Da “Il Campanile”, 2008
(XXXIX, n. 9, p. 4)
La
chiesa di San Rocco dedicata al secondo patrono di Solofra
Protettore
dei conciatori contro la tracena
Un paese come Solofra non
poteva non avere un secondo patrono.
Se il primo, San Michele, si impiantò qui per eventi
della nostra storia, il secondo, San Rocco, appartiene alla Solofra
artigiana. Il santo infatti è legato in modo
specifico al suo essere protettore dei lavoratori delle pelli per via della “tracena” (antrace), la terribile pustoletta
creata dal morso di un insetto, il carbonchio, che una volta si annidava
nelle pelli e il cui morso provocava una pustoletta
“maligna”, perchè contagiosa e mortale. Non pochi sono i solofrani anziani
che ricordano il modo, doloroso e sbrigativo, ma il solo esistente allora,
con cui in quei tempi, quando non c’erano i moderni sistemi di difesa, veniva eliminato questo pericoloso bubbone e cioè
bruciando con il fuoco la parte interessata, e non pochi sono stati i
solofrani che hanno subito questo intervento che lasciava un indelebile
segno. L’iconografia più diffusa di San Rocco lo
presenta proprio con una pustoletta sul ginocchio e
con accanto un cane che gli porta un pezzo di pane per sostenersi durante la
malattia, perchè gli uomini lo fuggivano per la paura del contagio. In realtà
il santo, nato a Montpellier nella seconda metà del trecento, è protettore
più in generale degli appestati e dei contagiati ed è rappresentato con le
sembianze e l’abbigliamento di un pellegrino, più raramente con un saio. Nel
napoletano il suo culto si diffuse nel Quattrocento proprio come protettore
delle malattie contagiose dalle quali difficilmente ci si salvava. Per queste
caratteristiche il suo culto fu molto sentito particolarmente a Solofra che
subito lo adottò come suo secondo protettore dedicandogli una chiesa
all’imbocco della Via vecchia, che portava, attraverso i suoi wafi, alle concerie lungo il fiume. Inoltre il rito a lui
dedicato acquistò una particolarità, infatti si
moltiplicava durante l’anno, ripetendosi ogni volta che c’era il bisogno di
ricorrere al santo. Quando nel 1528 ci fu la peste,
portata nel napoletano dai soldati francesi del Lautrek
e che uccise più di trecento solofrani, molte persone nei loro testamenti
lasciarono precise disposizioni a favore del santo o con l’indicazione di
ingrandirne la cappella e sostenerne il culto. Tra i
benefattori munifica fu Margherita Vigilante, moglie di Luisio Troisi
dei Burrelli, che aveva visto decimata la sua
famiglia, e che donò alla chiesa tutto il suo corredo e il patrimonio di
famiglia. In un altro momento della storia solofrana il
santo e la sua chiesa furono punto di riferimento di
tutta la comunità. Siamo nel 1656, il terribile anno della più mortale
pestilenza, quando in soli tre mesi, da luglio a settembre, il morbo uccise i
due terzi della popolazione solofrana cancellando intere famiglie. In questa occasione la chiesa di San Rocco rimase aperta
notte e giorno e fu punto di riferimento di lunghe veglie che si tenevano
nella piazza circostante. A quei tempi nulla si conosceva di scientifico
intorno a questo tipo di malattia, che ha un pericoloso tempo di incubazione, e si pensava che la trasmissione del male
avvenisse attraverso l’alito per cui ci si difendeva proteggendo la bocca e
il naso, cosa che però non impediva il diffondersi del morbo. In questa occasione fu questo santo ad essere al centro dei lasciti delle persone che ebbero il tempo di
stendere un testamento. Dopo il morbo infatti la
chiesa si trovò con un ricco patrimonio che fu preso in gestione dalla
Università ed affidata alla Congregazione del SS. Sacramento ed ebbe
amministratori appartenenti a tre delle famiglie più importanti di Solofra, i
quali curarono l’ampliamento dell’edificio. Una descrizione alla fine di quel
secolo la dice di “forma quasi quadrata” “con la porta grande ad Aquilone”
(nord, nord-est) e sopra “tre lumi ingredienti”, con “la porta piccola a
ponente” e con “due finestre a sud”. Aveva all’interno una cappella laterale,
dedicata a San Gaetano, di jus patronale della
famiglia di Benedetto Petrone, un ricco conciatore e battiloro, appartenente
ad un importante ramo di questa famiglia e presente nel ceto ecclesiale e
nell’amministrazione della Universitas.
Tra le finalità della Confraternita oltre agli obblighi religiosi c’erano le
attività creditizie, che si individuano in parecchi
documenti del tempo e la protezione delle famiglie di coloro che erano
colpiti dalle frequenti pestilenze, specie quelle dei conciatori. La chiesa
da quel momento fu particolarmente curata da tutti coloro
che ne ebbero la gestione. Si arricchì di pregevoli opere in
legno, di un ricco soffitto istoriato, di opere di due artisti solofrani. Il
primo è Matteo Vigilante, un pittore poco conosciuto ma che ha lasciato molte
opere in diverse chiese dell’Irpinia e del
salernitano, l’altro è Filippo Landolfi, appartenente al ramo più facoltoso di questa famiglia della Forna. Fu anche sede della
Confraternita di San Giovanni qui trasferita da San Giuliano ed anche questa
pia istituzione si interessò dei bisogni della
comunità e fu vicina ai suoi iscritti, curandone la formazione religiosa, il
conforto dell’ultimo sacramento e le esequie. La chiesa al tempo del primicerio Mariano Vigorita fu trasformata in pinacoteca, infatti
raccolse le opere e vari oggetti d’arte che si trovavano nelle chiese
distrutte dalle esigenze urbanistiche della cittadina che si ampliava - siamo negli anni sessanta - come la bellissima tela di Francesco
Guarini, Mimma De Maio |
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