Il leggere,
scrivere e far di conto
nella società
solofrana del Cinquecento
Dagli studi sul Cinquecento solofrano emerge una
caratteristica che contribuisce a qualificare questo periodo come il più significativo della realtà della nostra cittadina. È il fatto che questa società non fu priva di sapere. Non
il sapere di coloro che si davano agli studi per tradizione di famiglia, e
che avevano la possibilità di frequentare lo Studio Napoletano, come allora
si chiamava l’Università, o le scuole ecclesiastiche, ma
quella dimestichezza con il leggere, scrivere e far di conto e con la
conoscenza in generale che si allarga ad una fascia più ampia e costituisce
un substrato qualificante di questa comunità rispetto alle altre. Che Solofra
abbia avuto una tale dimestichezza lo si deve alla
sua realtà economica - ancora una volta l’economia appare come il nerbo delle
azioni umane - la mercatura infatti ha posto gli individui dinanzi alla
necessità di impadronirsi delle strutture di base della scrittura e del
calcolo oltre a dare un’altra struttura essenziale, quell’apertura
mentale che spinge a non rifuggire da nuove esperienze, che fa conoscere il
gusto della scoperta e in genere a non aver paura di ciò che non è il
rassicurante orizzonte della propria nicchia di vita. Non dobbiamo
dimenticare che nel medioevo tutto ciò che non era conosciuto e familiare veniva indicato con l’espressione "hic sunt leones",
qui sono i leoni, l’ignoto, il non familiare, ciò che fa paura. Fin dal primo documento scritto si
individuano a Solofra persone, diciamo "comuni", che hanno
questo tipo di esperienza, dal portarum e
dal socio dell’XI secolo (mercati e gente addetta al commercio) al calcurarius del XII secolo (una specie di
ragioniere) e poi ai tanti testimoni e homini
idoneis che costituivano il nerbo non
incolto di questa società, né bisogna dimenticare che nella pieve solofrana
c’erano nell’XI secolo libri (oltre a quelli prettamente liturgici) di
edificazione religiosa (detti legere) che
alimentavano il sapere popolare di allora. Non nomino in questa disamina il clerico Diletto dell’XI secolo,
padre del Truppoaldo solofrano, che è un vero uomo
dedito alle arti liberali (il termine "clerico"
aveva questo significato), né parlo dello stesso Truppoaldo,
un ecclesiastico che ha dall’autorità religiosa e da quella politica del
principato longobardo di Salerno, l’importante compito di dirigere la pieve
solofrana, che, in quel tempo in cui non c’era ancora alcuna struttura
amministrativa, significava essere capo e responsabile di questa comunità. E
non nomino la tradizione notarile solofrana che, nonostante la carenza dei documenti, si mette in luce fin dal XII secolo
- penso al notaio Palmerio de Roberto che Carlo I dichiarò idoneo ad
esercitare il notariato e a Nunzio de Auro che operò in Irpinia
- né nomino i medici del Trecento (i Fasano) o gli ecclesiastici di questo
secolo, che diressero le chiese solofrane, né quelli del secolo successivo,
gli agostiniani per esempio - faccio per tutti il nome di frate Giuliano da
Solofra che assurse a ranghi direttivi di vari monasteri - e neanche nomino
tutta la tradizione notarile e legale del XV secolo, che già era divenuta una
tradizione di famiglia - penso ai notai del ceppo dei Giliberti, dei Guarino
e dei Ronca - , che poi all’inizio del Cinquecento costituiranno la parte
dominante del patriziato solofrano (si pensi che in questo secolo c’erano ben
quattro notai privati che operavano sulla piazza solofrana oltre a quello
civico). Non parlo dunque di costoro che erano la parte alta della comunità
locale. Voglio invece andare a
monte e porre l’indice su una fascia più ampia che se non assurge ai vertici
del sapere costituisce una importante zona grigia, un sottofondo in cui
affondano le radici del fenomeno solofrano. E parlo
di fenomeno perché sono rare le società, che possono annoverare, in questi
secoli, in cui le competenze di base del sapere erano completamente
sconosciute alla massa, un così alto numero di persone di cultura come quella
solofrana. Mi fu chiesto proprio questo, non molto tempo fa, da uno studioso
di fenomeni sociali che, navigando nella rete telematica, si era imbattuto
nelle pagine web di solofrastorica.it
e che si meravigliava dell’alto numero di protagonisti che avevo indicato (e
non erano tutti). Lo stesso studioso conveniva con me nell’individuare in
questo substrato la spinta a intraprendere oltre
all’alea mercantile anche quella della cultura. D’altra parte il medesimo
sottofondo e i medesimi bisogni mercantili determinarono un’altra realtà
solofrana e cioè il grande numero di persone
ecclesiastiche presenti a Solofra in questo periodo a cui veniva demandato il
compito di proteggere e gestire le finanze di famiglia. Torniamo dunque a questa realtà solofrana
del Cinquecento, che il documento notarile dà la possibilità di definire in
modo chiaro. Non dobbiamo meravigliarci se il saper leggere, scrivere e
far di conto a Solofra fu una pratica molto diffusa, perché la necessità
della scrittura commerciale, e la pratica mercantile
e del fòndaco, richiedevano la manutenzione dei
libri di mercatura. Ogni bottega inoltre doveva tenere aggiornati i libri
contabili, dove bisognava registrare gli introiti e i prelievi (dette recoglienze), il ritiro di una somma da parte di
un socio, la spesa per un viaggio, ma anche semplicemente la dislocazione
delle pelli nelle varie fosse di concia, visto che vi dovevano rimanere molto
tempo e visto che molto diffusa era questa pratica. Tutto questo emerge dagli
atti costitutivi delle societas, dove viene indicato con precisione coloro che dovevano tenere i
libri contabili e coloro che dovevano controllarli, nei rogiti testamentali dove il testatore dava al notaio un
articolato elenco del danaro da ricevere e di quello da dare e che il notaio
trascriveva nel documento o ancora in tanti altri atti. E questa pratica non era solo maschile ma interessava anche le donne, come avviene per
la moglie di un grosso finanziatore solofrano, che alla morte del marito ne
continuò l’attività creditizia e che nel dettare il testamento dette al
notaio l’elenco delle recoglienze della sua
attività mettendo in luce un’interessante attività femminile sicuramente
nascosta, come era tutta la materia del credito in quei tempi, ma di grande
interesse anche perché conferma la importante funzione della donna come
supporto alle attività economiche. Bisogna tenere presente che al quel tempo il
rapporto con i rudimenti della scrittura non era facile se non c’era una
certa dimestichezza a tenere la penna in mano. Le società contadine non
avevano questa capacità manuale, né avevano il bisogno di acquisirla, cosa
che invece troviamo in una società mercantile e
artigiana che maneggia i libri contabili, sa cosa sono, e per la quale
diventa facile imparare ad usare la penna. Inoltre poiché il rapporto con
questi problemi era affidato alla contingenza si
veniva a creare una dicotomia tra i due momenti del leggere e dello scrivere.
Non era raro trovare chi era in grado solo di leggere e chi di scrivere. Il saper leggere poteva essere più diffuso per la
necessità di leggere i testi dei canti sacri in chiesa, dove si riceveva un
primo grado di alfabetizzazione. Imparare a
scrivere costituiva invece un ostacolo molto più
forte se non si seguivano i canali normali dell’apprendimento. Comunque colui che era in grado di apporre in modo più o
meno leggibile la propria firma sotto un documento non veniva considerato
analfabeta indipendentemente dalla sua capacità di scrivere e di comprendere
un testo qualsiasi. Solo nel XVIII secolo, quando Carlo III di Borbone ordinò il catasto, detto
onciario, si è potuto fare un’indagine sistematica sulla capacità di scrivere
di questa ampia fascia delle società meridionali analizzando le revele, quei documenti firmati dai capifamiglia
che furono alla base del catasto borbonico. E già in questa
indagine si è visto che le società mercantili erano di gran lunga più
padrone del mezzo. I documenti solofrani invece danno la possibilità
di analizzare la situazione fin dall’inizio del cinquecento. Ci sono infatti molti atti, soprattutto divisioni di beni,
indagini patrimoniali, ma anche testamenti, che danno la possibilità due
secoli prima di analizzare il grado di alfabetizzazione
di chi apponeva la firma. Accanto a chi metteva un semplice segno di croce
con tratto incerto e forte pressione della penna sul foglio, c’era chi invece
apponeva la firma; ma anche tra costoro c’era chi manifestava una notevole
incertezza nei tratti con lettere grandi, storte, sicuro indizio di mancanza di abitudine, e c’era chi aveva solo qualche incertezza
fino a chi firmava con mano sicura e rapida segno indubitabile di un uso
quotidiano della scrittura. Ciò che è però un
dato di sicuro interesse è che nella società solofrana c’era più di una
scuola privata presso i sacerdoti e i notai. Una di queste emerge chiaramente
nella casa del notaio Andrea Alfano - siamo nel primo ventennio del secolo -
ed aveva due insegnanti (oltre al notaio c’era il fratello Annino), inoltre
il notaio aveva al suo seguito dei minorenni apprendisti del suo mestiere che
lo seguivano anche quando si spostava a Napoli. Ed è
ancora più significativo del discorso fatto fino ad
ora l’esistenza di una vera e propria scuola solofrana, una scuola della
comunità - siamo nel 1522 - al servizio di diverse famiglie solofrane (dal
documento si individuano il notaio Pasquale Giliberto, Adanese Fasano,
Ieronimo Ronca, Bartolomeo Parrella, Battista Giliberti, Lisi Antonio Landolfi,
e una lista di allievi che viene consegnata all’insegnante) quella parte
della comunità che ne aveva bisogno, ne faceva uso e la gestiva. Era una vera
e propria istituzione con delle regole, con un programma (non il semplice leggere scrivere e far di conto,
ma grammatices littere),
con una durata, tutti elementi che dovevano essere rispettati sia dagli
allievi che dal docente, il quale era obbligato dalla convenzione, nella
quale era stabilito naturalmente anche un costo (34 ducati da ripartire in
rate mensili) a carico degli studenti. Interessante è sapere che l’insegnante, Delio Pontano, che operava a Solofra era di
Padova, un importante centro del razionalismo aristotelico, studi molto diffusi
a Salerno dove ci fu un vivace scontro tra due correnti (quella che si legava
al tradizionalismo medioevale e quello che invece volgeva verso una indagine
interpretativa dei grandi maestri dell’antichità), perché ciò dimostra una
sensibilità verso i valori della cultura rinascimentale e il legame di
Solofra con Salerno il cui studio rimase vitale anche dopo la creazione di
quello napoletano. Non è da sottovalutare neanche il fatto che in quegli anni
apprendeva i rudimenti del sapere colui che sarà un
filosofo aristotelico, Camillo Maffei, appartenente ad una delle famiglie più
in vista della società solofrana di quel tempo e che avrà rapporti col centro
padovano, infatti a Venezia furono pubblicate tutte e quattro le edizioni
della sua opera più importante. A completare il quadro delle opportunità che
la società solofrana si dette bisogna considerare altri momenti di apprendimento come quelli che avvenivano nelle botteghe
a favore dell’apprendista come mostrano alcuni contratti di lavoro dove
specificatamente si dice che il maestro deve docere
all’allievo e quelli legati alle due Confraternite solofrane - di S. Maria
delle Grazie e di S. Croce - che avevano dei momenti di vita comunitaria
culturale. Infine vale fare una costatazione
per dare il segno di una realtà che esula dal nostro comune modo di pensare.
La costatazione è che la duchessa Beatrice Ferrella Orsini, nell’apporre il suo placet agli
statuti solofrani nel 1555, mette un segno di croce, indice che a quell’epoca, quando cioè
iniziava la carriera di feudataria, non sapeva scrivere. Lo sapeva invece
fare nel 1575, quando, nel giugno, appose una firma alla deposizione
personale fatta durante la causa sostenuta contro |
Principessa Beatrice Orsini
Scipione Pulzone detto il Gaetano (Gaeta
1550-Roma 1598)
La firma di
Beatrice Ferrella Orsini apposta in calce ad una sua
deposizione fatta per la causa contro
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