Il complesso chiesa-monastero di San Domenico,

un lungo iter attraverso i secoli.

 

 

 

 

Quando si considera un periodo storico bisogna fare un grande sforzo per collocarsi correttamente in quel periodo e configurarsi come allora si presentavano le cose. Facciamo questa operazione e immaginiamo cosa era la zona che oggi chiamiamo San Domenico più di tre secoli e mezzo fa, quando Dorotea Orsini moglie di Pietro, fece iniziare la costruzione del monastero e della chiesa. Siamo lungo una strada in terra battuta che univa il passo di Turci con il Carrano, nella odierna zona industriale. Essa, dopo aver attraversato il casale di Fontane soprane e costeggiato il Vicinanzo, giungeva al ponte di San Nicola sul vallone di Vellizzano, che allora era di legno, costeggiava la collina del castello, un poco al di sotto della chiesa di San Nicola, in località detta scanate (dal fatto che la via, intitolata ora a Giuseppe Maffei, non era altro che una “scanalatura” lungo il fianco del vallone), giungeva attraverso il Toro al Sambuco e al Carrano, poi in località San Biagio entrava in territorio di Montoro. Allora qui non c’era ancora la chiesa della Consolazione, ma c’era una taverna con una stalla e un fòndaco che accoglieva i prodotti del commercio solofrano per i mercanti che non entravano in paese. Questa strada anticamente era detta salmentaria, da “salmeria”, gruppi di carri che trasportano merci.

Nel luogo dove fu scelto di porre i due edifici non c’era ancora il viale che portava in piazza, che sarà costruito solo un secolo e mezzo dopo, e di qui per giungere in quella che allora si chiamava la platea bisognava imboccare la strada all’altezza della casa della famiglia Papa, che poi si chiamerà Afflitta, da una chiesa dedicata alla Madonna degli Afflitti, che in quel periodo era in costruzione. Il complesso chiesa-monastero era insomma in piena campagna e completamente isolato dal centro come era d’uso per i conventi maschili e come era avvenuto cinquant’anni prima per il convento dei Cappuccini, vicino alla chiesa di Santa Maria delle selve, mentre solo il monastero di Santa Maria delle Grazie era in una zona abitata perché femminile. Gli altri due monasteri non ancora esistevano. La costruzione del centro religioso di San Domenico rispondeva alla politica ecclesiastica messa in atto dalla famiglia Orsini, sostenuta da Dorotea, che è sepolta nella chiesa dal 1665, che doveva accompagnare l’ascesa nei più alti ranghi ecclesiastici di Pier Francesco, il nipote di Dorotea e il futuro papa Benedetto XIII. Questa politica è ben rappresentata da Francesco Guarini nel quadro La Madonna del Rosario (1644-1649) dove Dorotea è raffigurata, inginocchiata ai piedi della Vergine insieme ai santi dell’ordine, al Papa e al Vescovo di Salerno Fabrizio Savelli, rappresentanti del clero di quel periodo. Il Guarini ebbe il tempo, prima di morire di lì a poco nel 1650, di mettere in evidenza nella sua opera questa politica orsiniana. Il convento, che accolse i monaci dell’Ordine di San Domenico Soriano, e la chiesa furono dotate di un buon patrimonio, ma il tempio, poiché era di origine feudale, non ebbe le cappellanie che invece avevano molte chiese solofrane e la Collegiata. Quando nel Decennio francese (1806-1815) molte chiese e monasteri furono soppressi e perdettero le loro funzioni, questa sorte toccò, insieme a Sant’Agostino e ai Cappuccini, anche al monastero di San Domenico. La chiesa si salvò perché pochi anni prima una terribile alluvione aveva distrutto ben tre chiese della zona (Santa Lucia, San Gaetano, la SS. Annunziata). Il monastero divenuto, secondo una sorte comune a questi edifici religiosi, Carcere mandamentale, dovette subire degli interventi restrittivi come la chiusura del porticato, la protezione delle finestre con le grate e del cortile con un alto muro tutt’intorno.

In questo periodo tutta la zona subì un importante intervento che pose le basi della rivalutazione dell’intero complesso: fu costruito il viale chiamato San Domenico prima di essere intitolato alla Regina Elena. Tale viale entrò a far parte di un progetto viario provinciale che impose ai comuni di ampliare le strade, eliminare le strozzature, rendere più moderna la viabilità cittadina. Con la sua costruzione si eliminarono infatti i restringimenti delle vie Affitta e San Giacomo, che rendevano difficoltoso il passaggio dei carri, fu costruito il ponte sul vallone e furono piantati i tigli. La prima fotografia che correda questo articolo mostra come si presentava la zona all’inizio del Novecento con gli alberi, piantati un secolo prima, che salivano in doppia fila lungo via Casapapa. Pochi anni dopo, siamo all’indomani della prima guerra mondiale, lungo la strada che costeggiava l’edificio fino alla curva (dove ora c’è il quadrivio per via Aldo Moro e Via della libertà), furono piantati dei nuovi alberi, uno per ogni solofrano caduto in quella guerra e le famiglie interessate ne ebbero la cura. Per questo motivo la zona prese il nome di Parco della Rimembranza, come mostra la seconda fotografia del 1930. Quello che ora è un centro cittadino vivo e moderno fino a sessanta anni fa era un luogo “di campagna” circondato da campi coltivati, meta di passeggiate per gli allegri gruppi di giovani, ma proibito alle ragazze perché non era adatto a loro inoltrarsi in posti isolati. Un altro compito assolse il monastero, divenne cioè cimitero, quando non ancora era stato costruito il Camposanto e le chiese, in seguito all’editto napoleonico, non potevano più accogliere le sepolture. La chiesa invece diventò ricca di altari e di fregi nel 1878, quando, abbattuto Sant’Agostino, ne accolse i monumenti funerari e religiosi. Tutti gli altari che ora ammiriamo in San Domenico sono quelli di questa chiesa insieme alle lapidi tombali, ed appartenevano alle famiglie che ne avevano le cappellania. La chiesa ebbe una vita dignitosa, protetta dalla devozione delle famiglie del posto, fu al centro di molte feste e processioni quando queste manifestazioni religiose erano molto sentite e seguite. Ebbe la festa del Corpus Domini e quella di San Nicola, entrambe con sontuose processioni e la partecipazione del predicatore, una figura molto importante e sentita a quei tempi, che parlava ai fedeli anche durante altre ricorrenze: quelle della Novena di Natale, dei Quindici martedì di S. Domenico, dei Sette Venerdì di San Vincenzo, dei 15 sabato del Rosario. La festa più bella era però dedicata a Santa Rita il 22 maggio con la benedizione degli animali e delle rose, quando il cortile del monastero si riempiva di cavalli ed asini e la chiesa dei fiori dei roseti. Il complesso risorse a nuova vita nel 1950 quando, siamo nel periodo di grande ripresa del primo dopoguerra, la chiesa e il monastero furono offerti ai padri Giuseppini di Asti che vi aprirono una scuola per l’educazione dei giovani che dovevano avviarsi al sacerdozio e che fu frequentata anche da molti giovani solofrani.

Mimma De Maio

 

 

Da “Il Campanile”, 2007 (XXXVIII, n. 10, p. 4).

 

 

La chiesa e il Convento di San Domenico

 

 

 

 

 

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