Articolo da “Il Campanile”, 2004 (XXXV, n. 4, p. 4)

 

San Basilio

 

 

Un ente ecclesiastico importante per l’economia solofrana

 

 

 

Un’interessante Cappella della Collegiata fu quella di San Basilio. Era situata a destra dell’altare maggiore, ove oggi è la Madonna dei sette dolori, ma si trovava in S. Angelo prima della costruzione della Collegiata, espressione della impronta bizantina che ebbe la chiesa solofrana al suo primo sorgere, quando cioè fu una pieve dipendente dalla bizantina Salerno. San Basilio infatti fu dottore della chiesa greca, vescovo e confessore ed il suo culto si diffuse in Occidente proprio al tempo della occupazione bizantina. Quando al posto della vecchia chiesa fu costruita la Collegiata tutti gli altari preesistenti furono ricostruiti, ciò successe anche per quello di San Basilio, che divenne, per concessione di Pio V, altare privilegiato, su cui cioè potevano porsi più jussi. Fu patronato della famiglia Ronca (che nella Collegiata aveva anche un altro altare), degli Orsini al tempo di Dorotea e di Alessio Vigilante nel 1695. Nel Catasto onciario del 1754 l’altare è indicato di proprietà del Capitolo dei canonici della Collegiata con ben 14 beni (due stabili, due orti e dieci selve), i quali indicano chiaramente il patronato dei Ronca, cosa confermata anche dal fatto che il libro Campione della Cappella è di proprietà proprio di questa famiglia. Nel 1733 fu dotata di una statua, opera dello scultore montorese Anello Ferrandina, rappresentante un mezzo busto del Santo con in braccio il Bambino e con dorature fatte ad opera della famiglia dei battiloro solofrani a cui apparteneva Lucrezia Buongiorno che aveva dotato la cappella di un lascito. L’opera, che aveva una teca contenente una reliquia del Santo, fu contrastata da uno dei governatori della Cappella, il notaio Vito Antonio Grassi, che non la giudicò all’altezza delle altre statue presenti nella Collegiata e dette il via ad un processo che terminò con la cessione della statua alla chiesa di S. Agata.

Al di là di queste notizie il libro Campione della cappella è interessante perché registra tutta l’attività creditizia della istituzione. Da esso emerge quanto fosse utile per le attività commerciali solofrane il fatto che le chiese potessero sostenere il credito attraverso le cappelle e gli altari. D’altra parte la trasformazione di S. Angelo in chiesa recettizia fin dal XV secolo ebbe proprio questo scopo, in quanto la società solofrana si creò, in assenza di un istituto bancario, un ente in grado di proteggere il credito dalla finanza laica che finiva per strozzare il commercio. Il prestito presso le chiese fu regolato da una bolla pontificia, in modo che le chiese ebbero la possibilità di prestare il denaro ad interessi ragionevoli. La bolla papale in verità non parlava di interessi, allora proibiti, ma di censi (detti bollari proprio perché permessi da tale bolla) e più precisamente di “acquisto di censi”. In effetti avveniva questo. Chi aveva bisogno di denaro lo prendeva da una di queste istituzioni ecclesiastiche e si impegnava a versare ad esse annualmente l’interesse, che veniva chiamato “censo”. Tutto questo era registrato in un atto notarile in cui appariva che la persona in questione comprava un censo da una determinata Cappella, cioè si obbligava a versare ad essa una data somma, detta “censo” (leggi interesse) per il valore di un capitale di tot ducati. Ciò voleva dire che la persona aveva avuto i tot ducati in prestito e si impegnava a pagare ogni anno il relativo interesse. Questa situazione terminava all’atto della consegna del capitale.

La Cappella, sotto il cui nome avveniva questa operazione, la indicava nel libro detto Campione. In esso registrava ogni volta anche la provenienza del capitale che era stato prestato, il quale era costituito di varie quote, di cui erano titolari altre persone che avevano contribuito a formare quel capitale e che, in base a questa quotazione, ricevevano ogni anno un guadagno. Così che l’interesse pagato da chi aveva ricevuto quel capitale veniva diviso in parti corrispondenti alle quote di cui esso era formato. Ma come si formava il capitale presso le Cappelle? C’erano varie strade una di queste erano i lasciti testamentari fatti dalle persone della famiglia (o delle famiglie) proprietaria della Cappella o che vi aveva un jus di patronato, perciò i testamenti erano molto importanti e non si facevano solo in punto di morte. Il testatore con questo atto dava alla Cappella una certa somma gravandola del peso di messe. Questo voleva dire che una parte del guadagno ottenuto col prestito di quel denaro doveva essere usato per le messe, che dovevano essere celebrate dai sacerdoti della Cappella che erano membri della famiglia proprietaria. Chi dava il denaro indicava anche i sacerdoti che dovevano beneficiare delle messe, in genere di linea maschile. Il denaro oggetto del lascito testamentario diventava dunque una quota intitolata a chi aveva fatto la donazione o a qualche suo parente che ne acquistava il diritto per via ereditaria e veniva sommato ad altre quote (collettiva). Il tutto formava un capitale che, come abbiamo visto, alimentava il prestito e fruttava delle annualità, nelle quali era anche compreso un guadagno diretto della Cappella (denaro libero). Questa attività era molto complessa ed articolata, sia nella definizione delle quote, sia nella restituzione del capitale, che poteva avvenire anche attraverso la cessione di un bene che veniva acquisito dalla Cappella e dato in fitto, il cui introito era diviso in parti come per l’interesse. Per questo motivo ogni Cappella aveva almeno tre governatori (debitamente remunerati) uno dei quali era un legale e che erano persone della stessa famiglia o del suo entourage. È chiaro come attraverso questo ente si creasse una specie di finanziaria familiare per le necessità della stessa famiglia che poi si allagava anche al prestito ad altre persone. Nel Campione esaminato, che copre due secoli (XVII e XVIII), il prestito aveva acquisito forme mature nel senso che si estendeva ad altre persone anche non di Solofra.

Vale considerare pure che ogni Cappella o altare all’atto della sua costituzione doveva esser fornito di alcuni beni che ne formavano la dote. Tali beni non uscivano dal patrimonio della famiglia anzi, diventando beni ecclesiastici, erano protetti dall’erosione fiscale (sia di origine reale che feudale), e venivano gestiti da membri della stessa famiglia in modo sicuro, ed usati anche come garanzia in operazioni finanziarie autonome e senza il peso della relativa tassa feudale del laudemio, che non c’era sui beni ecclesiastici.

Ora si comprende perché la chiesa recettizia di S. Angelo, che già svolgeva questa funzione a sostegno del commercio fu trasformata nel grosso Tempio di S. Michele Arcangelo, perché nella Bolla di fondazione si stabilì che il Capitolo dei canonici fosse formato esclusivamente da solofrani, perché la Collegiata fu riempita di stemmi dell’Universitas e diventa più chiara la causa del contrasto tra la comunità solofrana e gli Orsini a cavallo tra Sei e Settecento.

Questo sistema, vitale in un ambiente economico come quello del Mezzogiorno, creò un grande numero di sacerdoti, mentre la proprietà ecclesiastica si estese enormemente fino a diventare i tre quarti di tutte le proprietà del Mezzogiorno. Tutto ciò scomparve con la fine dell’antico regime quando i napoleonici avviarono nel Regno di Napoli quelle riforme che lo trasformarono in uno stato moderno. Nel corso dell’Ottocento il numero dei sacerdoti diminuì drasticamente e i beni ecclesiastici divennero beni privati.

Mimma De Maio

 

 

La Collegiata, un’istituzione a sostegno della economia solofrana

 

 

 

 

 

Home

 

Altri articoli

 

Scrivi