LUIGI LANDOLFI DA SOLOFRA

 

 

Intellettuale nella Napoli borbonica e post-unitaria

(Solofra 1814- Napoli 1890)1

 

 

La vita

Attraverso i genitori, la madre, Maddalena Pepe, imparentata con Vincenzo Galiani, protomartire della Rivoluzione napoletana del 1799, e il padre, Ferdinando, che aveva subito l’arresto dopo i fatti del 1798, sentì le istanze di quella rivoluzione che, rivitalizzate dal Decennio, si erano riversate nelle Vendite carbonare - ben quattro furono quelle solofrane - alimentandone i moti.

 
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1. La data di nascita è data dallo stesso Landolfi in Scritti vari, I, Napoli, Guerrera, 1886, p. VII. Le altre notizie biografiche sono attinte da G. Didonato, Uomini illustri di Solofra, Messina, 1923, p. 159 e da F. Celentano, Luigi Landolfi nella vita e nelle opere, Napoli, 1913. I due biografi a lui contemporanei, al di là dei difetti della storiografia dell’epoca, hanno notizie di prima mano per la frequentazione con i figli del Landolfi. V.  "Le Rane", Solofra, anni 1902-1920.
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A Napoli, dove seguì gli studi giuridici, portò quelle esigenze e le improntò di una coloritura moderata seguendo la strada di tutto lo schieramento liberale della borghesia meridionale.

Intraprese la carriera forense (1840) senza tralasciare gli studi classici e i vasti interessi culturali2.

I sentimenti liberali e la convinta adesione alla causa nazionale lo portarono sulle barricate (1848) e tra i luogotenenti della Guardia Nazionale (settembre del 1860) insieme a Francesco Saverio Arabia3.

 
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2. Cfr. M. Pisani Massamormile, Napoli e i suoi avvocati, Napoli, 1975, p. 102. A Napoli i Landolfi avevano un’abitazione come un’ampia parte del patriziato della provincia. Qui il fratello Niccolò conduceva in una clinica voluta dai Borboni, fruttuosi studi sulle piaghe cancerose conosciuti anche fuori d’Italia. 
3. Cfr. F. Celentano, op. cit., pp. 12-14 e M. Pisani Massamormile, op. cit., pp. 104-106. Nel 1856 sposò Irene dei conti Valia, figlia di un ex-intendente del re, da cui tre figli Landolfo, Edoardo e Maria. (cfr. F. Celentano, op, cit., p. 11). 
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Nel periodo post-unitario il Landolfi visse un’intensa vita professionale e culturale, dando un concreto contributo alle problematiche del tempo e alla promozione della coscienza nazionale e mettendosi a buon titolo tra quegli intellettuali nelle cui case si era in contatto con i patrioti fuoriusciti e si preparava l’Italia.

Fu tra coloro che istituirono, subito dopo l’unità, il ramo napoletano dell’Associazione nazionale italiana di mutuo soccorso degli scienziati, letterati ed artisti che aveva lo scopo di creare quel collegamento tra il Meridione e le altre parti d’Italia necessario all’unità civile del paese e parteciparono all’attività del sodalizio4.

Negli anni settanta si dedicò al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di cui fu componente fino alla morte e presidente per molti anni e dove tenne discorsi, relazioni, fece interventi, partecipò a dibattiti e per incarico del quale, insieme al Pessina, tenne il discorso di inaugurazione dei 13 busti di Giureconsulti del Foro napoletano in Castel Capuano5.

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4. Nel sodalizio, diviso in tre rami  - quello artistico, "La Promotrice", organizzava esposizioni di opere d’arte per propagare la "rivoluzione realistica" in sintonia con quella unitaria -  , si tenevano riunioni, conferenze, si leggevano riviste, libri, si dibattevano questioni. Il Landolfi vi partecipò attivamente con undici conferenze dal 1862 al 1869 nelle quali si evidenzia un sentito impegno nella promulgazione e nell’attuazione dei fini dell’Associazione. L’attività del Landolfi nell’Associazione, di cui fu segretario (cfr. D. Morelli, La Promotrice,   a c. di B. Croce, Napoli) è documentata nel primo volume di Scritti vari, che contiene il testo di tutte le conferenze con le date di lettura. È di questo periodo una sentita conferenza al Circolo Filologico fondato dal De Sanctis con le stesse finalità dell’Associazione a cui il Landolfi si era votato nel periodo precedente. Nella citata raccolta il Landolfi datò la conferenza genericamente "1879" (Scritti vari, II, pp. 249-284) mentre dall’elenco dell’Annuario del Circolo filologico si evince con maggiore esattezza che la conferenza fu tenuta il 24 marzo del 1878 (Cfr. T. Iermano, Il giovane Croce e il Circolo filologico di Napoli in Lo scrittoio di Croce, Napoli, 1992).
5. M. Pisani Massamormile, op. cit., p. 102. L’attività del Landolfi in seno al Consiglio è documentata nel secondo volume di Scritti vari. Nel discorso per i busti di Castel Capuano il Landolfi parlò di Francesco Ricciardi, Gaspare Capone, Felice Parrilli, Giuseppe Raffaelli, Francesco Maria Avellino, Giuseppe Poerio e Pasquale Borrelli (Cfr. Scritti vari, II, pp. 318-348).
 
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La sua casa nel palazzo di Tarsia fu un vero cenacolo, frequentato dagli uomini di cultura della Napoli di fine secolo molti dei quali gli furono intimi amici6, fino alla sua morte (11 ottobre 1890)7.

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6. Tra questi il latinista Antonio Mirabelli, il pittore Domenico Morelli che aveva conosciuto sulle barricate, il letterato e filosofo Vito Fornari, gli avvocati Roberto Savarese e il già citato Francesco Maria Arabia, monsignor Nicola Spaccapietra e il fratello magistrato, i conterranei Pasquale Stanislao Mancini, Paolo Emilio e Renato Imbriani, Michele Solimene, Aurelio Lauria. Cfr. L. Landolfi, Scritti vari, cit., voll. I e II passim. Il Celentano a 23 anni dalla morte del Landolfi elenca i frequentatori del salotto napoletano che qui si riportano per un utile confronto avvisando di aver messo in corsivo quelli dei quali non si trova riscontro nella raccolta landolfiana: P. E. Imbriani, Vito Fornari, Antonio Ranieri, mons. Mirabelli, Spaccapietra, Ciampa, Morelli, Lauria, Palizzi. Pisanelli, Salazzaro, Miola, Russo, Santoro, D’Agostino, Alvino, Perricci, Pagano, Solari, Balzico, Lista, Angelini, Ierace, Negrini, Coletti, Altamura, Cammarano.

7. F. Celentano, op. cit., p. 14. Il Didonato nella sua biografia riporta una data di morte errata (op, cit., p. 169). Solofra gli dedicherà la strada ove sorgeva la sua abitazione e Napoli. Una raccolta di necrologi in suo onore fu pubblicata nel 1892 dal marito della figlia Maria, il conte Vito Garzilli, con contributi di N. Cianci, A. Greco, F. S. Correra, T. Testa, N. Pandolfelli, G. Buonanno, S. Fusco, F. Profumi, F. S. Arabia, A. Nunziante, M. Cerio, A. Torelli, L. A. Villari e Matilde Serao che sul "Corriere di Napoli" del 12 ottobre del 1890 gli dedicò un Moscone (Cfr. F. Celentano, op. cit., pp. 14- 17).

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L’opera che permette di seguire la biografia intellettuale del Landolfi è Scritti vari, da lui curata in età avanzata e definita "una recensione [...] di me stesso". Attraverso prose e poesie, essa delinea una figura di intellettuale - uomo di legge e di cultura - pervasa di una profonda sensibilità morale e religiosa che ne è il tratto più saliente.

Le rime, agili e melodici che manifestano il piacere del verso, un’esigenza dell’uomo colto, parlano di persone care, di eventi allegri o tristi o di semplici momenti della vita, fermano riflessioni e pensieri.

Le prose d’occasione sono veri documenti della fitta rete di relazioni amicali e professionali tra il salotto dell’intellettuale, lo studio dell’avvocato e le aule del Tribunale. Vari gli interventi su questioni culturali, politiche e sociali o su specifiche problematiche. Gli scritti più ampi sono veri e propri studi organici, che esprimono un sentito impegno socio-etico-politico; mentre gli interventi in varie querelle, di interesse non solo culturale, manifestano la sollecitudine per il travaglio dei primi decenni dell’Unità, e mostrano, per la frequente partecipazione a dispute legali, che il mondo dei giureconsulti fu il più coinvolto in quei tempi di generale rinnovamento.

Altri scritti sono le Allegazioni, pubblicate su periodici dell’epoca, Pier delle Vigne, una tragedia giovanile in endecasillabi sciolti e cinque atti; Dio e l’Uomo, meditazioni per "far conoscere [...] l’Uomo a se stesso" e preghiere per "avvicinarlo a Dio"; Taccuino per mia figlia Maria, massime che riassumono molta parte del suo pensiero etico-religioso; due traduzioni, Vita di Agricola (1882) e Germania (1884) di Tacito, che sono un tuffo dell’età matura nella classicità alla ricerca di una via di uscita alla situazione di stagnazione e di degrado in cui si trovava l’Italia.

 

Liberale moderato nella Napoli pre-unitaria.

Luigi Landolfi a Napoli frequentò una Università chiusa e sottoposta ad una rigorosa censura. Fu alla scuola di Basilio Puoti dove trasse il nutrimento per la sua formazione liberale che esercitò nei salotti dell’epoca e che guidò tutta la sua vita, in assonanza con la classe a cui apparteneva, la borghesia delle arti liberali, una minoranza colta, avida di conoscere, portata all’abile dialettica, che recalcitrava di fronte alla reazione e che si impegnava a limitare l’azione repressiva dell’assolutismo.

Gli fu sempre chiaro che "le carneficine del ’99 invece di seminar servitù, avevano seminato vendetta" sfociando nella rivoluzione del 1820; che "l’esilio, gli ergastoli, il patibolo, per la santa causa della Libertà, lungi dallo spegnere la prepotente idea vi aggiungevano il prestigio della corona dei martiri", si rendeva conto che "il nome di Libertà era diventato sacrosanto" e l’indipendenza nazionale "era diventata un voto irrefrenabile".

Nelle suoi scritti denunziò la chiusura politica di re Ferdinando, il suo tentativo di arresto dell’evoluzione civile e il suo rimedio d’inferno”: “corrompere, corrompere, e più corrompere, "un’immensa corruzione" che invadeva "l’intera macchina sociale", "si moltiplicava in mille forme": si sedeva "nei pubblici ritrovi", saliva “le Cattedre delle Università, contaminava "le toghe dei magistrati", penetrava "i santi recessi delle famigli", profanava "i Tribunali stessi di Penitenza nel Tempio santo di Dio".

Pur nell’atmosfera di tolleranza che si respirava dopo la svolta del 1830, il giovane Landolfi colse "l’intimo disinteresse" e il "tono beffardo" di re Ferdinando verso gli studi e i dotti, e il suo "odio alla libertà politica".

Fu in vigile e silenziosa opposizione agli atti del re seguendo nei salotti gli eventi italiani e le notizie trasmesse dagli esuli.

Il 29 gennaio del 1848 non accolse con entusiasmo il proclama costituzionale di Ferdinando e subito dubitò della fede del re alla Costituzione. Ed quando il 14 maggio il sovrano non volle accettare la formula del giuramento dei deputati dell’appena eletto parlamento riunito a Monteoliveto, il giorno dopo sulle barricate si ribellò al nuovo spergiuro borbonico.

Durante la reazione il giovane avvocato patì lo stato "delle anime oneste" quando "il serbarsi incolume diventava un merito segnalato" e soffrì la schiavitù in cui era costretta a vivere la giustizia. Non fu tra coloro che emigrarono, scelse invece "il lavorio più operoso" da compiere "nel seno stesso della città".

Nell’ombra contribuì a quell’azione sotterranea di educazione delle coscienze di cui parla il Croce e che si collegava a quella dei napoletani esuli e preparava i nuovi eventi.

Pubblicò, nel 1858 in piena reazione, di un libro apparentemente innocuo, Dio e l’Uomo, dove dietro l’edificazione spirituale si nascondeva la spinta ad uscire dallo stato di avvilimento in cui il regime di oppressione aveva gettato il napoletano - dalla "squallida vita intellettuale e morale" dirà ancora il Croce - .

Nell’opera si rivolgeva a tutti coloro che non avevano la forza di ribellarsi alla situazione di degrado che si viveva nella Napoli ferdinandea, a chi "ha poca coscienza" della proprio forza, a chi nell’avvilimento non sa più "aspirare", a chi vede calpestata la propria "dignità" e si arrende, a chi è persuaso "della propria miseria", per svegliare quelle coscienze.

L’opera pertanto fu si rivelò un tarlo nel sistema ferdinandeo.

Attingeva le sue ragioni - in un periodo in cui la Religione era alleata con la Corona - al Cristianesimo, scardinando i termini di quella alleanza, perché il suo era una visione cristiana della vita che non aveva niente a che fare con la "rozza religiosità, superstiziosa e pinzocchera" del re.

Questo Cristianesimo lo portava a chiamare fratelli "il Monarca e il suddito" a ricordare ad entrambi che "maggiore" è l’autorità "maggiori sono i doveri", che "l’autorità è più un obbligo che un diritto", che "il reggere" non è "per saziare la sete del comando ma per dirigere alla felicità chi obbedisce", che "l’obbedire" non è "per legge di servitù ma per necessità d’ordine", che "l’amor della patria" non è "per soggiogar l’aliena, ma per far fiorire la propria" e che è stolta "la violazione dei diritti umani" perché "la coscienza del diritto fa impaurir la forza, e dai recessi del petto manda una voce terribile cui nessuna potenza umana riesce a sottomettersi giammai".

Rivolgendosi a coloro che avevano le redini del comando indicava loro "il difficile incarico di regolare lo Stato, il Diritto, la Giustizia universale" e ricordava che, se pure "di grande autorità son rivestiti" e "reggono gran parte delle azioni umane", "nessuno è maggiore delle leggi", che se essi "abusano l’alto mandato", "obliano quelle leggi d’eterna giustizia", "conturbano la inviolabil condizione dei loro simili" e diventano "flagello di Dio".

Non obliino che nessuna potestà è legittima se non è legittimamente usata; che nessuna gloria è durevole se non ha per conseguenza l’immegliamento umano; che nessuna infamia è tanto maledetta quanto quella che pesa sul capo di chi governa. Ricordino che sparirà ben presto il lampo onde ora rifulgono per aspettare che sorga l’ultimo Sole [...]. Ricordino che a quella luce temuta coloro che mal dominarono, vorrebbero nascondere il triste dominio, e quelli che furono oppressi, saranno vendicati in eterno!.

Sosteneva le ragioni di chi era "nella povertà, nell’esilio, nelle catene, nell’agonia dello spirito, nell’abbattimento del cuore", ricordando che la fiducia in Dio "sta aiutatrice immancabile, e conforta, e serena, e trionfa" per cui "si disarmano i tiranni, si combattono i nemici".

Agli oppressori ricordava che "l’uccisione non assicura, la violenza non acquieta, la persecuzione non calma", che il "Giudice Supremo" "scenderà a giudicare le nazioni" perché Cristo non è venuto "con arme ed eserciti a conquistare il mondo" egli è anzi "lo scudo" che "ne difenderà dall’ingiustizia, dall’oppressione e dall’ignoranza".

Il Vangelo in questo libretto, che fu creduto un innocuo libro religioso, diventò la forza a sostegno delle "Nazioni stanche delle tenebre e del sangue".

Ecco una convinta offerta che sa di spinta insurrezionale:

Se, innanzi tempo, un’alta cagione mi consigliasse a rifiutar la vita; se prezzo del mio morire dovesse essere [...] la sicurezza, l’indipendenza della patria mia; se il mio sangue avesse a fruttificare semenza di animi forti [...] fuorché l’oppressione del debole, fuorché la rinuncia alla propria dignità [...] allora scenderà gradita [...] la Morte.

Da tenere presente che queste "meditazioni" avvenivano negli anni della reazione borbonica, quando "era raro e periglioso [...] il parlare di libertà" e quelli che erano rimasti a Napoli "dovevano nascondersi e parlare a bassa voce guardandosi attorno".

 

Landolfi e il problema dell’unità d’Italia.

Durante i fatti che portarono all’unità il Landolfi seguì gli eventi che avvenivano sui "Campi lombardi", seguì le gesta di Garibaldi, giudicandolo un "miracolo d’uomo", esortando "i forti" a "sorger vindici" ed inneggiando ai fatti che "scavano la fossa all’intera dinastia".

Partecipò in prima persona agli eventi napoletani e fu tra quelli che salutarono "l’alba del riscatto", conscio che stava vivendo "uno dei più grandi mutamenti di cui faccia testimonianza la storia".

Considerò però criticamente quegli eventi infatti giudicò l’annessione una "surroga di un altro Monarca", ma si rese anche conto che unirsi "al carro" di un’altra monarchia era una condizione necessaria per "costituire una gran Nazione" e realizzare "i voti secolari de’ più solenni intelletti italiani".

Il Meridione, per i tesori della sua cultura e per il prodigio del suo ingegno, non sarebbe stato da meno delle altre parti d’Italia nel dare il suo contributo all’Italia che si univa. Era necessaria però una vasta opera di sollecitazione intellettuale e di rinnovamento civile che sostenesse quella etico-religiosa da lui propugnata in Dio e l’Uomo, per cui fu anche in questo campo attivo organizzatore e stimolatore di cultura in un articolato e capillare impegno sia nel suo salotto, dove passava la cultura napoletana particolarmente vivace nel primo periodo postunitario sia nella Associazione degli scienziati, letterati ed artisti sorta proprio con l’intento di sostenere la rivoluzione che aveva fatto "rovesciare il vecchio per creare il nuovo".

In un discorso sulla solidalità delle azioni umane egli espresse ciò che doveva essere a fondamento dell’unità italiana. Per lui la solidalità doveva stringere tutti gli uomini, in una stupenda unità per cui non era più legittimo "il volere di un uomo" ma "lo interesse di un popolo intero" che insorge se lo vede calpestato. Si doveva creare insomma un centro-solidale-Italia.

La strada per realizzare ciò era l’istruzione che avvia all’indipendenza e questa alla libertà e poi la libertà diventare guida alla perfettibilità umana.

Da liberal-conservatore il Landolfi voleva che la promozione del cittadino in un’Italia unita fosse lontano da ogni estremismo. Doveva essere improntata ad un nuovo modo di intendere la religione nella forma di "un cattolicesimo di nobile sembianza, restaurato e conciliato con l’idea di progresso, coi frutti delle rivoluzioni e coi bisogni dei tempi".

Propugnava una religione che tenesse presente solo il regno di Dio, auspicava che il gran seggio di Pietro fosse "libero da ogni terreno impaccio" per essere "Faro dell’umanità" perché il sangue di Cristo non fu pagato per "sostanze temporali" e si augurava che "il Regno di Dio non fosse turbato pel regno della terra; e il Regno della terra non turbi e contamini la santità del Regno di Dio: che l’uno e l’altra nei loro confini siano in mutua relazione".

Tutto ciò portò il Landolfi irrimediabilmente al centro di una querelle contro il clericalismo napoletano che gestiva le scuole popolari cattoliche, la cui associazione lo aveva proposto come socio onorario proprio perché autore di Dio e l’Uomo mostrando di non aver compreso le istanze liberali di quel libro. Il Landolfi, rispose a quella proposta con una lettera aperta sul giornale liberale il Pungolo, in cui fece la sua professione di fede sulla questione cattolico-italiana dichiarandosi sia cattolico apostolico e romano che cittadino italiano ed affermando di venerare, come cattolico, nel Papa il Vicario di G. C., come italiano, di riguardare "lui come ogni altro Principe terreno".

Il cattolico doveva rispettare l’autorità della Chiesa ragionevolmente (il corsivo è suo) perché se è vero che i dogmi non si toccano è anche vero che la disciplina della Chiesa può essere messa in discussione e adattata ai tempi che mutano, inoltre sottolineò la necessità, in un regime di libertà, della tolleranza dei culti.

Accusò la politica temporale della Chiesa e, dato il valore spirituale del soglio di Pietro e l’alto esercizio della Chiesa che è madre dei cattolici e non la piccola Chiesa di uno Stato, chiese a gran voce una soluzione alla questione di Roma capitale, denunziando il danno che la situazione creava alla coscienza religiosa.

 

Garentiamo la Chiesa nel suo libero e sovrano esercizio; circondiamola d’ossequio e d’autorità non sospetta di personali e terreni interessi; eleviamola o, meglio, riponiamola nell’altissima sfera dove Cristo l’ha stabilita, e la fede tornerà a brillare della sua luce divina, il sacerdote torni ad essere il Ministro di Dio; il Cattolico non si troverà collocato fra due violenze.

 

Indicò inoltre i veri nemici dell’Italia, più subdoli di quelli che la sconfiggevano sui campi di battaglia, la Francia di Napoleone III, la "fera man che libera e unita non la vuole", lamentando la situazione di dipendenza italiana dalla Francia che minava la giovane nazione

Nell’analizzare il problema della formazione della coscienza italiana Landolfi affermò che questa poteva avvenire rifacendosi alla ricchezza del suo patrimonio culturale a cui il Meridione avrebbe potuto partecipare a pieno titolo.

Bisognava farlo attraverso le biografie degli uomini che nacquero nel Mezzogiorno che sono un patrimonio inestinguibile e non conosciuto e di questi uomini molti appartengono alla cultura giuridica.

Il Landolfi metteva in evidenza la posizione di grande valore della giurisprudenza napoletana che oltre a costituire gran parte della borghesia napoletana faceva da tramite con la periferia, con la quale continuava a mantenere contatti verso la quale i governi piemontesi avevano molto astio proprio per la forte funzione di collante con la provincia meridionale

Un altro aiuto al rinnovamento morale e politico sarebbe dovuto avvenire dalla conoscenza della lingua italiana considerata un elemento importante per l’unificazione di educazione della coscienza nazionale.

 

Dalla speranza alla delusione: la svolta del periodo post-unitario.

Alla fine del primo decennio post-unitario maturò una svolta che portò il Landolfi ad abbandonare le speranze che avevano animato i primi anni dopo l’unità.

Già nel 1867 aveva affermato: Le rivoluzioni sono più facili a farsi che a mantenersi e si riferiva al fatto che nel processo unitario il Meridione era tenuto in grande discredito da parte dei piemontesi.

Entrò perciò nella polemica antimeridionalista e lo fece contro il conte Federico Sclopis, piemontese, che nella sua Storia della legislazione italiana non solo avesse negato il contributo napoletano alla civiltà italiana quanto denigrato tutta la civiltà napoletana.

Non hai tu compreso, o Conte Sclopis, che presso di noi il Giureconsulto e l’Avvocato, essi soli, quando tutti gli altri stavan timidi e servili hanno tenuto alta la fiaccola della filosofia e delle lettere, essi soli han custodito illeso il genuino palladio della libertà della parola e del pensiero? Dirò io che la luce del Mezzogiorno non arriva gradita al Settentrione, o è troppo viva e non ne ponno quegli occhi sostener lo splendore? No, no; questo non dirò già io; la sarebbe un’ingiustizia; l’Italia del Nord è la stessa che quella del Sud, da diverso luogo, siamo i figli stessi; nelle glorie come nelle sventure, uguale e indivisibile è la sorte nostra; solidale è l’esistenza degli italiani.

Qui accanto alla delusione della ingiusta discriminazione c’è la difesa dell’unità di fondo del popolo italiano.

Denunziò i privilegi, i monopoli, le ruberie, le arroganze che avevano reso l’Italia "una nave che erra senza nocchiero", "una specie di astio con questa diletta Napoli [...] e con ogni cosa meridionale".

Si convinse che tutto il Mezzogiorno era la principale vittima della crisi interna del regno. Ne addebitava la causa al fatto che l’annessione del Sud allo Stato unitario era avvenuta "senza il battesimo del sangue". La mancanza di partecipazione al Risorgimento aveva trasformato cioè l’annessione del Meridione in una conquista perciò esclamava "Sorgiamo, dunque, sorgiamo a sperdere l’immeritato oblio".

Il riscatto doveva avvenire proprio dal Meridione che tante ricchezze culturali che quando le "Arti risursero in Toscana, erano già surte nelle Province Napoletane".

In questo periodo il Landolfi si fece più solitario ma continuò ad animare con la sua vivacità intellettuale il proprio salotto, ad aspirare ad una perfettibilità del cittadino che dovrà far risorgere veramente l’Italia. Più intensa si fece la sua attività propositiva legata sia alla professione e ai problemi della giustizia, seguendo i lavori del Parlamento, avanzando proposte di ammodernamento, discutendo le nuove disposizioni, sia rivolta ai problemi di rinnovamento sociale.

Partendo dalla convinzione che l’esempio è la migliore via per educare, guidare, sostenere e che l’uomo del suo tempo ha bisogno di questa azione, la sua opera propositiva si coagulò intorno alla donna sempre da lui considerata l’elemento cardine della società. Il Landolfi aveva sempre sottolineato il ruolo della donna, compagna dell’uomo e nonostante ciò da lui considerata debole, vile, serva, persino priva di "anima immortale" ma da Dio posta al centro della sua opera poiché la redenzione cominciò "dalla reintegrazione della donna", nella figura di Maria. Auspicava che la donna comprendesse l’altezza del suo compito. Aveva un concetto alto della donna come sostegno della famiglia motore delle azioni umane, e ne difendeva l’emancipazione e difendendone il diritto al lavoro, all’impegno in pubblico e negli studi.

Le massime sono dettate dall’esigenza di tenere desta la coscienza nell’affrontare le insidie di quel difficile e pericoloso ampio spazio di transizione tra l’onesto e il disonesto che è una specie di trapasso indeterminato nel quale la coscienza è come perplessa e tormentata. Ma la coscienza dell’uomo ha anche bisogno di essere guidata perché i danni che nascono dall’azione negativa sono maggiori dei vantaggi di chi fa il proprio dovere. Le massime sono dunque questa sollecitazione e questa guida. Esse tracciano un ampio reticolato che imbriglia tutta la vita dell’individuo sia quando è solo con la sua coscienza che quando è in relazione con gli altri. Sono improntate ad un alto senso della dignità che nella donna diventa un segno distintivo (Nessuna difesa è tanto inespugnabile quanto il sentimento della propria dignità), che è la condizione del vivere civile di una società. Il senso della dignità umana porta all’aspirazione per le cose alte ed è un esercizio proprio di chi è dotato di ragione, che ha il compito di controllare, e di volontà, che permette di superare ogni ostacolo. In questo scritto compare un Landolfi che conosce profondamente l’animo umano a cui certamente lo portava la sua professione abituata a scavare nei meandri dell’animo umano per trovarvi le ragioni dell’agire, e un Landolfi che è convinto che ogni scienza o studio deve essere fatto in funzione dell’uomo. Nel difficile impegno di dare precetti egli non fu assertore di verità, anche se le massime hanno la secchezza del comandamento, bensì negli squarci di esperienza vissuta che esse disegnano egli diventava una guida sapiente di chi è passato attraverso la prova dei fatti.

Ora che si profilava l’immagine di una società in decadenza il suo impegno percorse due strade. La prima portò alla donna in modo ancora più concreto. Per lei scrisse una raccolta di massime, che è una guida paterna ma forte affinché questo elemento essenziale della società non erri e comprenda la sua grande responsabilità.

L’altra strada fu quella del mondo romano visto in funzione etico-pedagogica. Lo studio degli antichi diventava, un compito civile e un vero e proprio impegno politico per la nascente nazione italiana.

La nuova Italia doveva attingere alla Roma antica.

 

I Latini siamo noi: la lingua che noi parliamo fu generata dalla latina Roma: la idea latina sta ne’ nostri libri, sta ne’ nostri monumenti, sta nei nostri cuori, sta nelle virtù, nelle ricordanze, ne’ nomi, ne’ nostri vizi stessi: il nostro intelletto è irrevocabilmente latino. Debito nostro è dunque di studiare noi la nostra Roma [...] ma non ci riduciamo allo stato di pecore matte: parliamo noi in casa nostra.

 

Dal mondo latino l’Italia doveva prendere l’esempio di come deve sorgere una nazione:

 

Tu vedi come il pensiero [...] con instancabile attività assimilatrice, cerca e s’appropria quanto di gagliardo hanno i prossimi e lontani; e, finalmente, surto a forza fecondante organata, sente la gran coscienza della sua missione umanitaria, percorre la terra, e obbliga il Mondo a inchinarsi innanzi a lui, obbedirgli e diventare civile [...] e Roma se ne [la lingua e le idee degli altri popoli] immedesima ogni parte vitale, la converte in propria la coordina, la fonde in se stessa.

 

Dopo il risorgimento affidato alle armi ora per il Landolfi doveva iniziare quello del pensiero che si arricchisce e fortifica attingendo ad un patrimonio che era stato tralasciato: i classici che non venivano studiati o venivano studiati attraverso traduzioni straniere.

A questa opera il Landolfi dette il suo contributo attraverso le due traduzioni di Tacito, lo storico che indagò il mondo della decadenza di Roma che era come quella italiana e napoletana del suo tempo, decadenza di civiltà. Essa provocava quella che Tacito chiamava libido adsentandi intesa come rinuncia alla dinamicità antica, come ozio che è inerzia. Era la stessa condizione che determinava il mancato decollo politico dell’Italia. Bisognava quindi ripetere la medesima operazione fatta da Tacito di proporre cioè l’esempio di un popolo - il germanico - se pure primitivo ma semplice e forte, era un esempio di umanità genuina. C’era insomma da fare un’iniezione di energia.

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Le traduzioni del Landolfi sono analizzate da Luigi Spina in Due traduttori di tacito: Giuseppe Sanseverino e Luigi Landolfi in AA.VV., La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, II, Napoli, 1987, pp. 573-584.
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L’altra opera la traduzione della Vita di Agricola aveva il medesimo scopo poiché Agricola era un exemplum di virtù, dei valori morali che gli individui singoli riescono a sommare nella società evoluta.

Per concludere si può dire che Landolfi si colloca a pieno titolo tra quegli uomini di dottrina e di pensiero che per decoro e nobiltà Croce considerava il vanto e l’anima dell’Italia meridionale.

 

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Di lui parla Carmine Troisi in un sonetto

 

Il veglio onesto

Finezza di sentir, coltura eletta,

pensier di largo e ben sicuro volo,

religion verace, alta, perfetta,

a Dio mirando, come l'ago al polo;

costume di bastare a sé da solo,

coscienza avendo dignitosa e retta;

forte, operoso amor pel patrio suolo,

con fier disdegno di partito o setta;

classica maestria di forma e stile,

dell'aurea antichità parvenza vera;

di scienza, ed arte ragionar sottile;

in vecchio cuor perenne primavera

d'ogni più bella cosa e più gentile:

ecco il Landolfi qual mi parve, ed era.

 

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DOCUMENTI

 1849, luglio 15. Napoli

Parte della difesa fatta da Luigi Landolfi a favore del Comune di Solofra nell’indagine sulla spesa da essa sostenuta e sull’ammontare della contribuzione ad essa spettante circa la costruzione e la riattazione della Strada che. partendo da Atripalda e continuando per S. Stefano, Cesinali, S. Michele, S. Lucia e Serino giunge al confine di Solofra con Montoro in località Ricciardelli. Il Landolfi espone i fatti legati alla costruzione della strada e ne fa la storia.

[...] In sul finir del passato secolo chi dalle Puglie voleva dritto andare in Salerno, o dall’uno all’altro Principato, non poteva usar vettura, chè mancava ogni strada rotabile.

Solofra posta nel confine che separa la propria Provincia di Avellino da quella di Salerno, fu la prima a scorgere la necessità d’una strada di comunicazione fra i due Principati; e non solo ne proclamò i vantaggi, ma, progettandola per traverso il suo territorio, se ne fece promotrice con ogni maniera di soccorsi. E tenuto Parlamento nel 1790, tracciò le norme dell’opera; designò le Comuni che doveano concorrervi; propose il ratizzo sulla spesa approssimativa di ducati 10.500, e giunse, con rara generosità, a gravar sé medesima della manutenzione termina6ta però che fosse la strada e costruita interamente.

E nel rivolgersi al Re per l’autorizzazione, unita alle altre Comuni contribuenti, fece rilevare che non solo il commercio de’ privati, ma il Real Tesoro altresì e la Marina venivano a ricevere da quell’opera significanti vantaggi: perciocchè il trasporto de’ legnami da’ vasti boschi di Serino al cantiere di Castellammare diventava più agevole, più economico e più sicuro mercè la nuova strada.

A vista del pubblico e del privato vantaggio la sovrana approvazione fu conceduta: era il 22 agosto 1791. Così fu intrapresa l’opera.

Ma sia pel cangiar de’ Preposti al governo delle Comuni, sia pel sovvenir del cataclisma sociale del 1799; sia da ultimo perché la fortuna ingiuriosa contrasta ad ogni opera utile del nostro paese, è certo che la strada non fu compiuta: de’ ducati 110.500 si spesero 9743.62 fino al 1796, indi ne fu del tutto abbandonato il pensiero; né se ne trova più motto se non piacesse ricordare la fuggevole querela che di tale abbandono faceva senza effetto il General Campedron nel 1811 all’Intendente..

Nel 1816 avveniva un fatto importantissimo alla presente disquisizione. Si intraprese e menò a termine la costruzione d’una novella strada per Forino e la montagna della Laura per più scorciato cammino pone fra i due Principati quella comunicazione cui era destinata per la volta di Solofra la strada del 1791. Fu così che il progetto antico avendo avuto altra direzione, si volse in danno della Comune che fu prima a pensarlo.

Tale era la condizione delle cose quando al capo della Provincia di Avellino ricorse il pensiero della strada del 1791, e risolse riprendere e compiere l’opera interrotta nel 1796. Ma gli elementi motori eran del tutto cessati, distrutto lo scopo, le speranze dei vantaggi svanite: tali considerazioni non valsero a distornare l’intempestiva idea, e per attuar questa si affrettò il passo in molte irregolarità, e non è a dire quanto la giustizia vi sofferse, come sarà aperto più innanzi.

Si progettò adunque una spesa di ducati 7500, e nel farsene il ratizzo s’affermò con assai franchezza dall’intendente che Solofra aveva votato per ducati 4000 a ducati 800 all’anno (28 settembre 1817), e perciò alle altre Comuni ( e si omise quella di Cesinale) si gravarono i restanti ducati 3700, e, mira singolarità, tra queste Serino popolosa più delle altre, ricca, e dal trasporto del legname traente infinito vantaggio dalla strada, si tassò per soli ducati 1500 a ducati 300 all’anno; mentre Solofra povera di territorio e di rendite, solo per faticosa industria avente un modo di vivere , e la quale aveva veduta svanire mercè la costruzione della nuova strada per la Laura, ogni utilità sperata dall’antica, Solofra si diceva obbligata a ducati 4000 !. Diremo indi a poco se la verità di quest’asserta votazione per l’obbligo di Solofra sia meglio esistente di quello che è la giustizia di essa.

In mezzo a tutte queste esorbitanze si diè mano all’opera; e Solofra, fatta segno di tutto rigore, fu compulsa a pagare: e tra perché mal si resiste a chi ha in suo potere l’autorità di costringere ed obiurgare; tra perché pur qualche accomodo si era praticato in quella parte della strada che occupa il suo territorio (la ricostruzione della strada fu cominciata dalla punta de’ Ricciardelli, che è tenimento Solofrano), ella disborsò varie somme. Contro le nuove insistenze si schermì e parve da ultimo che l’apertissima giustizia della sua ritrosia le avesse, con una transazione di fatto, risparmiata una seria opposizione col Capo della Provincia. Fu per alcun tempo lasciata in pace, quando un nuovo avvenimento mandò ogni proposito di prudenza e di rassegnazione. Ascoltate.

Nel 1824 si volle in luoghi fuor del territorio Solofrano far più compiuta la restaurazione o ricostruzione del 1817: si pogettò una spesa di altri ducati 7500, e si volle ripetere il ratizzo del 1818. Ma Solofra non appena ebbe saputa questa nuova risoluzione vi surse risolutamente contro. Si convocò immantinenti il suo Decurionato, e non altro sentendo che l’altezza de’ propri diritti, deliberò nel 26 aprile 1825 esser ingiusto e il primo e il secondo ratizzo; mendace la votazione di ducati 4000 pel primo ratizzo; averlosi del tutto ignorato; ingiustissimo il secondo. Indi reclamò la restituzione dell’indebito pagato, e si mostrò decisa a sostenere fermamente la ragion sua.

A questa solenne voce l’Intendente non dissimulò scrivendo al Ministro che Solofra per vero non aveva mai votato i ducati 4000 pel primo ratizzo. Pur volle giustificar l’operato affermando che se tanto non era avvenuto per libera votazione, ben lo si dovea sanzionare e far eseguire come una tassa inflitta a quella comune la quale per non aver mantenuta l’opera del 1796 in poi, avveala fatta deperire; da che del danno e della spesa tutta ella colpevole sola.

Ritrattata così la prima cagion dell’obbligo, per alcun altro tempo si stette senza pigliarsi deliberazione di sorte: ma la malarrivata Comune non avea posa mai, perciocchè ora in una ora in altra guisa costretta, finiva sempre con sterili proteste e reali sborsi di nuove somme. Ricorse adunque dirittamente al Re, e lamentò la non meritata gravezza. E ‘l Sovrano nel 21 agosto 1835, prese in considerazione i reclami della povera Comune, e mandò la supplica a voce.

È da questo punto che le ragioni di Solofra cominciano ad esser vagliate: il Ministro con una seria corrispondenza fece rilevare all’Intendente quale e quanta ragione avea Solofra di reclamare una giustizia fin allora negletta: ma visto esser vana questa via, si volse alla Commissione de’ Presidenti e con ministeriale del dì 8 giugno 1836; l’incaricò di pigliare esatto conto de’ narrati reclami versando specialmente sulla giustizia o ingiustizia de’ ratizzi del 1818 e 1825.

Ecco la fortunosa via onde la Comune di Solofra è giunta finalmente a poter esporre le sue ragioni senza tema e colla franchezza del proprio convincimento. E questa è per lei sicura caparra di vittoria perciocchè finora non l’è già mancata la giustizia della causa, ma ben il magistrato che ne avesse voluto debitamente conoscere [...].

La requisitoria procede con uno specchietto dei tre ratizzi relativi al 1791, del 1818 e del 1824 a carico di tutti e sette i Comuni interessati e con un ragionamento in cui si dimostra che Solofra non è obbligata né per promessa volontaria, né per colpa ad eseguire i ratizzi citati che se Solofra nel 1790 si assunse l’obbligo di pagare una quota più alta era perché per il suo territorio sarebbe passato il traffico tra le Puglie e Salerno e che invece con la costruzione della strada per la Laura essa ha perduto il beneficio di tale traffico quindi sono cadute le motivazioni che spinsero allora a sostenere il peso della quota più alta (circa l’altra motivazione che spinse alla richiesta di costruzione della strada e cioè la maggiore facilità di approvvigionamento del legname di Serino ai Cantieri di Castellamare non interessa Solofra), che per la ricostruzione della strada Solofra deve pagare solo ciò che essa è costata nel tratto che passa per il suo territorio, che Solofra mantiene bene le proprie strade anzi le migliora infatti per la strada da Turci a Ricciardelli ha speso ducati 6326 e per la sua manutenzione dal 1824 al 1848 altri ducati 4302.

(ASA, Intendenza, 3570, Strada Atripalda casa Ricciardelli).

 

 

IL TACCUINO PER MIA FIGLIA MARIA

 

 

 

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