Elementi
di economia solofrana
All’inizio del Novecento
*
Società
Giliberti-Romano
La società
Ciriaco Giliberti-Nicola Romano "per l'esercizio
di una conceria di pelli e per la rivendita di lana", investiva un
capitale di ottomila lire.
Una
tradizione di famiglia.
Per entrambi i soci
la lavorazione conciaria costitutiva una tradizione di origine familiare
il padre di Nicola Romano, Raffaele, aveva infatti gestito per anni una
conceria, ma, quando suo figlio aveva intrapreso l'attività produttiva per
conto proprio, affidò a quest'ultimo i suoi capitali,
limitandosi esclusivamente a fornire prestazioni lavorative in qualità di
semplice operaio presso la sua conceria. Ciriaco Giliberti era in rapporti di
parentela con Vincenzo Giliberti, noto nella zona come "attivo e
intelligente" imprenditore, e da questi Ciriaco
ottenne in affitto la conceria di via Campi con i relativi strumenti di
produzione.
La conceria
La conceria in cui essi esercitavano
l'attività produttiva vera e propria si sviluppava su due livelli ed era
costituita da quattro vani al piano terra e da altri due vani situati al di sotto del livello della strada. Nel vano
immediatamente adiacente alla porta d'ingresso venivano
effettuate le operazioni preliminari della concia. Qui c'erano cinque
"tavole da steccare", che venivano
utilizzate per eliminare la lana dalle pelli, " un travetto
e uno scanno di legno castagno che serviva per ungere le pelli ". Nella
stanza accanto dove avveniva la rifinitura c'erano altri scanni, quattro tavole
per l'apparecchio dei cuoi, 17 baccelle per stendere
le pelli e una piccola caldaia di rame. Nei vani sottostanti dove c'erano otto tine di legno cerchiati in ferro,
avvenivano le operazioni di concia vera e propria.
Caratteristiche
L'impresa gestita da Nicola e Ciriaco
era un'attività a confine tra l'impresa e il negozio, non aveva solo finalità
produttive ma anche attività di vendita dei residui della lavorazione, tra cui
le lane ottenute dalla depilazione delle pelli grezze che fu
oggetto di una vivace e intensa attività di compravendita. Nonostante ciò i
profitti erano comunque esigui, tanto che spesso fu
necessario coprire i costi di esercizio col credito.
Era una piccola attività di carattere
artigianale impegnata prevalentemente sul mercato locale. Benché la conceria fosse dotata di una struttura adeguata a svolge anche
l'intero ciclo produttivo, la sua produzione realizzava prodotti a mezza
concia, i quali, per poter essere messi in commercio, necessitavano di
un'ulteriore fase di lavorazione: la rifinitura.
I
principali acquirenti del prodotto semifinito erano
alcune imprese locali di maggiori dimensioni, in particolare quelle di Pasquale
De Vita e di Francesco Buonanno che intrattenevano con l'impresa di Giliberti e
di Romano rapporti commerciali,
Il De Vita acquista dalla
società Giliberti-Romano 100 dozzine di pelli a mezza concia, che egli avrebbe successivamente raffinato, "perché come è
abitudine in paese solo pochi conciatori raffinano la loro merce e la riducono
allo stato di poterla mettere in commercio".
L'impresa di Giliberti-Romano
acquistava sulle piazze di Salerno e di Napoli le pelli grezze per poi vendere
il prodotto semiconciato alle imprese più
grandi di Solofra. Queste ultime, in forza della loro posizione dominante,
riuscivano quasi sempre a spuntare nelle
contrattazioni di compravendita il prezzo che risultava loro più conveniente. I
margini di profitto dell'impresa in questione risultavano, in tal modo, spesso
modesti, compressi come erano tra il prezzo che si
determinava, a monte del processo produttivo, sui mercati di approvvigionamento
della materia prima, e il prezzo che veniva imposto, a valle, sul mercato di
sbocco locale.
La crisi
Nel corso
del 1902 fu proprio un problema legato alla mancata realizzazione
di un prezzo adeguato a coprire i costi di produzione che spinse repentinamente
l'impresa verso la crisi economica. Secondo quanto gli stessi imprenditori
dichiararono in sede giudiziaria, nell'ambito del procedimento fallimentare che
si aprì a loro carico, essi andarono incontro al fallimento per aver subito una
grave perdita sul commercio del loro prodotto.
Noi avevamo sessantacinque quintali di pelli - riferì il
Giliberti - che non volemmo cedere al prezzo di lire 220 al quintale e poi
dovemmo venderla, dopo averla tenuto per lungo tempo
in magazzino, per lire 117 al quintale.
In tale
vicenda l'impresa registrò una perdita di 6.000 lire
che generò,
come effetto immediato, una situazione di insolvenza creditizia.
***
Ditta Vincenzo e Gaetano Giliberti
Vincenzo Giliberti e suo fratello
Gaetano, sulla base di un atto donazione, nel 1895
ebbero la proprietà dell'azienda paterna con un capitale commerciale di 20.000
lire.
Al fine "di regolare più
stabilmente per lo avvenire questo stato di comunione
a meglio stabilire l'andamento del loro anzidetto commercio", essi si
recarono dal notaio per stipulare un contratto di società. In questa, occasione
venne stabilito che l'attività sarebbe stata
esercitata sotto denominazione sociale di "Ditta Gaetano e Vincenzo f.lli
Giliberto" che sia gli utili che le perdite sarebbero stati divisi in
parti uguali e nel caso uno dei due avesse avuto necessità di ritirarsi
dall'attività, si sarebbe proceduto alla "liquidazione degli affari"
e a una divisione paritaria sia dell'attivo che del passivo dell'impresa.
Inoltre essi si assumevano l'impegno di effettuare una
"regolare tenuta dei libri di commercio, segnando tutti gli affari fatti a
nome della ditta"
Cinque anni dopo, il 24 giugno del
1900, i fratelli Giliberti, ritenendo "che non conveniva loro di
continuare il contratto di società e proseguire in comune le operazioni del
loro commercio, si sciolsero dal vincolo di società che li avvinceva [ ... ],
procedendo ad ogni conto di dare e avere nel rapporto tra di
loro e quello coi terzi".
Il documento notarile
non fornisce ulteriori specificazioni in merito alle
motivazioni che furono alla base di tale scelta. Né è possibile sapere se lo
scioglimento della società dette luogo anche a una
divisione della proprietà della struttura produttiva.
Nel 1904
Vincenzo Giliberti risultava proprietario di due
concerie e di diversi magazzini di deposito merci dislocati in varie parti del
paese. La conceria di via Campi veniva spesso data in
affitto, mentre quella situata al rione Toppolo, attigua alla sua casa di
abitazione, costituiva la struttura produttiva in cui egli esercitava
ordinariamente la sua attività. Questi era, enfaticamente descritto da un
giornale locale (Corriere di Avellino, n. 11) come
"giovane attivo e intelligente che studia tutti i mezzi per migliorare la
sua industria e la posizione dei propri operai" aveva ottenuto, solo
qualche anno prima, "lusinghieri attestati" nelle diverse esposizioni
di Bologna, Marsiglia e Baden, "esponendo i suoi
montoni lavorati".
I
locali dell'impresa
Nell'atrio che precedeva l'ingresso principale dell'abitazione,
immediatamente adiacente alla conceria, vi erano due magazzini di deposito,
" uno contenente pelli conce, ed un altro pelli
grezze". Altri due depositi, invece, erano situati lontano dal luogo di
produzione, uno " alla via delle concerie" e l'altro alla "via
Magnolie".
La conceria di via Toppolo si sviluppava su
due livelli. Al pian terreno vi erano due ampi vani contenenti 18 vasche in
muratura, e altri due vani con vari cavalletti in
legno. Al primo piano, invece, a cui si accedeva
mediante una scala esterna, si trovavano tre luminosi locali adibiti "per
l'apparecchio" delle pelli, più un'area scoperta riservata ad uso di spanditoio. Su questo stesso piano si trovava anche "
uno studietto in legno
contenente libri e carte del commercio ".
L'attività
Vincenzo Giliberti era impegnato
nella realizzazione dell'intero ciclo produttivo, che
andava dalle fasi di concia a quelle di rifinitura. La peculiarità di questa impresa risiedeva soprattutto nella capacità di
commercializzare il proprio prodotto su scala più ampia rispetto alla media
delle imprese locali. Giliberti, infatti, disponeva di
una rete di distribuzione che contava alcuni punti di vendita situati a
Salerno, Messina e Marsiglia, la cui gestione era affidata a una serie di
agenti di commercio che operavano anche a Milano, Genova, Roma, Santa Croce
sull'Arno.
La crisi
Nel
***
Ditta De Santis
Nel 1910
la "Ditta De Santis" rimase vittima della
procedura fallimentare in seguito al fatto che "le pelli comprate allo
stato grezzo ad un prezzo corrente sul mercato, furono con gran difficoltà
lavorate e restarono per molto tempo invendute, poi si
dovettero vendere ad un prezzo inferiore a quello di acquisto"'.
L'impresa De Santis
operava nel settore conciario dal 1902 e, nonostante la breve interruzione
provocata dal fallimento del 1910, continuerà ad
essere attiva fino al 1932.
Un’impresa familiare
La gestione dell'impresa avveniva
all'interno del nucleo familiare e la stessa realizzazione
del processo produttivo vedeva la diretta partecipazione di ciascun membro
della famiglia. Nicola De Santis, titolare della
ditta, esercitava "con capitali propri l'industria della concia" in
collaborazione con suo fratello Giovanni, il quale si occupava, tra l'altro,
anche di "acquistare e rivendere merce conciata per fuori Solofra".
Allo stesso tempo essi si avvalevano anche delle prestazioni lavorative fornite dal padre, Michele, che, nonostante la sua avanzata
età, forniva comunque un prezioso contributo alla conduzione dell'azienda.
La conceria
"Lo stabile ad uso di
conceria" era stato preso in affitto dal conte Emanuele Garzilli ed era
composto da tre vani situati a pian terreno,
"l'uno a destra del cortile entrando ed in fondo, e gli altri due più
sottostanti a destra ed a sinistra dell'androne che dal detto cortile conduce
al giardino di Emanuele Garzilli". Il primo dei suddetti vani veniva utilizzato come magazzino di deposito merci, mentre
gli altri due venivano impiegati per effettuare le operazioni di concia. Qui,
infatti, vi erano 11 vasche a muro, 3 botti, 4 tinelli e gli altri attrezzi e
ferri del mestiere. La conceria non disponeva della
consueta area adibita a uso di spanditoio, né dei
tradizionali strumenti di lavorazione necessari ad effettuare le operazioni di
rifinitura.
Conto
terzi
Michele e
Giovanni De Santis, oltre a comprare pelli grezze e
rivendere il prodotto semifinito, si
"industriavano pure a conciare pelli per conto altrui". Durante le
fasi di inventario dei beni suscettibili di
pignoramento, infatti, essi dichiararono che parte del quantitativo di pelli in
fase di lavorazione presente nella propria fabbrica non era di loro proprietà e
che ad essi ne era solo stata affidata la lavorazione. L'impresa, dunque,
operava anche su commissione di alcuni operatori
conciari locali che provvedevano anche a rifornirla della materia prima necessaria.
La produzione per conto terzi si realizzava
"senza alcun, contratto scritto, ma per contratto verbale e per antica
consuetudine".
***
Ditta
Giannattasio
Impresa familiare
La famiglia del Giannattasio era una
famiglia di operatori conciari cui la proprietà
dell'azienda era stata trasmessa di padre in figlio e dove pertanto la gestione
dell'impresa era stata tradizionalmente associata alla proprietà degli impianti
di produzione.
La conceria
Nel 1897 Francesco Giannattasio, si
trasferì "a Buenos Aires chiamato dalla sorella,
che dimorava colà con la famiglia, per collocarlo in una fabbrica di conciar
pelli". Nel 1901 dato che in famiglia non vi era nessuno
in grado di portare avanti la gestione dell'azienda paterna, sua madre, in
qualità di legittima amministratrice dei beni dei suoi figli minori Felice e
Annina, concesse in affitto "la fabbrica ad uso di conceria di loro
proprietà ".
Qualche anno
più tardi Felice, raggiunta la maggiore età, assunse la gestione dell'impresa.
Attività
Nel corso dei primi anni del Novecento
quest'impresa riuscì a sviluppare una fitta rete di
contatti commerciali con quelle che erano state le aree storiche di insediamento dell'industria conciaria settentrionale,
come Genova, Milano e Torino.
Nell'ambito dei mercati meridionali,
invece, i rapporti commerciali dell'impresa Giannattasio risultavano
del tutto assenti con la piazza di Salerno, mentre erano alquanto intensi i
legami con Napoli e in particolare con la "Ditta Gennaro Maffettone". L'impresa Giannattasio quindi aveva
sviluppato rapporti abbastanza articolati con il mercato, a cui ricorreva anche
per il reperimento della forza lavoro.
Infatti, benché Felice prendesse egli stesso direttamente parte alla realizzazione del processo
produttivo, si avvaleva anche delle prestazioni lavorative fornite da cinque
operai che percepivano un salarlo di 2 lire e 90 centesimi ciascuno.
Nel 1910
La
crisi
La causa che generò il tracollo economico dell'azienda fu determinata da una perdita verificatasi in
seguito "al ribasso di prezzo" subito da una partita di pelli che il
Giannattasio aveva acquistato alcuni mesi prima dalla ditta Righetti
di Napoli.
Il fallimento non dette luogo, però,
alla definitiva scomparsa dell'attività produttiva, dato che si fece ricorso all'istituto giuridico del concordato, mediante
il quale si pervenne ad una mediazione fra la massa dei creditori e
l'imprenditore insolvente.
La
ripresa
Superata la situazione critica, il
Giannattasio continuò ad esercitare la propria attività e alcuni anni dopo, nel
1918, "la sua fabbrica di cuoio per suola" fu tra la
poche imprese solofrane che ebbe modo di ricevere la visita della
"Commissione ministeriale per l'incremento dell'industria conciaria",
nel corso della quale, "osservandosi i cuoi in corso di concia, tutti
ebbero a complimentarsene con il direttore proprietario".
La ditta Giannattasio continuerà a essere attiva e comparve negli elenchi degli espositori irpini redatti dalla Camera di Commercio di Avellino nel
1931.
Da V. Ascione, L'industria
conciaria di Solofra tra fine Ottocento e primo Novecento: un caso di distretto
industriale, in AA.
VV., Manifatture e sviluppo economico nel
Mezzogiorno. Dal Rinascimento all'Unità, a cura di F.
Barra, Avellino, 2000
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Nel corso del primo conflitto mondiale 7 aziende solofrane
partecipano
alle fornitura militari del settore conciario
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