Approfondimenti 

La donna solofrana nel Cinquecento

 

Dall’ampia massa documentale dei rogiti notarili del XVI secolo emerge chiaramente che c’era una grande dicotomia intorno alla donna, la quale da una parte, come personaggio pubblico, sembrava non avere alcuna autonomia ed essere completamente dipendente dall’uomo, dall’altra invece, nella sfera privata, era molto presente e determinante.

Nell’atto legale che la riguardava più di tutto, il contratto di matrimonio, ella era rappresentata dal padre o dal fratello, ed anche quando il contratto si riferiva al secondo matrimonio ella non agiva mai in prima persona ma aveva accanto sempre una specie di tutore. Questa figura, chiamata mundoaldo, inoltre era quella che sembrava definitivamente sancire la dipendenza assoluta della donna dall’uomo, poiché era presente nell’atto legale anche quando la donna era esplicitamente rappresentata dal padre, dal marito, dal fratello o anche dai figli.

Il mondoaldo era un residuo del diritto longobardo (da mundio, una delle più remote istituzioni della legge salica) che voleva che la donna fosse per tutta la vita soggetta a tutela esercitata dal congiunto maschio più prossimo e che si conservò nelle terre longobarde, soprattutto nell’Italia meridionale, fino alle soglie dell’età moderna. Proprio nel contratto di matrimonio rimaneva un altro residuo di questo diritto nel fatto che lo sposo versava al padre della sposa "cinque tarì", che era il prezzo simbolico col quale acquistava la tutela sulla donna mentre il padre, sempre in questo contratto solofrano, espressamente rinunciava al mundio. Il mondoaldo dunque adempiva ai doveri sociali di protezione della donna ed esercitava le funzioni di rappresentanza giuridica. Se non c’erano congiunti prossimi si provvedeva a nominare un curatore, che in alcune istituzioni, come le Confraternite, era espressamente indicato nella persona del rettore.

Ma, come succede per ogni cosa che riguarda la vita quotidiana, la realtà era diversa. Infatti nonostante tutto questo apparato dai rogiti notarili emerge chiaramente che la donna era un elemento di sicura autonomia non solo nella famiglia ma anche nell’impresa economica di cui la famiglia era espressione. Citiamo di nuovo il contratto di matrimonio che non era altro che un contratto economico col quale avveniva un trasferimento di danaro o di beni (cioè la dote) dal padre della sposa allo sposo, il quale si impegnava di gestirli bene, di farli fruttare e di restituirli alla famiglia della donna se questa moriva senza figli. Dote che la donna riacquistava alla morte del marito, della quale poteva disporre in ogni momento della sua vita, se c’era una giusta causa, e che poteva impegnare per la formazione della dote delle figlie. Ed era proprio la dote, che l’aveva introdotta nell’azienda-famiglia, a darle la possibilità di prendere parte a tale azienda in modo attivo e non indiretto. A pieno titolo infatti ne faceva parte, assumeva ruoli di guida e di gestione e non solo quando il marito o i figli erano assenti per decesso, per viaggi o per altri motivi, e naturalmente poteva amministrare i beni alla morte del marito, e ne era usufruttuaria fino a quando non si risposava.

Ella inoltre era presente, insieme al marito o ai figli a tutti gli atti che riguardavano il complesso sistema di finanziamento di questa azienda-famiglia. Partecipava per esempio a quegli atti che si stipulavano quando c’era da avere un credito e quindi alla garanzia costituita dalla cessione di un bene consegnato a chi prestava il denaro. Ella allora stipulava l’ emptio, l’atto con cui si descriveva il bene da "alienare" e il patto di retrovendita che assicurava la restituzione del bene alla estinzione del debito. Questo sistema di approvvigionamento finanziario, diffusissimo a Solofra, dava importanza al patrimonio familiare che ne era completamente coinvolto e dava valore alla donna che con i beni portati in famiglia aveva contribuito a formare quel patrimonio.

Ella ancora col matrimonio permetteva l’ampliamento della impresa-famiglia, determinava l’alleanza con altre famiglie mercantili, sosteneva la politica di dominio nel casale o di trasferimento in un altro casale oppure causava l’unione con famiglie di altre aree economiche. Insomma, al di là di ogni diritto scritto, la donna per il fatto di essere parte integrante di questa dialettica economica, occupava di fatto un ruolo di indiscussa preminenza nella famiglia di cui diveniva il centro-guida, consigliava, proteggeva, partecipava a tutte le questioni era insomma il motore delle solidarietà familiari che in quei tempi erano di grande importanza poiché proteggevano dalla debolezza del sistema economico.

Ciò che è ancora più importante è che non perdeva mai la propria identità infatti conservava il proprio cognome ed era identificata sempre col ferimento al padre. Infatti continuava ad essere un’emanazione della famiglia di provenienza rivestendo spesso un doppio ruolo che tornava utile specie quando si verificavano situazioni di debolezza della famiglia. Un esempio di questo ruolo lo si ha in una famiglia solofrana che dalla zona di S. Agata si era trasferita al casale Fiume mediante l’alleanza familiare con una famiglia qui dominante. Ebbene quando per la morte del marito questa famiglia subì un tracollo economico fu la moglie a guidare la politica familiare, in attesa della maggiore età dei figli, poggiandosi sulla propria famiglia di provenienza.

I testamenti sono una spia molto importante di tutto questo. Essi rivelano che la donna gestiva con piena competenza l’attività finanziaria in assenza del marito e in presenza di figli minori, gestiva soprattutto il complicato sistema delle recoglienze, il denaro prestato e quello che era stato impegnato nell’attività mercantile o di produzione. Insomma ella sostituiva in modo completo l’uomo ed entrava con piene capacità in questo complesso mercato. Nel 1532 fa testamento Gevelisca de Rubano Guarino (si noti il riferimento al padre) relitta del fu Mazzeo de Gentile Guarino, una delle famiglie più importanti del casale delle Casate, come allora era chiamata la Cortina del cerro prima di entrare a far parte del più grande casale dei Volpi. Ebbene il testamento mostra una diffusa ed importante attività di prestito fatto dalla donna in prima persona. Era un piccolo prestito che nella maggior parte non superava il tarì quindi rispondeva a piccole esigenze familiari e che interessava anche, ma non solo, le donne nel quale la garanzia era costituita da beni di corredo, come lenzuola o bambacelli o anche dal legname di raccolta, le sarcine (fascine). Esso però si allargava anche al finanziamento delle gabelle fatto al gabellotto che comprava la gabella dalla Universitas visto che ella in prima persona non poteva farlo. Conduceva inoltre un sostanzioso commercio di legna da ardere con alcuni proprietari di selve. E tutta questa attività non era praticata dalla donna per necessità economiche dovuta all’assenza del marito perché Gevelisca aveva i figli adulti invece era un’attività autonoma anche nei riguardi dei figli che erano tra i suoi clienti nel prestito.

Si può dire ancora che l’autonomia della donna negli atti legali era assoluta nonostante la figura del mundoaldo che appare sicuramente una figura solo formale un po’ come quelle formule che si pongono negli atti e che servono solo a dare loro la forma legale. Per esempio è Antonella Caropreso nel 1522 a nominare il tutore del figlio Paolo di primo letto e quello per la risoluzione della questione della sua dote e lo fa alla presenza molto formale del secondo marito e del mundoaldo. In un altro atto Antonella Ladi nel 1523 alla morte del marito dichiara, cosa interessante per comprendere la posizione della donna nell’ambito della famiglia, che sono stati divisi i beni di famiglia tra i figli maschi (coloro a cui questi beni spettavano), che ella di questi è domina ac usufructuaria, che può abitare la casa di famiglia, prendere i frutti dell’orto, che deve ricevere dai figli 10 grani al mese vita durante, che deve essere soccorsa nelle necessità e nelle malattie, e che i figli hanno il dovere di dare la dote alle sorelle. Ed ancora Elisabetta de Scalia di Serino, moglie del fu Ippolito Giliberti, dichiara che alla morte del marito ha ricevuto la restituzione della propria dote e che è tutrice dei figli minori. Nei testamenti la donna appare completamente libera di indicare la propria sepoltura, che può essere, a sua scelta, quella del marito o anche quella della sua famiglia di origine, di stabilire lasciti alle chiese, ai conventi, a frati e preti, di fare una lunga serie di doni a parenti, amici e famuli e persino di elargire il pane ai poveri in occasione del proprio funerale.

Anche nei contratti di lavoro è presente la donna quando sottoscrive per il figlio maschio minore le norme che lo legano alla bottega dove egli inizierà la propria attività lavorativa come apprendista stabilendo il salario, le modalità di riscossione e rispondendo in prima persona del comportamento del giovane, come fa Polissena di Matteo de Stasio di Serino, vicino alla quale c’è la immancabile figura del mundoaldo nella persona del proprio fratello. Per quanto riguarda il lavoro poco appare in modo diretto dalle fonti notarili, ma attraverso alcune spie si può dire che la donna aveva una presenza qualificante nella rifinizione, quando le attività della concia si trasferivano nelle case e nei bassi, allora alcune attività, come l’asciugatura della pelle sui telai e la rifilatura erano di sua quasi esclusiva competenza.

Si deve infine tenere presente che questi dati non riguardano le donne dell’aristocrazia o delle classi elevate che partecipavano come cortigiane alla ricca vita delle città rinascimentali italiane, si riferiscono bensì alla vita quotidiana della donna comune di una media classe borghese e si deve considerare che la situazione che qui emerge non è quella che vivevano altre donne (anche in centri della provincia irpina) che sposandosi perdevano il proprio cognome e con esso la propria identità e che c’erano ambiti in cui la donna era considerata addirittura senz’anima. Si deve dunque all’habitat solofrano se qui da noi c’era una diversa realtà.

 

 

 

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