Un’interessante Cappella della Collegiata fu quella di San
Basilio. Era situata a destra dell’altare maggiore, ove oggi è la Madonna dei sette dolori,
ma si trovava in S. Angelo prima della costruzione della Collegiata,
espressione della impronta bizantina che ebbe la
chiesa solofrana al suo primo sorgere, quando cioè fu una pieve dipendente
dalla bizantina Salerno. San Basilio infatti fu
dottore della chiesa greca, vescovo e confessore ed il suo culto si diffuse
in Occidente proprio al tempo della occupazione bizantina. Quando al posto
della vecchia chiesa fu costruita la Collegiata tutti gli altari preesistenti furono ricostruiti, ciò
successe anche per quello di San Basilio, che divenne, per concessione di Pio
V, altare privilegiato, su cui cioè potevano porsi più jussi. Fu patronato
della famiglia Ronca (che nella Collegiata aveva anche un altro altare),
degli Orsini al tempo di Dorotea e di Alessio
Vigilante nel 1695. Nel Catasto onciario del 1754 l’altare è indicato di
proprietà del Capitolo dei canonici della Collegiata con ben 14 beni (due
stabili, due orti e dieci selve), i quali indicano chiaramente il patronato dei Ronca, cosa confermata anche dal fatto che il libro
Campione della Cappella è di proprietà proprio di questa famiglia. Nel 1733
fu dotata di una statua, opera dello scultore montorese Anello Ferrandina,
rappresentante un mezzo busto del Santo con in
braccio il Bambino e con dorature fatte ad opera della famiglia dei battiloro
solofrani a cui apparteneva Lucrezia Buongiorno che aveva dotato la cappella
di un lascito. L’opera, che aveva una teca contenente una reliquia del Santo,
fu contrastata da uno dei governatori della Cappella, il notaio Vito Antonio
Grassi, che non la giudicò all’altezza delle altre statue presenti nella
Collegiata e dette il via ad un processo che terminò con la cessione della
statua alla chiesa di S. Agata.
Al di là di queste notizie il libro Campione della cappella è interessante
perché registra tutta l’attività creditizia della istituzione. Da esso emerge quanto fosse utile per le attività commerciali
solofrane il fatto che le chiese potessero sostenere il credito attraverso le
cappelle e gli altari. D’altra parte la trasformazione di S. Angelo in chiesa
recettizia fin dal XV secolo ebbe proprio questo
scopo, in quanto la società solofrana si creò, in assenza di un istituto
bancario, un ente in grado di proteggere il credito dalla finanza laica che
finiva per strozzare il commercio. Il prestito presso le chiese fu regolato
da una bolla pontificia, in modo che le chiese ebbero
la possibilità di prestare il denaro ad interessi ragionevoli. La bolla
papale in verità non parlava di interessi, allora
proibiti, ma di censi (detti bollari proprio perché permessi da tale bolla) e
più precisamente di “acquisto di censi”. In effetti
avveniva questo. Chi aveva bisogno di denaro lo
prendeva da una di queste istituzioni ecclesiastiche e si impegnava a versare
ad esse annualmente l’interesse, che veniva chiamato “censo”. Tutto questo
era registrato in un atto notarile in cui appariva che la persona in
questione comprava un censo da una determinata Cappella, cioè
si obbligava a versare ad essa una data somma, detta “censo” (leggi
interesse) per il valore di un capitale di tot ducati. Ciò voleva dire che la persona aveva avuto i tot ducati in prestito e
si impegnava a pagare ogni anno il relativo interesse. Questa situazione
terminava all’atto della consegna del capitale.
La Cappella, sotto il cui nome avveniva questa operazione,
la indicava nel libro detto Campione. In esso
registrava ogni volta anche la provenienza del capitale che era stato
prestato, il quale era costituito di varie quote, di cui erano titolari altre
persone che avevano contribuito a formare quel capitale e che, in base a
questa quotazione, ricevevano ogni anno un guadagno. Così che l’interesse
pagato da chi aveva ricevuto quel capitale veniva
diviso in parti corrispondenti alle quote di cui esso era formato. Ma come si formava il capitale presso le Cappelle? C’erano
varie strade una di queste erano i lasciti testamentari fatti dalle persone
della famiglia (o delle famiglie) proprietaria della Cappella o che vi aveva un jus di patronato, perciò i testamenti erano molto
importanti e non si facevano solo in punto di morte. Il testatore con questo atto dava alla Cappella una certa somma gravandola
del peso di messe. Questo voleva dire che una parte
del guadagno ottenuto col prestito di quel denaro doveva essere usato per le
messe, che dovevano essere celebrate dai sacerdoti della Cappella che erano
membri della famiglia proprietaria. Chi dava il denaro indicava anche i
sacerdoti che dovevano beneficiare delle messe, in genere di linea maschile.
Il denaro oggetto del lascito testamentario diventava dunque una quota
intitolata a chi aveva fatto la donazione o a qualche suo parente che ne acquistava il diritto per via ereditaria e veniva
sommato ad altre quote (collettiva). Il tutto formava un capitale che, come
abbiamo visto, alimentava il prestito e fruttava delle annualità, nelle quali
era anche compreso un guadagno diretto della Cappella (denaro libero). Questa
attività era molto complessa ed articolata, sia nella definizione delle
quote, sia nella restituzione del capitale, che poteva avvenire anche
attraverso la cessione di un bene che veniva
acquisito dalla Cappella e dato in fitto, il cui introito era diviso in parti
come per l’interesse. Per questo motivo ogni Cappella aveva almeno tre
governatori (debitamente remunerati) uno dei quali era un legale e che erano
persone della stessa famiglia o del suo entourage.
È chiaro come attraverso questo ente si creasse una
specie di finanziaria familiare per le necessità della stessa famiglia che
poi si allagava anche al prestito ad altre persone. Nel Campione esaminato,
che copre due secoli (XVII e XVIII), il prestito aveva acquisito forme mature
nel senso che si estendeva ad altre persone anche non di Solofra.
Vale considerare pure che ogni Cappella o altare all’atto della
sua costituzione doveva esser fornito di alcuni beni
che ne formavano la dote. Tali beni non uscivano dal patrimonio della famiglia anzi, diventando beni ecclesiastici, erano
protetti dall’erosione fiscale (sia di origine reale che feudale), e venivano
gestiti da membri della stessa famiglia in modo sicuro, ed usati anche come
garanzia in operazioni finanziarie autonome e senza il peso della relativa
tassa feudale del laudemio, che non c’era sui beni ecclesiastici.
Ora si comprende perché la chiesa recettizia di S. Angelo, che
già svolgeva questa funzione a sostegno del commercio fu trasformata nel
grosso Tempio di S. Michele Arcangelo, perché nella Bolla di fondazione si
stabilì che il Capitolo dei canonici fosse formato esclusivamente da
solofrani, perché la
Collegiata fu riempita di stemmi dell’Universitas e diventa
più chiara la causa del contrasto tra la comunità solofrana e gli Orsini a
cavallo tra Sei e Settecento.
Questo sistema, vitale in un ambiente economico come quello del
Mezzogiorno, creò un grande numero di sacerdoti,
mentre la proprietà ecclesiastica si estese enormemente fino a diventare i
tre quarti di tutte le proprietà del Mezzogiorno. Tutto ciò scomparve con la
fine dell’antico regime quando i napoleonici
avviarono nel Regno di Napoli quelle riforme che lo trasformarono in uno
stato moderno. Nel corso dell’Ottocento il numero dei sacerdoti diminuì
drasticamente e i beni ecclesiastici divennero beni
privati.
Mimma De Maio
|