Da “Il Campanile”, 2005 (XXXVI, n. 9, p. 4)

 

 

Le sfortune di Solofra

 

 

I Cartelli della Comunità montana solofrano-serinese

 

Una serie di madornali errori e sviste storiche

 

 

 

 

Tempo addietro tutti noi avemmo la sorpresa di vedere dei bei cartelli fatti istallare dalla Comunità montana solofrano-serinese lungo la strada dei Cappuccini, che indicavano un percorso storico-naturalistico in quel belvedere con la citazione della chiesa. Presto però sopravvenne la delusione quando costatammo che la chiesa è detta di S. Francesco e non di Santa Maria delle selve. Che si chiami tale chiesa col nome del convento è diffuso nella parlata comune, ma ciò non è permesso in un testo che deve dare un’informazione storica, che deve essere esatta. E dire che quella chiesa, antichissima, è espressione di un momento significativo, vissuto in quel luogo del Vellizzano, a cui il convento di S. Francesco, costruito molto dopo (alla fine del XVI secolo), non toglie ma dà valore. Un altro simile cartello si trova dinanzi la chiesa di S. Agata. Esso ha un testo raffazzonato e sgrammaticato con un incredibile frase - “L’edificio presenta un soffitto.” -  che termina con un bel punto e che lascia di stucco per la grossolanità dello svarione. Vale sottolineare che l’Ente, che è caduto in questo inconveniente, si è mostrato disponibile a porre riparo alla sua disavventura, visto anche che sbagli di questo genere si trovano un po’ dappertutto in simili indicazioni nel territorio della Comunità. La cosa non finisce qui perché, sempre nello stesso ambito di promozione turistica dei territori della Comunità montana, sono stati pubblicati degli opuscoletti di itinerari culturali enogastronomici e storico-naturalistici che lasciano l’amaro in bocca. Ci limitiamo qui a citare un solo testo  - a firma di Carmine Tavarone e Roberto D’Orsi -  che dovrebbe presentare, in questo itinerario, la nostra Solofra nelle sue dimensioni generali e comprensive di tutta la sua realtà e che invece non lo fa affatto. Esso parla della Collegiata e di Francesco Guarino, del palazzo ducale e della chiesa di S. Teresa (certamente nostri preziosi ed indiscussi “elementi emblematici”) ma lo fa in modo così riduttivo e distorto (si limita ad una serie di nomi e di date), che non si riesce affatto ad avere tutta la loro grandezza e dimensione. La Collegiata, per esempio, è una “povera fabbrica” divenuta grande con le opere di Francesco Guarini (impareggiabile artista che impreziosisce il nostro tempio), ma la Collegiata è ben altro. Prima di essere uno scrigno di arte, essa è l’espressione di uno straordinario amalgama, che unisce la dimensione civile-economica con quella religiosa (è qui la nostra Collegiata) e che si era andato formando nel profondo passato, da quando era pieve di S. Angelo e S. Maria; ed ancora, essa è il diretto frutto della Solofra artigiano-mercantile del Quattrocento, è l’immagine di uno straordinario Cinquecento  - il secolo d’oro della nostra storia -, è il risultato della Solofra della concia e del commercio, che già allora percorreva le strade mercantili del Regno e dell’Italia, che fin da quel tempo arricchiva col suo battiloro le corti, i palazzi signorili e le chiese del Regno fino a quelli della Roma papale; infine è lo specchio di una realtà culturale che aveva in Giovanni Camillo Maffei (morto nel 1583) un filosofo accolto nelle più prestigiose sedi editoriali del tempo. Lo stesso Francesco Guarini, vissuto nella prima metà del Seicento e nutrito nella bottega della sua famiglia  - dal nonno, al padre, al fratello – , fucina dei due Solimena, è il prodotto di questa grande Solofra. Di tutto questo non c’è un accenno nel testo, perché manca il substrato della storia che fa corposa una realtà e spiega il miracolo di Francesco Guarini e della Collegiata, per restare solo a questi due elementi. c’è un cenno alla nostra realtà industriale che affonda le radici, come la Collegiata, in un denso passato, mancano riferimenti a tutta l’altra Solofra, non c’è insomma nulla di ciò che fa della nostra cittadina un “fatto” unico tra i centri posti lungo la via dei Due Principati che nel progetto si vogliono valorizzare. Noi, che non ci stanchiamo di difendere il nostro passato, che come tale deve essere rispettato, invitiamo tutti quelli che si accingono a parlare di Solofra a farlo nel modo corretto, dando di lei la sua giusta immagine. Purtroppo la superficialità e il pressappochismo dilagano in questo tipo di testi, che devono contenere il succo di ciò di cui si parla (le date e i nomi non sono né il succo né l’anima di una qualsiasi realtà) e che fanno un grave danno perché destinati ad un grande pubblico. Un po’ più di impegno nello scriverli è però doveroso.

La “sfortuna di Solofra” sta nel fatto che essa meraviglia come patria di Francesco Guarini e come moderno polo industriale, ecco allora una schiera di storici dell’arte e di economisti parlare di questo miracolo, e ciò va bene finché costoro attingono agli strumenti della loro disciplina, ma se non ci si addentra nei meandri della storia non si capiscono questi due miracoli. E questo non è un esempio isolato. Lo storico dell’arte Riccardo Lattuada, che ha il merito di aver sistemato tutta l’opera del Guarini in un libro che è come una Summa, si trova sulla stessa linea di chi non scende nelle pieghe della storia, così si spiegano i suoi tanti errori, come il rovinoso scivolone sul palazzo degli Orsini, che sarebbe la trasformazione del “loro castello”, o, peggio, quando dice che questa dimora feudale esisteva nella piazza prima della Collegiata, cadendo in una delle più grosse sviste che rovesciano completamente la storia dell’impianto di questa famiglia feudale da noi con tutte le conseguenze interpretative del caso (anche del suo Guarini) o quando rappresenta in modo assolutamente capovolto il trasferimento delle famiglie solofrane a Napoli e persino quando parla di “S. Andrea del Serino”; e ancora si spiega perché anche lui non si allontana da tutti i suoi colleghi nel preferire la dizione “Guarino” al posto del più esatto “Guarini”: è la nostra storia profonda a spiegarlo non certo un errore di grafia o un capriccio dell’artista.

Infine non si può non citare la frase introduttiva del testo da cui è partita questa nostra lamentela “un insieme di frazioni sparse […] ravvicinate ma individuate da particolari nomi, costituiscono la città di Solofra”. Che Solofra sia stata formata da casali, una volta sentiti separati fa parte del vivere vicatim caratteristico della zona, ma mentre per gli altri suoi centri questo vivere è rimasto ed ancora oggi è costatabile nei vari insediamenti di cui sono formati Serino e Montoro, per Solofra questo vivere è da tempo scomparso per motivi che solo la sua storia sa spiegare. Ora porre ciò in un testo di oggi, che deve avere l’essenzialità delle cose importanti  - tale è un testo di presentazione  -  fa parte di quel pressappochismo e di quel “non sapere le cose” di cui dicevamo. Ci viene però un dubbio e cioè che i nostri autori abbiano tenuto presente un brano che fu posto dall’Aismez, a nome del Comune, nella prima presentazione di Solofra sulle pagine web, quando internet cominciò ad entrare nel nostro quotidiano. In modo assolutamente sconsiderato quel brano fu preso da un testo del 1898 e naturalmente si riferiva alla Solofra di quel periodo e a chi, percorrendola con la ferrovia da poco aperta, la vedeva come “tanti paeselli sparsi nella conca”. Per molto tempo questa incredibile frase, riferita alla Solofra di oggi, ha fatto bella mostra di sé nel web e non è stato possibile farla sostituire con una più aggiornata. Se è così vale ancora di più ripetere che chi si accinge a parlare di Solofra lo faccia dopo aver conosciuto la sua storia che poi non è tanto tediosa, è una storia bella, affascinante come quella di un romanzo. 

       Mimma De Maio

 

 

 

 

Ottobre 2005

 

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