I
Cartelli della Comunità montana solofrano-serinese
Una
serie di madornali errori e sviste storiche
Tempo
addietro tutti noi avemmo la sorpresa di vedere dei bei cartelli fatti
istallare dalla Comunità montana solofrano-serinese
lungo la strada dei Cappuccini, che indicavano un percorso
storico-naturalistico in quel belvedere con la citazione della chiesa. Presto
però sopravvenne la delusione quando costatammo che
la chiesa è detta di S. Francesco e non di Santa Maria delle selve. Che si chiami tale chiesa col nome del convento è diffuso nella
parlata comune, ma ciò non è permesso in un testo che deve dare
un’informazione storica, che deve essere esatta. E dire
che quella chiesa, antichissima, è espressione di un momento significativo,
vissuto in quel luogo del Vellizzano, a cui il
convento di S. Francesco, costruito molto dopo (alla fine del XVI secolo),
non toglie ma dà valore. Un altro simile cartello si trova dinanzi la chiesa
di S. Agata. Esso ha un testo raffazzonato e sgrammaticato con un incredibile frase - “L’edificio presenta un soffitto.”
- che termina
con un bel punto e che lascia di stucco per la grossolanità dello svarione.
Vale sottolineare che l’Ente, che è caduto in questo
inconveniente, si è mostrato disponibile a porre riparo alla sua
disavventura, visto anche che sbagli di questo genere si trovano un po’
dappertutto in simili indicazioni nel territorio della Comunità. La cosa non
finisce qui perché, sempre nello stesso ambito di promozione turistica dei
territori della Comunità montana, sono stati pubblicati degli opuscoletti di itinerari culturali enogastronomici
e storico-naturalistici che lasciano l’amaro in bocca. Ci limitiamo qui a
citare un solo testo
- a firma di Carmine Tavarone e
Roberto D’Orsi - che dovrebbe
presentare, in questo itinerario, la nostra Solofra nelle sue dimensioni
generali e comprensive di tutta la sua realtà e che invece non lo fa affatto.
Esso parla della Collegiata e di Francesco Guarino, del palazzo ducale e
della chiesa di S. Teresa (certamente nostri preziosi ed indiscussi “elementi
emblematici”) ma lo fa in modo così riduttivo e
distorto (si limita ad una serie di nomi e di date), che non si riesce
affatto ad avere tutta la loro grandezza e dimensione. La “sfortuna di Solofra” sta nel fatto che essa meraviglia come
patria di Francesco Guarini e come moderno polo industriale, ecco allora una
schiera di storici dell’arte e di economisti parlare
di questo miracolo, e ciò va bene finché costoro attingono agli strumenti
della loro disciplina, ma se non ci si addentra nei meandri della storia non
si capiscono questi due miracoli. E questo non è un
esempio isolato. Lo storico dell’arte Riccardo Lattuada,
che ha il merito di aver sistemato tutta l’opera del Guarini in un libro che
è come una Summa, si trova sulla stessa linea di chi non scende nelle pieghe
della storia, così si spiegano i suoi tanti errori, come il rovinoso
scivolone sul palazzo degli Orsini, che sarebbe la trasformazione del “loro
castello”, o, peggio, quando dice che questa dimora
feudale esisteva nella piazza prima della Collegiata, cadendo in una delle
più grosse sviste che rovesciano completamente la storia dell’impianto di
questa famiglia feudale da noi con tutte le conseguenze interpretative del
caso (anche del suo Guarini) o quando rappresenta in modo assolutamente
capovolto il trasferimento delle famiglie solofrane a Napoli e persino quando
parla di “S. Andrea del Serino”; e ancora si spiega perché anche lui non si
allontana da tutti i suoi colleghi nel preferire la dizione “Guarino” al
posto del più esatto “Guarini”: è la nostra storia profonda a spiegarlo non
certo un errore di grafia o un capriccio dell’artista. Infine non si può non citare la frase introduttiva del testo da
cui è partita questa nostra lamentela “un insieme di frazioni sparse […] ravvicinate ma individuate da particolari nomi,
costituiscono la città di Solofra”. Che Solofra sia stata formata da casali, una
volta sentiti separati fa parte del vivere vicatim
caratteristico della zona, ma mentre per gli altri suoi centri
questo vivere è rimasto ed ancora oggi è costatabile nei vari insediamenti di
cui sono formati Serino e Montoro, per Solofra questo vivere è da tempo
scomparso per motivi che solo la sua storia sa spiegare. Ora porre ciò in un
testo di oggi, che deve avere l’essenzialità delle
cose importanti - tale è un testo di
presentazione - fa parte di quel pressappochismo e di quel
“non sapere le cose” di cui dicevamo. Ci viene però un dubbio e cioè che i nostri autori abbiano tenuto presente un brano
che fu posto dall’Aismez, a nome del Comune, nella
prima presentazione di Solofra sulle pagine web, quando internet cominciò ad
entrare nel nostro quotidiano. In modo assolutamente sconsiderato quel brano
fu preso da un testo del 1898 e naturalmente si riferiva alla Solofra di quel
periodo e a chi, percorrendola con la ferrovia da poco aperta, la vedeva come
“tanti paeselli sparsi nella conca”. Per molto tempo questa
incredibile frase, riferita alla Solofra di oggi, ha fatto bella
mostra di sé nel web e non è stato possibile farla sostituire con una più
aggiornata. Se è così vale ancora di più ripetere che chi si accinge a parlare
di Solofra lo faccia dopo aver conosciuto la sua
storia che poi non è tanto tediosa, è una storia bella, affascinante come
quella di un romanzo. Mimma De Maio |
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