che poi essa percorse.
Siamo nella prima metà del Cinquecento e Solofra viveva
la sua stagione più bella e fiorente, che era maturata lungo tutto il
Quattrocento e che portò all’esplosione di quello che è chiamato il “Secolo
d’oro”. Dopo il nefasto dominio di Ludovico della Marra di Serino, Solofra si
era riscattata, aveva cioè comprato presso la corona
la propria autonomia, il che significava liberarsi dai pesanti gravami dei
tributi feudali che bloccavano il commercio, linfa della sua attività
artigianale. Ebbene fu proprio una perniciosa
divisione tra due fazioni guidate da due famiglie solofrane, quindi una lotta
locale, a porre fine all’autonomia solofrana e a portare gli Orsini a
stendere le loro grinfie sulle nostre opportunità. Eppure Solofra aveva in
quel periodo diverse famiglie in grado di far fronte alle spese
dell’autonomia feudale, come dissero gli stessi solofrani solo pochi decenni
dopo in una importante causa contro le prepotenze orsine. Non si devono fare
ipotesi su cosa sarebbe successo se i solofrani si fossero uniti per
mantenersi liberi dai pesi feudali o se una sola famiglia si fosse
impadronita della Universitas, ma vale la pena
ricordare che questa cosa avvenne esattamente a Firenze con la famiglia dei
Medici. E tutti sappiamo le successive vicende di
questa città. La storia solofrana dovrebbe dunque insegnare ad abbandonare
l’individualismo di cui parla il Tristano e il
piccolo orticello. A noi qui piace
però citare ancora una volta la storia solofrana per individuare in
essa i tanti periodi negativi da cui Solofra si è ripresa poggiando su
un’altra sua capacità, che le ha permesso nei momenti oscuri di rialzarsi e
di riprendere il cammino. Ci auguriamo che anche questa volta ciò avvenga nella direzione di una maggiore cooperazione e
collaborazione tra gli imprenditori sulla via di una diversa gestione
dell’impresa. Ma aggiungiamo anche nel dare fiducia alla ricerca che è
l’unica via per realizzare quei prodotti di qualità di cui parla il
sindacalista, opportunità che noi solofrani non abbiamo saputo cogliere - e questa è
un’altra pecca - nel dare la giusta
dimensione all’Istituto conciario, che, all’indomani del terremoto fu fatto
oggetto di un avveniristico programma, che avrebbe dovuto trasformarlo in una
cellula avanzata della ricerca nel campo della chimica conciaria, progetto
che rimase nel cassetto dei più lungimiranti e che invece avrebbe dato a
Solofra proprio ciò che ora le manca. Mimma De
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