Francesco
Guarini
visto
da
Michele
Grieco
Fu uno dei primi studiosi del pittore solofrano con
la sua opera Francesco Guarini da Solofra nella pittura
napoletana del ’600,
Avellino, 1963 (da cui sono tratte queste osservazioni).
La
pittura napoletana nel Seicento
Il Seicento napoletano nella
pittura fu una delle migliori stagioni dell’arte meridionale, un vitale momento
in cui per la prima volta Napoli fu in primo piano in
Italia e in Europa.
Gli artisti che dominarono nella
pittura napoletana del secolo, subirono l’influsso del Caravaggio
durante i suoi due soggiorni a Napoli (1606-1607 e 1609), che fu una lezione
attenta al mondo reale (“realismo caravaggesco”) e
con un modo tutto nuovo di usare la luce e il colore. Furono abbandonati allora
i temi, i moduli e gli stili della scuola manieristica, artefatta e soprattutto
non vera, caratteristica della pittura napoletana.
Il nuovo modo di rappresentazione
pittorica ebbe due filoni: uno seguito da Giuseppe Ribera che dette più forza alla drammaticità del Caravaggio mettendo insieme il “buono” e il “perverso”, il “lieto”
e il “macrabo”,
il “sacro” e il “profano”, oppure alternò ora l’uno ora l’altro di
questi elementi contrastanti; e l’altro seguito da Massimo Stanzione,
che invece attenuò le violenze e le asprezze del Caravaggio.
Queste due diverse poetiche
artistiche, di comune origine caravaggesca, si
andarono differenziandosi e non ebbero punti d’incontro tranne che in Francesco
Guarini, rude e potente, che svolse un ruolo di primo piano in questo periodo
rivoluzionario della civiltà pittorica napoletana.
Napoli, a causa della esperienza del Caravaggio
diventò, insieme a Bologna e a Roma, il centro più importante della penisola,
in cui gli artisti riuscirono a tradurre in opere nuove la iconografia, i
valori e le conquiste del grande Maestro, soprattutto nel grande ruolo dato
alla luce unita al colore nella costruzione delle figure e degli ambienti.
Il primo ad apprendere la lezione
caravaggesca fu il Battistiello poi seguirono il Ribera,
lo Stanzione, il Guarini, il Fracanzano
ed altri.
Il Ribera
improntò le sue opere ad un “naturalismo plebeo”, i suoi personaggi diventarono
“tormentati” attraverso l’uso audace della luce ed ebbe una cerchia di allievi che sentirono l’influsso della sua potente
personalità. Anche
l’altro maestro, lo Stanzione, usò la luce nel modo caravaggesco dandole la funzione di modellare le cose
rappresentate, ma fu meno crudo.
Attorno a questi due seguaci
della lezione del Caravaggio si collocarono tutti i
discepoli che impararono questa nuova modalità per esprimere l’esperienza della
vita quotidiana, del vero e della natura. Soprattutto l’uomo fu protagonista
delle opere di questi artisti, rappresentato come un pastore, un viandante, un
provinciale angariato dalla prepotenza del baroni,
oppure fu una madre in ansia per l’avvenire dei figli, insomma fu il mondo
degli umili e degli oppressi ad essere rappresentato.
La lezione del Ribera o dello Stanzione per i
seguaci delle due scuole non fu un’adesione astratta, ma una cosciente adesione vissuta e fatta propria. Lo si
vede nelle loro pennellate forti e spesse, nei loro giochi di luce, nei volti
piegati ed estenuati dalla fatica quotidiana o erosi dagli anni.
I vecchi pezzenti ricoperti di
lane pesanti o di pelli pecorine, i pastori assonnati e seminudi, i patriarchi,
le madonne, i santi ritratti nell’esperienza
quotidiana, le figure tolte dalla bottega artigiana e dalla strada e messi in
risalto dalla luce e dal colore nelle opere di questi artisti hanno un grande
significato. Tutti questi soggetti fecero sì che questa arte
divenisse documento di una condizione sociale in fallimento, la denunzia di
un’ingiustizia disumana, l’interpretazione di un mondo che s’avviava al
tramonto. Così nelle chiese del meridione si diffuse la lezione del Caravaggio con tele violente e forti, popolate di autentici esseri umani, fratelli nella lotta per
l’esistenza , molto più vicini e confidenziali.
La stagione di questi artisti
però fu breve infatti si concluse tragicamente, sopraffatta
dalla terribile pestilenza. Essa ebbe come ultimo rappresentante il Cavallino
che riassunse tutto il travaglio degli artisti che lo avevano
preceduto anticipando le conclusioni a cui perverranno gli artisti del
Settecento.
Francesco Guarini
Il primo Guarini.
Nel quadro e nei fermenti della
pittura dell’epoca va collocata l’opera di Francesco Guarini, nato a Solofra
(1611) e venuto giovanissimo a Napoli seguendo il padre Giovan
Tommaso, che con i suoi concittadini si recava nella città per difendere i
privilegi solofrani contro le pretese del feudatario Pietro Orsini.
Il giovane Francesco apparteneva
ad una famiglia di artisti. Pittore era stato il nonno
Felice (dipinse un «San Giuliano» nella omonima chiesa
di Solofra), pittore e scultore era il padre (autore di una «Pietà»
nel refettorio di S. Maria delle selve, dei 21 quadri del soffitto della navata
centrale della Collegiata e delle 25 tele del soffitto della chiesa
dello Spirito Santo.), un pittore manierista, arido, ma con una vena inventiva
soprattutto nei temi paesaggistici. Pittori erano anche i fratelli: Antonio,
delle cui opere non si sa nulla e Giuseppe (una tela nella chiesa del Soccorso
ed una in quella del Popolo).
Era chiamato il Guariniello per distinguerlo dal padre e con questo nome si
unì alla schiera dei giovani che frequentavano la bottega del Ribera e dello Stanzione.
Nella pittura del Guarini ci fu
un periodo in cui l’artista seguì l’influsso dello Stanzione
ed un periodo in cui, per dare maggiore rilievo al suo realismo, seguì la
scuola del Ribera, quando si ebbe la sua migliore
produzione. Poi nell’ultimo periodo riprese la maniera stanzionesca ma vi aggiunse
una visione più naturalistica.
La prima formazione del Guarini
avvenne sulle opere maggiori dello Stanzione dove il
maestro mostrava di seguire più chiaramente la lezione rivoluzionaria del Caravaggio, sono opere di grande
potenza che avviarono l’arte del Guarini. Non ci furono opere notevoli, esse comunque seguirono il maestro nella tematica,
nell’architettura dei quadri, nel colore.
Non ancora l’artista era riuscito
a liberarsi dall’atmosfera che regnava nella bottega paterna dove si
preparavano le sculture di legno che dovevano arricchire
Il Guarini non tardò però ad
acquisire un linguaggio pittorico nuovo, disadorno, rude e semplice che gli ha fatto acquistare un posto di primo piano nella pittura di
derivazione caravaggesca napoletana.
Era il 1623
quando aveva cominciato a frequentare la scuola napoletana e già nel
1630 iniziò ad inviare al suo paese natale i primi violenti teloni per il
soffitto di San Michele. In questa prima pittura c’erano influssi scolastici
che stavano per tramontare e c’era il crudo caravaggismo
che urgeva.
Espressione di questo tipo di
pittura sono due pale intitolate “Madonna del Rosario”,
una in S. Agata e l’altra in S. Michele. Nella “Madonna tra gli angeli” e nel “Cristo
confortato nel deserto dagli angeli” si individua
qualche segno di un superamento di questo primo periodo mentre nel “Battesimo
di Cristo” del soffitto di San Michele è chiara una svolta nell’arte del
Guarini che mostra di aver bene assimilato la lezione dello Stanzione.
Ed ancora di questo periodo sono le quindici formelle
che circondano la pala di S. Agata e che narrano i quindici misteri del Rosario
e una serie di piccoli quadri ora al Museo Nazionale di Capodimonte.
In queste opere l’autore,
allontanandosi dall’antico modo di rappresentare, esprime un gusto paesano e
pastorale, polemico, quasi un bisogno di evasione
verso forme più semplici, in esse si rivelano già bellezze e tocchi di colore
non conosciuti dalla pittura napoletana del tempo.
Guarini “polemico”.
Le opere migliori del Guarini
sono le tele del soffitto della Collegiata di S.
Michele dove l’artista mostra di aver raggiunto in modo saliente il naturalismo
napoletano e che furono assegnate al Guarini per concorso. Sono espressione
degli anni più intensi dell’attività del Guarini in cui l’artista pose in
essere una polemica con lo Stanzione quando si staccò dalla pittura del maestro dando l’avvio
alla “nuova pittura guariniana”.
Siamo intorno
agli anni ’30 e dalla scuola dello Stanzione si
allontanarono altri pittori. Erano artisti novatori, detti i «poeti novi» della
pittura napoletana, attratti fortemente dalla parte più rivoluzionaria della
pittura del Caravaggio e che dettero inizio ad un
«realismo caustico e violento» e che divennero rappresentanti del naturalismo
del 600 napoletano.
Questa pittura fu detta
«polemica» perché fu il documento di una condizione sociale non prospera. Essa si ispirò ad una realtà contadina, campagnola, provinciale
per argomenti e personaggi, fu quindi una pittura ben definita. Nacque dalla
bottega del Ribera dove ebbe il suo centro. Gli
artisti furono: Aniello Falcone, Giuseppe Ribera,
Bartolomeo Bassante, Giovanni Do,
Antonio De Bellis, Francesco Fracanzano
e Francesco Guarini che furono rappresentanti di una rigogliosa estate
naturalistica. Essa sarà spazzata via dalla peste del 1656 e non avrà più
continuatori.
Fu un’arte “dura”, “paesana” che
su diffuse facilmente tra questi artisti che rappresentarono la realtà
quotidiana e provinciale fatta di madri dolci e tragiche, di vecchioni rotti e scavati dalla fatica, indomiti, pazienti.
Essi sono i migliori temi dati proprio dal Guarini nelle tele del soffitto
della Collegiata composte proprio nel momento in cui (negli anni 30-37)
l’artista si distaccò dallo Stanzione ed elaborò una
poetica personale, di grande intransigenza che lo divise anche dai suoi stessi
compagni e che lo portò ad avvicinarsi ai temi più violenti del Caravaggio e del Ribera,
riuscendo a riunire e riassumere in una sintesi poderosa le due scuole caravaggesche.
Nel soffitto di San Michele il
Guarini mise in evidenza il dramma con un colore
vigoroso, con ombre robuste e vivi chiarori, con sbattimenti di luce. Qui mirabilmente
rappresentò i fatti salienti della vita di Cristo (dall’”Annunciazione” all’”Assunta”)
creando un “poema cristologico” che lo face un sicuro maestro, capace di saper vedere e
interpretare il mondo circostante.
C’è in queste tele
un’architettonica ridotta, una grande docilità
espressiva in cui la luce, lo spazio e le forme si compongono in una sintesi di
grande incisività, c’è una poesia “semplice e rude”, un attento interesse al
ritratto, una pennellata densa fatta di grandi macchie di luci e di ombre che
fanno del Guarini una personalità di livello artistico diverso dai suoi
maestri, con una pittura naturalistica e aspra.
Il primo capolavoro da
considerare è l’”Annuncio ai pastori”, un’opera meno tenebrosa e più ricca di
pennellate di luce, dove la luce si fa lenta e
solenne, severa e raccolta, abbraccia i volumi e li definisce, li illumina, dà
loro spazio alla maniera del Caravaggio, dando anima
e vita ad un interno di una capanna pastorale. La luce fa emergere dall’ombra
volti di donne e uomini, si insinua nel fondo e
rianima i musi delle pecore, mentre in primo piano scolpisce la mirabile figura
femminile di spalle. Non c’è qui di caravaggesco solo
l’uso della luce, c’è anche la disposizione delle figure, c’è la scena
naturalistica nella sua potente realtà fatta di gesti quotidiani, di cose di ogni giorno, di costumi del tempo creata quasi per
denunziare la miseria di un ambiente, l’indigenza degli umili sudditi della
provincia. È questo il capolavoro più paesano del Guarini, l’opera più significativa del pittore del suolo natio, memore degli
umili pastori, dei conciatori di pelli e dei fabbricatori di cotti.
Altro capolavoro di colori, di ombre, di pennellate è “Il sogno di Giuseppe” in cui è
chiaro il ricordo degli angeli del Caravaggio, dove
la pennellata diventa ricca di luce sulle carni dell’angelo, umano come non
mai, e s’incupisce nella figura di Giuseppe, impietrito nella stanchezza. Sullo
sfondo si apre una porta che mette in una stanza ove si staglia la figura di
Maria in preghiera. Sono figure solidamente costruite, lontane dai modi di
dipingere, sono essenziali, scabre, primitive quasi introducono all’altro
capolavoro “La visione che precede la fuga in Egitto” ove il Guarini spinse
ancora di più la sua ricerca naturalistica, la sua visone
di un’arte che fosse quotidiana osservazione e trasformazione in poesia della
vita che lo circondava. Anche qui c’è l’essenziale,
due figure in primo piano, nitide bloccate dalla luce che crea le ombre: una
popolana intenta a dare il latte e il figlio. Tra Maria e Giuseppe, più in
ombra, un angelo, che del cielo ha solo le ali, sbracciato, indica al
Patriarca, immerso nel sonno, la via d’Egitto. Il naturalismo di questa tela
presente fin dalle fasce colorate del bambino, nei cocci dell’ammattonato e
nelle pieghe della veste di Maria, collocano questa violenta
visone al di là delle ricerche del Ribera. Il
Guarini qui ha raggiunto la sua maturità artistica.
C’è un’altra tela che esprime la
visione sintetica che della vita ebbe il Guarini, “La presentazione della
Vergine al tempio”. Essenziali sono i colori, le figure, i gesti, la stessa
architettura, che limita nello spazio breve di una piazza la scena, mentre di
mistico c’è solo il volto di Maria fanciulla. Di
spalle, posizione non insolita nella pittura guariniana,
c’è una popolana, in vesti paesane con sulla testa un
canestro con biancheria.
L’”Annuncio a Maria” rappresenta
tre figure su uno sfondo incerto: un angelo robusto muscoloso, come lo sapeva
creare solo il Caravaggio, due popolani atterriti, vestiti
degli abiti quotidiani, scuri. Qui la pennellata è ruvida e spessa. Si ha
l’impressione di trovarsi di fronte ad una pagina di
realistica e rude poesia.
Nella “Circoncisione” ci sono i vecchioni guariniani, un tema
ricorrente in questo periodo. È una composizione un po’ bizzarra per il
copricapo e per le vesti pompose del barbuto Simeone, di un colorito vivace,
mosso nel gesto del circoncisione, il cui volto è reso
più realistico dal berretto rosso e dalla mantelletta
gialla. L’opera mette ancora più in risalto il momento polemico della pittura guariniana e accosta l’artista ai ribelli naturalisti del
suo tempo. La scena ha il centro nell’atto del circoncisore
e del vecchio intento a leggere nel libro antico la parola del profeta. Gli sta
di contro la modesta figura della Vergine quasi in ombra perché tutta la luce e
i colori sono chiamati a far blocco sulle vesti e sulle carni delle figure in
primo piano.
Nella “Visione
di Zaccaria” (1637), il Guarini impianta una scena affollata, limitata
ed approfondita dai massicci pilastri e dalla disposizione, su diversi piani,
di figure monumentali di vecchie, di donne che assistono all’interrotto
sacrificio del Patriarca. Gli scalini dell’altare, disposti orizzontalmente,
allargano ed ampliano la sacra rievocazione, dando un senso visivo dello
spazio. Su tutta la scena si distende un vento di attesa,
di stupore. I vecchi che si affacciano ai pilastri e le donne che sono rappresentate in una monumentalità
che si trova solo nei personaggi dell’”Annucio ai
pastori”, sono espressione di una grande potenza interpretativa. Ogni volto di
donna è un ritratto, ha un’anima, un qualche cosa da
comunicarci. Tratte dal suo ambiente, dalla sua gente,
altre madri, ripetono o anticipano un motivo che è ricorrente nelle sue tele:
la maternità.
È quasi misterioso, nella visione
poetica del Guarini, l’interesse del senso materno. Nei suoi capolavori il
brano più bello e più caratteristico è quasi sempre
una donna che allatta, sia se rappresenti
Col “Giovacchino tra i pastori”
siamo ancora tra i capolavori. Anche qui la luce,
sapientemente distribuita, mette in risalto solo la figura poderosa del
Patriarca, ritraendolo di spalle e indugiandosi a modellarne la ruvida veste
oliva e la possente testa. I pastori emergono pallidamente dall’oscuro fondo,
immersi nel sonno in tante solide forme bloccate.
Dopo queste opere il Guarini si
distaccò dal suo rude e scabro linguaggio naturalistico e intraprese una nuova
ricerca, da artista decadente, riaccostandosi allo Stanzione
e impostando tele che lo fanno definire “Guarini stanzionesco”.
Crisi guariniana.
Con la “Sine
macula” (1637) inizia una nuova ricerca stilistica e coloristica. La sua
pennellata si fa più chiara, si riempie di luce, le pieghe s’infittiscono, i
panni si fanno di seta, cangianti, svolazzano, perdono
la pesantezza e la ruvidità dei violenti teloni del transetto della Collegiata,
sono pieni di caroselli di angeli che limitano le figure, deformano
l’architettura, sicché l’occhio si smarrisce e non abbraccia bene l’insieme.
Il Guarini, come tutto l’ambiente artistico
napoletano, acquista forme più sottili e leggere. In questa nuova ricerca egli
si avvicina allo Stanzione che elaborava un
linguaggio caravaggesco di superficie, più di forma
che di contenuto.
Il primo documento di questa
crisi è proprio la “Sine macula” composta subito dopo
la “Visione di Zaccaria”. Il divario tra le due opere è netto e chiaro.
Qualcosa è intervenuto per far allontanare in modo così preciso il Guarini
dalle posizioni oltransiste del Caravaggio
se nello stesso anno compose opere così diverse. Questa opera comunque apre una nuova fase nell’arte del Guarini.
In questa tela, commissionata
dalla Congrega della Carità dei Bianchi, su uno sfondo aurorale campeggia
un’immagine muliebre, che ha perduto la “sodezza” e la “plasticità” delle
popolane Madonne del soffitto sammicheliano per
assumere carni luminose e sete sgargianti in un tripudio di angioletti.
Unico ricordo del tempo migliore, segno di una visione e di
un magistero non ancora spenti, è il paesaggio ai piedi del quadro.
Di questo periodo fa parte “L’Annunciazione”,
collocata al centro del transetto della Collegiata (1642), dove il Guarino si fa gentile, squisito nelle forme, raffina la
sua gamma coloristica, toglie violenza alla luce; il volo degli angeli diventa
un vortice, le carni si fanno delicate. L’angelo ha il volto incorniciato di
riccioli al vento ed ha perduto l’antica umanità degli angeli del ciclo
precedente.
Di questo periodo sono ancora le
tre pale rappresentanti
Altre due tele che meritano di
essere lette attentamente sono quelle del soffitto di
S. Agata (“Il taglio delle mammelle” e “Martirio sulle braci”), qui c’è una
chiara conoscenza del nudo guariniano. Nell’episodio
de “Il taglio delle mammelle” il Guarini riprende ed esaspera quasi la ricerca
naturalistica degli anni migliori, dandoci ancora una volta una serie di
ritratti: dallo esperto carnefice, che stringe tra le
dita la vergine carne del seno della Santa; all’aiuto, che, non staccando lo
sguardo dal corpo seminudo, affila i coltelli sulla pietra acciaina;
al vecchio sadico, che sensualmente sorride e protende le mani, quasi per
godersi l’immacolato bel corpo, modellato con raffinata esperienza. Magnifici
sono poi i fiotti di luce sul cosciale e sul braccio del carnefice, sulle carni
giovanili della Martire e sulle larghe maniche della camicia del vecchio.
L’aspro realismo della scena, piena di contrasti, colloca questa violenta ed
energica opera guariniana nel numero dei capolavori,
eseguita subito dopo i teloni sammicheliani, infatti questi quadri furono commissionati al Guarini dal
principe Marino Caracciolo di Avellino, il quale,
dopo aver visto “con infinita meraviglia quel soffitto bellissimo, ambì averne
anch’egli uno di pregio non minore nella chiesa di Sant’Agata”.
Nell’altro episodio, quello del “Martirio
sulle braci”, la scena si fa più distesa, meno attenta, in cui le figure
risaltano lungo un’architettura di tre tondi archi, ed è approfondita dal
pavimento a mattoni bicolori, su cui è adagiato, tra carboni accesi, il corpo
della Santa, “ancora più nudato dell’altro”.
Nella “Maddalena in estasi”
dell’Ospizio Guarino l’artista accentra la sua attenzione al bel corpo della
penitente, che modella da maestro, affidando alla luce il compito di mettere in
risalto le forme dell’estatica santa, che, nel rapimento, rimane
bloccata tra il gioco della luce e delle ombre. In basso a
sinistra il ritratto del committente, Fabrizio Guarino.
Nel “Sacrificio d’Isacco” della
parrocchiale di Sant’Andrea, il Guarini riprende i
temi biblici. Di questo periodo della sua stagione pittorica è il paesaggio che
gli fa da sfondo, in un lento digradare di monti, che accompagnano e meglio
definiscono la diagonale aperta dai tre personaggi della scena sacra. In questa
tela c’è ancora l’”energia” guariniana presente nel
volto in iscorcio del giovane sacrificando, nella
fune che gli lega i polsi, nella sciarpa calcinata che cinge i fianchi del
sacrificante e nello scorzuto tronco d’albero e nelle
foglie di quercia.
“
L’ultimo Guarini.
In questo ultimo
periodo il Guarini si avvicina ancora di più allo Stanzione
con opere che sono rielaborazioni del maestro, documenti quasi irriconoscibili,
ma dove ci sono i segni dell’antica poetica.
Il “Transito di San Giuseppe”
(Chiesa di S. Diego in Napoli) è infatti una
rielaborazione del medesimo tema trattato dallo Stanzione.
Di esso c’è una seconda edizione nella chiesa di S.
Sossio in Serino che è migliore e può definirsi un tardo capolavoro che
suggella una vita intensa ed operosa. Nell’architettura, nell’uso della luce,
nelle vesti, nei panciuti agiolotti c’è un nostalgico
ritorno all’antico.
Altra tela, anch’essa un ritorno
agli anni dei violenti teloni sammicheliani, è la “Madonna
del Suffragio”, opera forte energica, espressiva, tormentata.
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Cronologia guariniana.
1611, gennaio 19.
Nasce a S. Andrea ecco l’atto di nascita: Die 20 mensis Januarii
1611 fuit baptizatus a me
Francisco Garzillo, Cappellano et
Rectore et Curato parochialis Ecclesiae S. Andreae, filius Tomasius de Guarinis et Juliae de Vigilante ciniug., natus
die 19 eiusdem mensis et fuit
impositum nomen Felix, Franciscus, Antoniu; et mater
quae illum suscepit de fonte baptisimi ffuit Gratia de Juliano opstretrix»
1623.
Entra nella bottega di Massimo Stanzione.
1634.
Esegue la «Madonna del Rosario» in S. Andrea.
1637-1642
Colloca i teloni del transetto del soffitto della Collegiata di Solofra dalla «Visione
di Zaccaria»(1637) all’«Annunciazione» (1642).
1643 e oltre.
Lavora ai dipinti del soffitto della parrocchiale di
S. Agata su commissione del Principe di Avellino,
Marino Caracciolo.
1644, maggio 5.
Scrive una lettera al Signor Don Ferdinando Orsini,
principe di Solofra. Si trova nel libretto: Il
vinto Inferno da Maria. Rappresentazione sacra di Honofrio Giliberto di Solofra, Trani,
per Vincenzo Valerii, 1644.
1645.
Esegue la pala della «Madonna del
Rosario» nella Chiesa di Santa Maria di Materdomini
di Nocera.
1646
Esegue l’altra pala della «Madonna
del Rosario» di casa Di Donato di Solofra.
1649.
Dipinge la terza pala della «Madonna
del Rosario» in S. Domenico di Solofra su commissione della principessa Dorotea
Orsini.
1650.
Su commissione del Monte dei Morti della Collegiata esegue il «Transito di San Giuseppe» in
seguito la seconda edizione del SS. Corpo di Cristo
(in S. Sossio di Serino).
1654, giugno 13.
Muore in Gravina di Puglia. Circa la sua morte c’è
chi dice che sia morto di veleno propinatogli da un
rivale in amore facente parte della corte dell’Orsini. Un’altra versione dice che sia morto di malinconia per l’uccisione della donna
amata contesagli da un rivale. Una terza versione dice
che l’Orsini lo abbia fatto avvelenare perché l’artista non era disposto a
seguirlo a Roma.
Nota sulla grafia del
cognome di Francesco Guarini (1611-1654).
Dice il più completo studioso di Francesco Guarini, Michele Grieco, Francesco Guarini da Solofra nella pittura napoletana del ’600, Avellino, 1963, (pp. 83-84):
«Il vero esatto nome è Guarini, non Guarino, come ci accerta:
- l’iscrizione posta nel 1653 all’altare ov’è il quadro della «Madonna di Costantinopoli», in S.
Andrea di Solofra, ove si legge: Franciscus Guarini pinxit;
- la lettera dedicatoria del Nostro al Signor Don
Ferdinando Orsini, dove in calce è sottoscritto: «Humilissimo
servidore Francesco Guarini»;
- il fatto che «Guarini» è dato con insistenza nelle
cronache locali e negli scritti a Lui dedicati da studiosi della sua Terra;
- l’Arciconfraternita dei Bianchi in Solofra, nella
Tabella dei Defunti, ov’è ricordata l’epoca della sua
morte e dove si legge: «Francesco Guarini Pittore insigne, morto il 13 luglio
1654».
Osservazioni posteriori:
- Sull’atto di nascita c’è una correzione avvenuta
con altro inchiostro che trasforma «Guarino» in «Guarinis».
- La famiglia dell’artista è indicata negli atti
notarili dell’epica con la dizione «Guarino».
Deduzione:
È chiaro che il Guarini ha voluto
creare una distinzione con la sua famiglia originaria, tramandando ai posteri
la grafia «Guarini» (lo dice la sua firma sulla lettera scritta all’Orsini).
Ciò si spiega col fatto che i suoi congiunti (nonno, padre e fratelli) erano
pittori molto mediocri del manierismo, che egli a Napoli faceva
parte della prestigiosa scuola del Ribera e dello
Stazione di derivazione caravaggesca e che lui stesso
con le sue opere aveva operato una rivoluzione nella pittura napoletana tanto
che la sua è definita «nuova pittura guariniana».
È pienamente giustificato pertanto la distinzione
che volle operare anche col cambio del cognome, cosa d’altra parte molto
ricorrente tra gli artisti.
Questa operazione all’epoca era possibile attraverso
la via seguita dall’artista data la estrema
imprecisione dei cognomi e non essendovi alcuna via giuridica.
Collegiata
Nel 1522 sul luogo della preesistente chiesa di S.
Angelo inizia la costruzione della nuova chiesa.
Nel 1526 il Collegio dei canonici della chiesa parrochiale dell’Angelo viene
trasformato in Collegio Newl
1529
1533 Gli spazi interni della Collegiata sono già
definiti.
1561 la costruzione era completata
1563 era terminato l’organo
1579 inizio lavori dell’organo e la cantoria
1611 Francesco Corani stipula un contratto per
il completamwento del disegno del portale di pietra
della porta maggiore
1614 viene messo in opera
una parte del portale
1685 consacrazione della Collegiata in presenza del Cardinale Vincenzo Maria Orsini (poi
Benedetto XIII)
Chiesa a tre navate con facciata tripartita che anticipa la ripartizione dello spazio interno. La scansione
verticale è ottenuta dalla trabeazione orizzontale della facciata presente
anche all’interno.. La trabeazione del secondo livello
si riporta a tutta l’altezza e richiama le sottostanti cornici marcapiano, così
all’interno il grande soffitto chiude maestosame4nte lo spazio in alto e si
raccorda alle cornici sottostanti
La decorazione lignea della navata è firmata da Giovaqn Tommaso Guarini artista morto nel 1637 la doratura
fu effettuata dal 1631 al 1633