Il castello longobardo
Elementi di storia
Il castello di Solofra sorge sul lato meridionale del monte Pergola-S. Marco, che delimita a nord la conca
dei monti Picentini prima che questa si apra,
attraverso il raccordo di Montoro, sulla pianura di S. Severino. Il monte con
l’importante sperone roccioso di Castelluccia dominava la via di
comunicazione con la valle del Sabato, che percorreva il seno vallivo del vallone dei granci e che fu usata sia dai Sanniti che dai Romani.
È necessario soffermarsi su questa via, che è direttamente legata
alla costruzione del castello e alla sua ubicazione. Essa fu un tratturo
fluviale percorso dai Sanniti durante i loro spostamenti transumantici e fu al
servizio della colonia sannita di Abellinum
(l’odierna Atripalda) per le comunicazioni con gli
insediamenti della pianura. Seguiva il corso del flubio-rivus siccus lungo
tutta la pianura di Montoro fino alla confluenza col Saltera
nel sanseverinese. Attraversava il passo di Taverna-Castelluccia, che era l’unico passaggio naturale tra
i bacini della valle del Sabato e quella dell’Irno
prima che fossero attivi i passi di Turci, della Laura e di Forino. Fu, quindi,
interessata agli eventi delle guerre sannitiche, con le quali Roma si impossessò dei territori sanniti, e della seconda guerra
punica quando Annibale occupò le zone fortificate di questo territorio, per poi
abbandonarle una volta sconfitto. Era difesa dalla postazione di Castelluccia, che fu una vera roccaforte naturale, punto di
riferimento sia dell’insediamento sannita di Solofra che della via.
Nel periodo romano la via seguì lo sviluppo di Abellinum, divenuta un’importante colonia romana, ed
accolse le villae rustiche sia
dell’insediamento solofrano - basta citare Tofola ai piedi di Castelluccia
- che di quello del montorese. Fu attraversata dai
traffici commerciali della colonia sostenuti dalle numerose tabernae
romane costruite lungo di essa e dalla tassa stradale
del rotarico posta a Rota là dove la via si immetteva nella Capua-Regium.
Ai traffici del periodo romano si riferisce tutta la toponomastica del passo - sferracavallo, campo castello, taverna dei
pioppi, fornaci - e l’impianto del
nome e cioè via antiqua qui badit ad Sancte Agathe. Per questa ultima denominazione vale sottolineare che al tempo
delle prime persecuzioni la via accolse il transito dei cristiani che fuggivano
dall’Oriente trovando scampo in Irpinia - Abellinum,
una delle diocesi del primo cristianesimo, vide operare S. Modestino, vescovo
di Antiochia, e S. Ippolisto
- i quali portarono il culto a S. Agata
permettendo l’istallarsi del toponimo. Esso indicò per molto
tempo tutta l’ampia zona pianeggiante.
Nel periodo delle invasioni, quando Abellinum
rasa al suolo finì di esistere, la pianura tra il Sarno
e Salerno fu travagliata dalla disastrosa guerra greco
gotica (535-555) e le villae in pianura furono abbandonate.
Si costituirono nella conca solofrana gli arroccamenti delle Cortine di S. Agata e di Cortina del cerro protetti l’uno da Chiancarola e l’altro da Castelluccia.
Ciò fu permesso dalla conformazione difensiva della morfologia della conca
solofrana con due punti di controllo sulla pianura (Chiancarole
e Castelluccia) e con la strettoia di chiusa, dove gli straripamenti del
fiume crearono un’ulteriore difesa ai due insediamenti
abitativi. Questi, posti su zone pedemontane, trovarono
nelle cortine - mediate a loro volta dalle villae romane - altre possibilità
di difesa.
Fu in questo periodo che il Pergola-S.
Marco apparve come un complesso montuoso di grande
valenza difensiva poiché dal suo versante nord si poteva dominare la valle del
Sabato e dal suo versante sud la pianura montorese.
Quando i Longobardi fondarono il ducato di
Benevento, Castelluccia, i monti Mai e quelli di
Montoro-Forino furono l’ultimo baluardo di questo territorio nel primo periodo,
poiché la pianura non era ancora in loro mano. Si deve al duca di Benevento Arechi I il progetto di occupare
Salerno e per far ciò egli dovette rinforzare questo confine con alcune
postazioni difensive che avrebbero protetto l’opera di conquista. In questo
periodo e legato a questi eventi si pone il rinforzo del castrum di Rota e la costruzione dei
castelli di Montoro e di Serino, che avevano
l’importante funzione di controllare questi territori longobardi. Questi ultimi
in questo periodo potettero pure non avere le forme definitive di veri e propri
castelli, come in genere succedeva, ma senza dubbio svolgevano l’importante
compito di protezione della via di S. Agata, mentre Castelluccia continuò ad avere un ruolo di presidio della stessa
via. In questo periodo in pianura si accedeva anche
dal passo di Forino a servizio del nuovo insediamento longobardo di Avellino.
Con Arechi II (758-787) si ebbe la grande fioritura di Salerno col conseguente popolamento
della pianura e l’intensificarsi dei traffici. Si generò così un forte scontro
tra le due grandi città del Ducato beneventano - la capitale
Benevento e Salerno - che portò alla
divisione del Ducato in due Principati, quello di Salerno e quello di Benevento
(849). Il confine passava sui monti di Forino-Montoro,
seguiva quindi la linea difesa da quelli che abbiamo
chiamato presidi e che ora prendono l’aspetto di veri castelli perché tra i due
Principati si scatenò un forte contrasto, per cui fu necessario difendere ulteriormente
il territorio ricco di traffici e di produzioni, esposto anche al pericolo
saraceno proveniente dalla costa.
In questo momento, per la necessità di ulteriormente rinforzare la
linea difensiva che passava sul confine, si pone la costruzione, sulla collina
sul versante solofrano del monte Pergola, di un rinforzo del castello di Serino che sarà il futuro castello di Solofra. All’inizio
esso potrebbe non aver avuto le forme definitive, era comunque
collegato al più grande castello di Serino di cui era un presidio. Faceva parte
del gastaldato di Rota, che fu un delicato territorio
di confine, che da questa parte andava usque
Serrina de Ripileia, cioè fino al Pergola-S. Marco. A
questo territorio si interessarono, proprio perché
c’era la via che attraversava il confine, sia i principi longobardi di Salerno
che il vescovo della città che lo controllarono attraverso un capillare sistema
di chiese che fecero capo sia alla chiesa longobarda di S. Massimo di Salerno
che a quella episcopale. Era un territorio in mano
alle due autorità salernitane: l’arcivescovo e il
principe, come dimostra la situazione della pieve di S. Angelo e S. Maria di
Solofra.
Vale sottolineare che da questa parte del
confine tra i due Principati c’era una stazione di sosta per i pellegrini che
si recavano al santuario del Gargano a protezione della quale, nell’atto di
divisione del Ducato di Benevento, fu scritta una precisa clausola che
assicurava l’incolumità dei sudditi del Principato di Salerno in pellegrinaggio
verso quel luogo di fede. La stazione si chiamava ad Peregrinos ed era sul Sabato nella zona di
S. Michele di Serino, una zona controllata dal castello di Serino e dove si
giungeva anche attraverso la via di Castelluccia.
In questo momento il monte Pregola-San
Marco si definisce come un complesso difensivo longobardo
controllato dal castello di Serino, mentre la parte bassa, ai piedi del
complesso montuoso, faceva parte del territorio di Montoro fino al melito (allora detto balle de la mela) e di S. Agata fino al galdo. Il territorio di Solofra era
delimitato dal corso del vallone Vellizzano-Cantarelle fino alla sua confluenza nel flubio. Su tutto dominava il più
importante castello di Montoro.
Con l’occupazione normanna il territorio
subì le distruzioni di Troisio di Rota con una guerra
combattuta proprio sulla linea Montoro-Serino, in seguito alle quali la via di
S. Agata fu resa incongrua ad andandum nella sua parte bassa e fu abbandonata,
utilizzata solo, nella parte alta, dalla viabilità locale. Per questo motivo la
conca di Solofra restò tagliata dalla pianura e non gravitò più su Montoro,
mentre acquistò importanza l’agglomerato difensivo del Pergola-S.
Marco intorno al castello di Serino. Questa nuova realtà fu sottolineata
anche dal fatto che Serino fu il centro di un archipresbiterato
dipendente dalla Chiesa di Salerno e che comprendeva, dalla parte della conca
solofrana, le parrocchie di S. Agata con la chiesa di S. Andrea e di S. Angelo
con la chiesa di S. Croce.
Questo territorio fu assegnato dal conte Ruggiero I di Sanseverino, come si chiamò Rota, al figlio Roberto I e da
questi a Roberto II, del ramo dei Sanseverino-Tricarico
con il quale si costituì il feudo di Serino con centro
il suo castello. Da questo momento nella conca solofrana si definirono due
territori appartenenti a Serino: il vico di S. Agata, che comprendeva tutta la parte pianeggiante tolta
a Montoro e il versante meridionale del Pergola col castello, e il vico di Solofra. Il territorio di questo feudo si ingrandì in seguito al matrimonio di Sarracena,
vedova di Roberto I, con Simone di Tivilla, potente feudatario
di Montella, da cui la donna ebbe come dotario un’ampia parte pianeggiante di Serino fino al
Sabato.
Questo feudo fu governato da Sarracena
durante l’assenza del figlio Roberto II e poi dallo stesso Roberto. Entrambi abitarono il castello di Serino, dove aveva sede la corte e
dove furono stipulati diversi atti legali.
Il feudo poi passò a Ruggiero II, figlio di Roberto II e al figlio
di costui Giacomo, che assegnò Solofra come dote alla figlia Giordana, sposa di Alduino Filangieri, mentre il grande casale di S. Agata
col suo castello rimase nel feudo di Serino.
Intanto il Meridione fu occupato dagli Angioini (1266), il cui re,
Carlo I d’Angiò, assegnò 1/3
del casale di S. Agata ad Alduino Filangieri per premiare la sua fedeltà e
punire i Tricarico che gli si erano opposti.
Da questo momento si ebbe la divisione del grande
casale di S. Agata in due parti. La parte alta (ora detta S. Andrea) con il
castello fece parte di Solofra e costituì il casale di S. Agata di sopra o di
Solofra,
la parte bassa restò a Serino e costituì il casale di S. Agata di sotto o di
Serino.
Solofra, che fino al quel momento era denominata vico, cioè un’entità amministrativa autonoma, per questo
trasferimento si chiamò castro. Tale denominazione, documentata nel
1283, sottolinea la maggiore forza difensiva
acquistata dal territorio, che in questo modo in piena guerra del Vespro, si
presentò come un luogo sicuro in grado di offrire ospitalità ai profughi che
fuggivano dalle zone teatro di guerra. Essi infatti
vennero in massa ed occuparono le zone pianeggianti della conca indicate col
toponimo di Celentane.
In questo periodo, sia per le esigenze della guerra del Vespro,
che ebbe momenti cruciali nella pianura a sud di Salerno e che portò ad un
rinforzo dei castelli anche di zone non direttamente ad essa
interessate, sia per la nuova situazione acquisita dal territorio, è possibile
ipotizzare un ampliamento del punto fortificato solofrano. La costruzione
acquistò le forme definitive con le torri quadrate sporgenti dalla cortina e
l’andamento rettilineo da torre a torre. La carenza di
dati documentali non ci permette di dire in che modo fu utilizzato il castello,
ma dagli ambienti individuati nel castello, costituito da un piano nobile, di
tre stanze con una cappella, si può ipotizzare che in questo periodo dovette
ospitare la corte di Giordana e del figlio Roberto, quando si trasferiva qui,
ma bisogna tenere presente che i Filangieri ebbero la sede del feudo a Candida
dove fu sepolto Filippo nipote di Giordana. Sicuramente il castello accolse le
truppe poste a controllo del passo e dei traffici commerciali ed ebbe uno
stretto rapporto con Turci, dove c’era la dogana e dove erano collocate le
postazioni di controllo del passo delle Universitas di Solofra e di Serino.
Che il castello fosse ai difesa dei
traffici che interessavano l’attività solofrana è dimostrato dalla strada,
detta salmentaria - il nome ne indica l’uso
- che, partendo dalla zona del galdo, dove c’era una taverna e un
deposito, giungeva al carrano - altro
nome che ne indica l’uso - saliva lungo
la parte ovest della collina del castello, passava dinanzi al fortilizio proseguendo
per Turci, dove c’era la stazione di servizio del passo.
Sicuramente fu interessato ai fatti rivoltosi che coinvolsero i
cittadini di Solofra e dei luoghi vicini tra il 1340 e il 1341 e poi intorno al
1380 tanto che ci vollero due indulti concessi dai re
angioini per pacificare gli animi e sicuramente fu interessato ai contrasti tra
le Universitas di Solofra e di Serino per alcune
terre occupate da Solofra fin dal tempo dell’acquisizione del casale di S.
Agata di Solofra e contestate da Serino.
Quando il ramo maschile dei Filangieri di Solofra e di Candida,
che avevano anche il feudo Avellino, si estinse, in
attesa che si risolvesse la questione dinastica - siamo nel 1409 - il re angioino
assorbì nel demanio regio i feudi dei Filangieri e quindi anche Solofra, per
cui alla custodia del castello - siamo
nel 1409 - fu posto un rappresentante
della corona.
In questa occasione avvenne il fatto
d'armi più saliente che abbia interessato direttamente il castello e cioè lo
scontro tra Francesco Zurlo e Filippo Filangieri, detto il "prete" di
un ramo cadetto. Poiché la crisi dinastica si protraeva lo Zurlo, conte di
Montoro, forte della influenza che aveva alla corte angioina, occupò il castello di Solofra, sperando di poterlo
inglobare nel suo feudo. Il pretendente Filangieri, a capo di una propria banda
e con l’aiuto del feudatario di Serino, Antonio della Marra che aveva mire su
Montoro, pose l’assedio al castello, siamo nel
Legato a questo episodio deve porsi la
costruzione del rivellino intorno alla torre di est. È
questa una fortificazione del XV secolo che a lo scopo
di difesa veniva costruita nel punto più vulnerabile del maniero, che per il
castello di Solofra era appunto il lato est quello che guardava il passo di
Turci.
La questione dinastica del feudo di Solofra si risolse a favore
dello Zurlo, per cui il castello passò sotto il
controllo di questa famiglia feudale, ma anche questa lo usò solo per le truppe,
infatti a Solofra abitò in un palazzo proprio. In questo periodo si può
individuare l’uso del castello come carcere, infatti
il capitolo 69 degli Statuti concessi da Ercole Zurlo parla di cause civili e
criminali e tratta del “portello” e della “carceremia”,
che sono due tipi di tasse a carico dei carcerati. Questo significa che a
Solofra vigeva un sistema carcerario complesso che interessava anche il
castello dove c’erano le carceri, dette "di sopra".
Nel 1512 ci fu un momento in cui il castello fu al centro di un
fatto di armi, quando Ludovico della Tolfa occupò con le sue truppe Solofra ponendo in fuga
Ettore Zurlo, che però riuscì in breve tempo a riprendersi il feudo.
Nel 1528, quando il Napoletano fu interessato dalla guerra contro gli spagnoli condotta dal generale francese Lautrech, che pose l’assedio a Napoli, Ercole Zurlo inviò
le sue truppe in aiuto del francese mettendo il castello di Solofra a
disposizione delle retrovie dell’alleato. In quel tempo a guardia del castello
c’era la famiglia di Stefano Guarino che ne aveva
anche la cura. Si può citare un episodio emerso dai fatti che travagliarono
Solofra durante la peste di quell’anno e che colpì
fortemente la zona tanto che si contarono più di trecento
morti. Si ha infatti notizia che dal castello
un appestato fece testamento al notaio che era nello spazio antistante per
evitare, secondo l’uso del tempo, il contagio.
Con l’avvento degli Orsini il castello entrò
nel contratto di vendita del feudo. Esso infatti fu
tra i beni feudali dati dalla Universitas alla
feudataria Beatrice
Ferrella Orsini che comprò il feudo. Si conosce il suo valore che
insieme all’oliveto che vi era intorno risaliva a 1000 ducati. Il maniero fu
oggetto anche di due articoli degli Statuti concessi dalla Orsini
alla comunità.
Nel primo la feudataria si impegnò a non
pretendere dall’Universitas la custodia del castello
e di porvi persone adatte con adeguato salario.
De non dare guardia al castello et alli carceri
Item se supplica che detta universita et homini
de epsa non siano tenuti per modo alcuno a la reparatione che farsi se
volesse fare in lo castello ne ad fabrica alcuna ne
ad manotensione ne ad guardia di esso ne ad qualsevoglia altro subsidio et non siano tenuti ad construzzione
reparatione fabrica et manotensione de qualisevoglia carcere o casa dove se havera
da regere justitia. + Placet Illustrissime Domine verum dicta Universitas
non possit uti dicto capitulo.
L’articolo conferma l’uso del castello come carcere. Da quest’altro articolo si deduce che era usato per chi si
macchiava di delitti più gravi.
Che li carcerati non se possano extraere da
la terra.
Item supplicatur
che li carcerati quali pro tempore
seraino cetatini o habitanti in ditta terra tanto in le prime quanto quando contingerit in lle seconde cause
detta Illustrissima signora et soi
officiali qualsevogliano non le possano ne vogliano quovismodo et quavis
causa etiam justissima extraherelo dalle carcere destricto
et pertinente de detta terra et
soi casali ma quilli habia da tenerelle et fare stare carcerati si non in lle
carcere delle casi et palazo
dove se regera corte et li
criminali in altro carcere più suso considerata tanem qualitate personarum et che se li possa
dare ad magnare et parlare
a li tempi et hore debite et che lo capitanio habia da stare et regere la corte et justitia in piaczia publica de ditta terra. + Placet Illustrissime
Domine.
Dello exigere de portello.
Item quod capitaneus qui pro tempore fuerit in dicta curia non possit exigere nec exigi facere
jura portelli in aliqua quantitate a carcerato etiam quod carceratus in carcere pernoctaverit pro qualibet causa nec civili nec criminali; placet non pernoctando
et pernoctando essendo la compositione civile et criminale
da ducati dui in suso pagha grana cinco; et da carlini vinti fi a dieci
paghe grana tre, et da diece
in bascio niente reservata
la carceremia. [+ Placet
illustrissime Domine Ducisse
iuxta decretationem excellentis predecessoris in
presenti capitulo contentam
observari].
Altro momento da sottolineare fu il
periodo della rivolta del 1647 (“Rivoluzione di Masamiello”),
quando il napoletano fu attraversato da bande di rivoltosi contro le prepotenze
baronali. In quella occasione l’Orsini si rifugiò,
protetto da un gruppo di fedeli, nella grotta del "sasso" sui
monti ad est mentre il castello fu alla mercé dei
rivoltosi.
Un altro momento importante fu il periodo della rivoluzione
del 1799. Durante gli arresti del 1798 il
castello accolse i giacobini della zona tra questi Ferdinando Landolfi, padre di Luigi Landolfi, che
poi fu liberato allo scoppio della rivoluzione. Poi fu la volta delle truppe
della municipalità, guidate da Eleuterio Ruggiero, che presero stanza sul castello
occupandolo per alcuni giorni prima di scendere a Solofra per instaurare il
governo rivoluzionario ed occupare il palazzo Orsini. Quando poi si sviluppò la
controrivoluzione sul castello ci furono le truppe
guidate da Pasquale
Ronca.
Già prima di quest’anno l’Orsini usò il
fondo intorno al castello come un bene proprio, infatti
nel 1785 ne fece oggetto di una concessione enfiteutica perpetua fino alla
terza generazione a Gaetano Tura figlio di Biagio e di Grazia Giliberti per 20
ducati l’anno.
Quando nel 1809 il Meridione si liberò del sistema feudale furono
poste in vendita tutti i beni feudali, sia quelli
direttamente appartenenti agli Orsini che quelli di gestione del feudo come il
castello e il suo oliveto. L’Orsini non restituì questo bene. La causa feudale
fatta dalla Universitas di
Solofra contro il feudatario con sentenza n. 119 del 28 maggio del 1810 affermò
"che essendosi dall’ex barone usurpato il castello con molte circonferenze
si era formato un vigneto" e gli ingiunse "di restituire l’usurpato
con i frutti percepiti". Il bene però non fu restituito. In questo anno si ha l’ultima definizione dell’immobile come
"castello".
Il fondo intanto per la morte di Gaetano Tura nel 1804 era
passato al fratello Tommaso, poi entrò a far parte della prebenda del
primicerio Gennaro
Tura e nel
catasto napoleonico, di lì a pochi anni, i beni in località castello furono divisi in tre particelle: querceto, territorio sterile e
vigneto. Poiché nel 1831 non erano state soddisfatte dall’affittuario alcune
annate alla casa di Gravina, questa chiese al Tura la
restituzione del bene (12 marzo 1831). Costui si rivolse a Rocco Didonato, a cui vendette
il dominio utile del fondo (23 maggio 1831). L’anno appresso il Didonato comprò il dominio diretto del fondo rustico da
Giacinto Orsini della Casa di Gravina, figlio ed unico erede di Filippo
Bernardo Orsini attraverso il suo procuratore avvocato Giovan
Vincenzo Maffei del Toro soprano.
In questa occasione si hanno tre
descrizioni dell’ex-castello. Una prima citazione fu fatta nell’atto nel notaio
di Napoli, Giuseppe Talamo, il 14 aprile del 1832, dove Giacinto Orsini dava la
procura a Giovan Vincenzo Maffei della vendita del
"fondo
rustico denominato castello con casamento antico semidistrutto". La seconda citazione è
nell’atto di acquisto stipulato a Solofra dal notaio
Filippo Giliberti, il 23 maggio successivo, dove si parla di "rustico con antiche fabbriche semidirute inclusa una torre e cinto di siepi". La terza descrizione fu
fatta nella valutazione del fondo avvenuta il 12 giugno seguente ad opera degli apprezzatori,
Sabato Antonio Giannattasio e Domenico Maffei, che parlarono di "casato rurale composto di tre
soprani e un sottano con adiacente aia di fabbrica e i rottami di altro diruto grandioso edificio". Il 12 giugno del
Tali definizioni rientrano nei profondi cambiamenti avvenuti con
la fine del feudalesimo nel Regno di Napoli e con la devoluzione dei beni
feudali che divennero beni privati. Il castello, che
si trovava in un fondo rustico usato come tale, divenne anch’esso immobile
rustico e per motivi fondiari tese ad essere descritto in modo riduttivo come
sopra chiaramente si vede.
Circa l’acquirente vale dire che il
sacerdote Rocco
Didonato era figlio di Giuseppe appartenente alla famiglia proprietaria del jus di patronato della chiesa di S. Nicola di Bari alle scanate posta sul lato sud della collina del castello, di cui il Didonato nel 1832 era divenuto procuratore succedendo al
defunto fratello Vincenzo. Poiché la chiesa era dotata
di due oliveti sulla stessa collina, confinati con il "fondo
castello", l’acquisto portò la famiglia Didonato
a divenire proprietaria di buona parte della collina del castello. Rocco Didonato, nato nel 1799, fu un sacerdote molto attivo a
Solofra lungo tutto il secolo, ancora nel 1879 fondò un Monte dei pegni per sostenere i bisogni
finanziari dei piccoli commerciati ed artigiani solofrani, morirà
alla fine del secolo. Nel 1911 il fondo si trova intestato a Bartolomeo
(1828-1911) fu Michele per successione di Rocco, suo
zio, perché fratello di Michele, quindi nel 1926 fu intestato ai fratelli
Giuseppe e Napoleone fu Bartolomeo e nel 1935 al solo Napoleone.
All’inizio di questo secolo il canonico Antonio Giliberti nel suo
Pantheon Solophranum, dove parla di
uomini e cose solofrane, dice: "Su la collina, che guarda di fronte il Duomo di
S. Michele sorgeva un castello; e ne ritiene il nome oggidì. L’antico
fabbricato è quindi scomparso, essendo stato trasformato con recenti addizioni
in Casino; e parte in casa rurale".
Negli anni del XX secolo si può porre
l'abbandono dell'immobile e quindi la sua riduzione a rudere che ancora oggi si
vede sulla sommità della collina occupata lungo i suoi lati sud ed est da
insediamenti abitativi.
Tra
realtà e fantasia.
Fin qui la ricostruzione storica del maniero a questo punto se ne
può tentare una descrizione attingendo a diverse
testimonianze orali certosinamente raccolte da
Ines Pirolo in molti anni di ricerca e che
si riferiscono a fatti avvenuti anche all’inizio del Novecento. Esse,
adeguatamente confrontate tra loro e con la planimetria, permettono di
tracciarne un profilo alquanto chiaro e precisarne alcuni aspetti costruttivi.
Abbiamo lasciato, indicandola di volta in volta, qualche nota di fantasia che
mostra come il maniero, proprio per la mole delle sue fattezze che strideva con
il suo utilizzo, suscitasse l’immaginazione, quasi che
quelli che ne hanno parlato abbiano voluto ridare dignità alla costruzione. Le
persone intervistate, molte delle quali decedute, lo hanno visitato
quando era ancora in parte integro e nelle fattezze mostrate dalla
fotografia.
Il bene continuò ad essere usato forse ancora all’inizio del
Novecento come casa colonica ed accolse una famiglia di contadini che aveva cura delle terre circostante e che lo adibì a deposito
di fieno e di diverse derrate, a rifugio per gli animali e a tutti i servizi
necessari per la vita rurale. Si dice che lo abbia
abbandonato dopo diversi anni perché disturbato, specie di notte, da diversi
"fenomeni e da rumori che provenivano dal sottosuolo".
Per raggiungere il castello bisognava prendere una mulattiera
lungo la quale c’erano piccole costruzioni, forse posti di guardia e che aveva
a tratti dei gradini.
Giunti sul pianoro ci si trovava in uno spiazzo in terra battuta
dove, sul piano antistante la costruzione, sul lato est, c’era un pozzo.
Intorno a questo elemento la fantasia non manca di
alimentare le favole che si dicono intorno ai castelli e ai loro ambienti più
suggestivi. Anche qui dunque si parla del duca che,
usufruendo del "diritto alla prima notte", se trovava la ragazza non
vergine la faceva buttare nel pozzo. Questo in realtà faceva parte
dell’approvvigionamento idrico insieme a vasche in pietra che raccoglievano
l’acqua piovana dell’intero castello e alla cisterna posta nella torre di ovest. L’acqua veniva da Turci attraverso una serie di archi che nel XVI secolo erano detti di antica fabbrica e
già allora diroccati.
Altre testimonianze parlano di un cunicolo che dallo spiazzo
portava al sotterraneo, questo è descritto come un ambiente seminterrato che
occupava tutta l’area della costruzione aveva il
pavimento in terra battuta e il soffitto a volta di materiale tufaceo; era
munito nella parte alta di piccole finestre ovali con grate di ferro che
guardavano la montagna a nord. Comunicava per mezzo di stretti corridoi con le
due torri.
La facciata principale del castello era volta a nord, su di essa si apriva l’ingresso che aveva un portale ad arco in
pietra ed un portone in legno, dicono le testimonianze, "molto
bello". La parte sud era protetta da un muro di cinta che delimitava un
passaggio largo circa
Il piano terreno, leggermente rialzato, era formato
da un grande ambiente rettangolare con tre finestre quadrate con grate di ferro
volte a nord. Il pavimento era in cemento e pietra finissima detto astrico. In esso si apriva una botola con copertura in legno, attraverso
la quale si accedeva a un ambiente pavimentato in terra battuta che aveva, in
un angolo, un grande recipiente di coccio ancora esistente nel 1926.
Nell’ambiente a piano terra, che sembra non essere unico, c’era
una scalinata in fabbrica che, lungo il muro perimetrale di destra, conduceva al secondo piano in un ambiente chiamato sala, intorno a cui si aprivano altre
stanze una delle quali era adibita a cappella con affreschi, un’altra aveva un
grande camino e nicchie nelle mura con mensole. Tutte le stanze, sembra tre,
comunicavano tra loro con porte interne senza corridoio, avevano il pavimento
con piastrelle di coccio, il soffitto in legno
ricoperto con carta di vivaci colori, le porte in verde e giallo e le finestre
con gli infissi (testimonianze del 1924 e del 1925).
Dal secondo piano una scala, situata ad est, immetteva in un
ambiente (nella pianta indicato con la lettera D e C) con il soffitto ad arco
illuminato da una finestra e da cui partiva un cunicolo ad altezza d’uomo che si inoltrava verso zone sotterranee per molti metri con soffitto
a volta e materiale tufaceo ("pietre molto belle" dice una
testimonianza). Questo cunicolo ha suscitato la fantasia di coloro che lo hanno
visitato ed ha alimentato le favole che si raccontano in paese. Esso fu
esplorato da diversi intervistati quando da ragazzi si
divertivano a visitare il rudere. Gli stessi parlano di un identico cunicolo
scoperto nel palazzo ducale dal suo lato nord, quello che guarda il castello.
Queste scorribande giovanili, mai completamente portate a termine, hanno creato
la favola, molto insistente, di una comunicazione tra il castello e il palazzo
ducale. Qui furono trovate vari tipi di armi: lance
spade ed armature, accette e roncole, archi e frecce.
Le
torri.
A quel tempo erano due secondo la planimetria e le fotografie. Esse
permettevano le comunicazioni con altre postazioni di difesa della conca, Castelluccia e Chiancarola, e
della pianura di Montoro e controllavano le due vie di accesso
ad ovest e ad est. Attraverso strette delle scale interne si accedeva
alla loro sommità e quindi ad una terrazza con balaustra. Su ogni piano avevano
dei piccoli ambienti con feritoie.
La torre di ovest aveva al piano terra
una camera, chiamata "la grotta", con volta a botte e una piccola
finestra ovale. La torre di est aveva sul pavimento dell’ultimo
piano dei fori che permettevano di raccogliere l’acqua piovana in una capace
cisterna alla base della torre. In uno di questi torrioni vi era una vasca in
pietra di piccole
dimensioni.
La copertura aveva una parte in cemento, detta il cammino di
ronda, a cui si accedeva dalle torri attraverso due
botole, lungo il perimetro della costruzione c’erano feritoie (raggiungevano il
petto di un uomo) e merli (alti tre metri). La parte centrale era coperta da scannole di legno e tegole (testimonianza del 1924) ed un
ambiente dove c’erano tre botole che davano nelle stanze sottostanti, al centro
c’era un’asta a mo’ di portabandiera con delle leve adatte a manovrare gli
specchi situati sui torrioni del castello.
Altre
fantasie narrate intorno al maniero.
Alcuni hanno narrato di una esperienza
loro capitata, siamo negli anni sessanta, quando alcuni ragazzi si recarono al
castello e perlustrando il pozzetto che si apre nello spazio antistante vi penetrarono
trovandovi un percorso che li condusse verso il muro di cinta e in un ambiente
dove trovarono un mucchietto di monete d’oro ma mentre stavano per prenderle
uno dei ragazzi cominciò a gridare, a suo dire, graffiato da un grosso gatto
che i compagni non videro. Una volta fuori non si trovarono né i graffi né le
monete che qualcuno era riuscito a prendere.
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Ci auguriamo che oggi ci sia chi possa sopperire alla mancanza di
sensibilità storica della intera Comunità solofrana,
che avrebbe dovuto farsi carico di acquisire la costruzione e proteggerla come
testimone di un passato che è quello della stessa cittadina. Essa,
adeguatamente ristrutturata, avrebbe fatto bella mostra di sé in cima alla
collina e Solofra avrebbe avuto nelle sue forme un segno vetusto a suo simbolo,
di più di ciò che oggi è il palazzo ducale, di cui tutti giustamente andiamo fieri, ma che è di molto posteriore; mentre il suo
uso avrebbe dato un tocco di pregio alle attività di rappresentanza che la
nostra moderna cittadina programma.
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Il castello di Solofra si arricchisce di
un’altra testimonianza
Tra le carte di un
notaio serinese è venuta alla
luce una piantina del 1739 del nostro castello che è un documento di grande
interesse ed un importante recupero per la sua storia. La piantina, che
fu disegnata per commissione degli Orsini da Marco Papa, per la valutazione
del bene, in vista del rinnovo del contratto enfiteutico, descrive una
proprietà di 9 moggi per un valore di 500 ducati ed una rendita annua di 15
ducati, confinante con beni del Convento di San Domenico, di Giacinto e
Gennaro Maffei, della Cappella di San Nicola, degli eredi del fu Pietro Mottola e con la via.
La parte coltivata aveva una vegetazione molto varia che andava dagli ulivi,
alle viti, a molti alberi da frutta (meli, peri, fichi, prugni, ciliegi) fino
a noci, a castagni, a querce a cui si univa il seminato, secondo l'uso del
tempo. Il documento ci
propone due elementi di estremo interesse. Il primo
è la cerchia muraria che lo delimitava a sud e ad est dove formava un ampio
spazio, detto cortile, lungo il quale c'era una torre. Tale cinta si spezzava
a nord. C'era il rivellino,
una costruzione di rinforzo dei castelli, che risale
alla scontro tra Filippo Filangieri e Francesco Zurlo di Montoro per il
possesso di Solofra, e che circondava il lato orientale. La parte mancante fu
demolita nel 1565, mentre era in corso la costruzione del palazzo ducale
perché le sue pietre furono utilizzate in quella costruzione. L'altro elemento significativo sono le quattro torri. Le fotografie del
castello all'inizio del secolo scorso ci mostrano due torri ed anche le
descrizioni, raccolte certosinamente da Ines Pirolo
e rese da persone che lo avevano visitato prima che
si riducesse in rudere, parlano di due torri con scale che portavano al
camminamento di ronda posto sulla sommità. Questa piantina, dove chiaramente
di vede che il nostro maniero era fornito di altre
due torri, spiega l'affermazione di Antonio Giliberti che parla di vari
interventi che avevano stravolto l'aspetto del castello. Tracce di queste
torri mancanti furono ritrovate da Francesco Guacci che nel 1999 individuò la
torre di sud-est pentagonale di epoca angioina e quella di sud-ovest con cisternino.
Oggi il nostro
castello è entrato in una ricerca dell'Università, coordinata dal professore Aldo De Marco nell'ambito del corso di laurea
in Ingegneria civile. Alcuni dei risultati della ricerca in corso, svolta dal
laureando Nicola Capuano di Forino, saranno
illustrati nella mostra "Pietre tra le rocce" e al Convegno
"Luci tra le rocce. Colloqui internazionali "Castelli e città
fortificate" nel mese di aprile prossimo (29 e
30) presso il Campus dell'Università di Fisciano e
a Salerno. Ma ciò che più interessa è che la mostra
sarà donata al Centro studi di storia locale presso A conclusione di
questo breve intervento devo un doveroso ringraziamento allo studioso serinese Ottaviano Di Biase che mi ha permesso di avere
il prezioso documento. Il Di Biase dà alle sue ricerche, volte alla scoperta
della storia del suo paese, un significato molto profondo, infatti
quando si imbatte in un documento, che non riguarda il suo studio, invece di
lasciarlo dormire tra le antiche carte, ne fa partecipe chi ne è o ne
potrebbe essere interessato, come è successo in questo caso, mostrandosi
promotore e sostenitore della ricerca in senso proprio, la quale non deve né
restare chiusa nel piccolo orizzonte di un singolo studioso né essere fine a
se stessa. Ancora sul castello: che si possa giungere a farne il centro di
un parco. Si è fatto in questi
ultimi tempi, sempre più forte l'attenzione intorno al nostro castello, che
non solo è studiato dall'Università di Salerno, ma ora è entrato anche
nell'interesse di quella di Napoli ed è stato incluso nei beni architettonici
della nostra cittadina da salvaguardare. Vale a questo punto sottolineare che c'è stato chi, forse perché da sempre ha
vissuto tra quei ruderi ed ha imparato ad amarli, fino al punto di costruirne
un modellino che riproduce le forme di un maniero che ora non c'è più e che
noi abbiamo visto meravigliandoci come il nostro appassionato estimatore del
castello, parlo di Vito D'Urso di S. Andrea, abbia riprodotto esattemente, non solo la costruzione ma la cinta muraria
del castello con le sue torri proprio così come il disegno del 1739, di cui questo
giornale si è interessato il mese scorso, ce le ha mostrate. Esso ha
suscitato non solo in noi attenzione ma anche in studiosi della struttura che
ne hanno potuto verificare la fedeltà alle residue
reali forme quali esse emergono dal terreno. Intanto a noi
interessa qui soddisfare qualche curiosità storica su questa nostra struttura
difensiva. Essa fu tra i beni feudali consegnati dalla nostra Universitas
alla Orsini quando questa acquistò il feudo nel
1555. Se ne conosce anche il valore che, insieme all’oliveto circostante, era
di 1000 ducati. Il maniero fu oggetto di due articoli degli Statuti concessi
dalla Ferrella-Orsini alla comunità solofrana
all’atto dell’acquisto del feudo, nei quali la feudataria si
impegnò a non pretenderne dall’Universitas
la custodia e a porvi persone adatte con adeguato salario, confermando il suo
uso come carcere dove erano custoditi i colpevoli di gravi delitti. All’epoca il castello aveva perduto la sua funzione, e per tutto il
periodo del dominio orsino continuò ad accogliere i
carcerati e le truppe al servizio del territorio. Gli Orsini usarono come un
bene proprio il fondo rustico che nel 1735, fu concesso in enfiteusi perpetua
a Gaetano Tura, (figlio di Biagio e di Grazia
Giliberti) per 20 ducati annui. Nel 1804, alla morte del
Tura, passò al fratello di costui Tommaso, quindi entrò a far parte
della prebenda del primicerio Gennaro Tura. Quando all'inizio del XIX secolo il Meridione si liberò del sistema feudale
e furono posti in vendita i beni feudali, gli Orsini non restituirono a
Solofra né il castello né il suo oliveto nonostante la causa feudale (fatta
dalla nostra Universitas contro il feudatario) che
con sentenza n. 119 del 28 maggio del 1810 ingiunse loro "di restituire
l’usurpato con i frutti percepiti", cosa che non avvenne. In questa occasione si ha l’ultima definizione dell’immobile
come "castello". Nel catasto napoleonico, di lì a pochi anni, i
beni intorno al castello detti in località castello,
furono divisi in tre particelle: querceto, territorio sterile e vigneto.
Poiché nel 1831 non erano state soddisfatte da parte del possessore
dell'enfiteusi alcune annate alla casa di Gravina
questa ingiunse al Tura la restituzione del bene (12 marzo 1831). Il Tura si rivolse a Rocco Didonato
a cui vendette il dominio utile del fondo (23 maggio 1831). L’anno appresso
il Didonato ne comprò il dominio
diretto da Giacinto Orsini, figlio ed unico erede di Filippo Bernardo
Orsini, attraverso il suo procuratore Giovan
Vincenzo Maffei del Toro soprano. In questa occasione
si hanno tre descrizioni dell’ex-castello. Una prima citazione fu fatta
nell’atto del notaio di Napoli Giuseppe Talamo il 14 aprile del 1832, dove
Giacinto Orsini dava la procura a Giovan Vincenzo
Maffei della vendita del "fondo rustico denominato castello con
casamento antico semidistrutto". La seconda citazione è nell’atto di acquisto da parte del Didonato
stipulato a Solofra dal notaio Filippo Giliberti, il 23 maggio successivo,
dove si parla di "rustico con antiche fabbriche semidirute
inclusa una torre e cinto di siepi". La terza descrizione fu fatta nella
valutazione del fondo, il 12 giugno seguente, ad opera
degli apprezzatori, Sabato Antonio Giannattasio e
Domenico Maffei, che parlarono di "casato rurale composto di tre soprani
e un sottano con adiacente aia di fabbrica e i rottami di altro diruto grandioso edificio". Il 12 giugno del Tali definizioni rientrano nei profondi cambiamenti avvenuti con
la fine del feudalesimo nel Regno di Napoli e con la devoluzione dei beni
feudali che divennero beni privati. Il castello, che
si trovava in un fondo rustico usato come tale, divenne anch’esso immobile
rustico e per motivi fondiari tese ad essere descritto in modo riduttivo come
sopra chiaramente si vede. Circa l’acquirente vale dire che il
sacerdote Rocco Didonato era figlio di Giuseppe,
appartenente alla famiglia proprietaria del jus di
patronato della chiesa di S. Nicola alle scanate
posta sul lato sud della collina del castello, di cui il Didonato
nel 1832 era divenuto procuratore, succedendo al defunto fratello Vincenzo. Poiché la chiesa era dotata di due oliveti sulla stessa
collina confinati con il "fondo castello", l’acquisto portò la
famiglia Didonato a divenire proprietaria di buona
parte della collina del castello. Rocco Didonato,
nato nel 1799, fu un sacerdote molto attivo a Solofra lungo
tutto il secolo, ancora nel 1879 fondò un Monte dei pegni per
sostenere i bisogni finanziari dei piccoli commerciati ed artigiani
solofrani. Morì alla fine del secolo. Nel 1911 il fondo fu intestato a Bartolomeo (1828-1911) fu
Michele per successione di Rocco, suo zio perché fratello di Michele, quindi
nel 1926 fu intestato ai fratelli Giuseppe e Napoleone fu Bartolomeo e nel
1935 al solo Napoleone. All’inizio di questo secolo il canonico Antonio Giliberti nel
suo Pantheon Solophranum, dove parla di uomini e cose solofrane, dice: "Su la collina, che
guarda di fronte il Duomo di S. Michele sorgeva un castello; e ne ritiene il
nome oggidì. L’antico fabbricato è quindi scomparso, essendo stato
trasformato con recenti addizioni in Casino; e parte in casa rurale". La
trasformazione del castello in "Casino", cioè
al servizio della caccia, è confermata da una fotografia dell’epoca. Il suo
utilizzo in casa rurale è plausibile per quanto dicono i documenti e le
testimonianze orali. Comunque in quegli anni del secolo
scorso si può porre il suo abbandono e quindi la sua riduzione a rudere. Da
queste colonne si fanno vivi auspici affinché quello che resta di questa
nostra struttura difensiva venga posta in sicurezza
e possa fare da sfondo ad un luogo ameno meta di passeggiate e soste e che
ognuno possa godere da quel luogo, non tra rovi e serpi, uno dei più bei
panorami di Solofra. (Da "Il Campanile, 2003). |
Ulteriori immagini del castello e
documenti si trovano presso il Centro
studi della Biblioteca comunale
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