Approfondimenti
La donna tra
il XVI e il XVIII secolo
Approfondiamo in questo articolo un argomento che ha particolarmente
incontrato l’interesse dei lettori, infatti la condizione della donna era
talmente all’opposto di quella di oggi da suscitare stupore e sconcerto ed è
utile parlarne perché una delle funzioni della storia è proprio quella di
dare il giusto significato alle realtà del presente. Ciò che maggiormente
interessa della donna di una volta è il matrimonio
per le enormi differenze con oggi, infatti ella non solo non sceglieva l'uomo
che avrebbe dovuto tenere vicino per tutta la vita, ma il suo matrimonio era
un vero e proprio affare economico. Esso avveniva per mezzo di un contratto
molto interessante - i famosi Capitoli matrimoniali - stipulato in presenza di un notaio e seguito da altri atti che
completavano il "negotio", come
allora si chiamava ogni tipo di "affare". Da una parte c'erano il
padre e i fratelli della sposa che erano gli intestatari del patrimonio, che,
nella dote, veniva assegnato allo sposo e non alla
donna. Mentre questa, se pure presente fisicamente,
era rappresentata da un'altra persona, detta mundoaldo,
perché non aveva potere legale. Dall'altra parte c'era il padre dello sposo
che esercitava sul figlio la patria potestas,
una tutela anche di carattere economico. Comunque
raramente lo sposo stipulava da solo questo atto. C'erano poi altri agenti: i
tutori, in presenza di figli minori in caso di
secondo matrimonio, gli esecutori testamentari, se la dote interessava un
lascito, gli amministratori dei Monti familiari, che gestivano questi
istituti dotali, infine c'erano i testimoni. Importante era il numero e la
funzione di questi ultimi che non erano mai in numero inferiore a sette. In
prevalenza erano religiosi, sicuramente membri della famiglia o persone
influenti e ritenute idonee ad assicurare il rispetto e l'osservanza degli
accordi nuziali oppure erano padri spirituali degli sposi, o anche sacerdoti
della parrocchia. Non mancavano letterati laureati in utriusque
juris doctor e altre
autorità locali come il Capitano, per cui i
Contratti matrimoniali danno la possibilità di individuare i legami che le
due famiglie avevano con gli ambienti della società locale ed anche le
persone influenti che erano presenti in quel momento sul territorio. Il contratto, che era
preceduto da vari accordi orali tra le parti, conteneva i termini di questi
accordi in modo chiaro e preciso. Si affermava infatti
"habuisse colloquium
et tractato de felice
matrimonio in vulgari sermone" e si stabiliva
l'impegno delle parti affinché si addivenisse ad "un felice
matrimonio". Dopo la parte iniziale, con l'indicazione delle persone
presenti all'atto, si dichiarava che l'accordo era avvenuto dinanzi alla
chiesa, che era in genere La data del matrimonio
era stabilita in modo molto approssimativo. C'erano dei periodi preferiti come
settembre-dicembre ed aprile-maggio, ma c'erano anche matrimoni che si
celebravano nei giorni antecedenti o posteriori alle tre fondamentali
festività della Cristianità: il Natale, Un tratto generico di questo atto era quello che riguardava le modalità della
cerimonia e il peso delle spese che non erano sempre a carico della famiglia
della donna, spesso era lo sposo a impegnarsi per esse, compreso il pagamento
dei vari atti notarili. Ancora lo sposo faceva solenne promessa di fedeltà e
protezione della donna in tutte le circostanze della vita e si impegnava a mettere in atto tutto ciò che poteva
realizzare il "felice matrimonio". Molto articolata e
centrale era la parte che trattava della dote. Essa veniva
consegnata dal padre della sposa al padre dello sposo il quale si impegnava,
per il figlio, di farla fruttare, di non decurtarla e di consegnarla integra,
alla morte della sposa, se questa non aveva figli, alla famiglia originaria.
La dote era costituita di una parte in corredo (detta ad usum
Solofre) il quale era
descritto in una lista allegata al contratto matrimoniale ove erano elencati
gli oggetti del corredo, costituiti in capi di biancheria per la casa e per
la donna con la relativa cassapanca, materassi e coperte, ma anche in oggetti
di rame per la cucina che venivano indicati in peso. C'erano persone apposite, amici o consanguinei, addette alla valutazione
del corredo che ne consegnavano al notaio la lista dove, accanto ad ogni
pezzo, era riportato il relativo valore, e alla fine l'ammontare del valore
del corredo. Un'altra parte della
dote era costituita dal denaro, la pecunia,
che veniva consegnato all'atto del matrimonio in una unica soluzione o in
rate stabilite da altri atti notarili. Altre volte il padre della sposa
stipulava un mutuo, cioè un atto di credito, con lo
sposo in cui si impegnava a versare il denaro entro un determinato tempo -
non oltre i tre anni - e dava in garanzia un bene, descritto in un altro
atto, che veniva restituito alla risoluzione del mutuo. Il mutuo dotale era
quindi un vero e proprio credito, infatti c'erano
gli interessi e, se i termini del pagamento non venivano rispettati, le
penalità. Molto più complessa era la procedura se si
trattava di una dote costituita da beni immobili, perché in tal caso si
decurtava il patrimonio familiare e ciò era contrario alle modalità
patrimoniali del tempo. Se comunque ciò avveniva il
bene veniva descritto in modo particolareggiato in un atto, detto docium, dove ci si impegnava di riconsegnarlo alla
famiglia di provenienza della donna in caso di suo decesso e se dal
matrimonio non erano nati dei figli. Qualche volta allo sposo veniva concesso come dote l'uso della conceria o di una
bottega artigiana per un determinato periodo che poi poteva anche allungarsi
e permettere allo sposo di essere assorbito nella impresa della famiglia
della moglie. Gli immobili, oggetto della dote, erano per lo
più case, un piano inferiore terraneo ed uno
superiore con gradinata esterna, il cortile ed il pozzo, difesi da cancelli,
quasi sempre sul retro dell'abitazione c'era un piccolo podere coltivato ad
orto. Se la nuova coppia non si allontanava dal nucleo familiare, e ciò
succedeva con la famiglia dello sposo, la casa patronale veniva
ampliata di una "cammara" ricavata e
costruita ex novo sulle zone adiacenti - un cortile o una terrazza -
oppure venivano individuati e divisi in essa degli ambienti. Lo sposo rispondeva
alla costituzione della dote con dei donativi propter
nuptias di minor
valore. Erano indicati con i termini pro muliere
e pro viro ed erano un residuo di un istituto giuridico di origine longobarda, il cosiddetto antefato
costituito dallo sposo alla donna e consistente nell'usufrutto di una certa
parte (anche un quarto) dei beni del marito, mentre una parte (un sesto)
dell'usufrutto della dote era devoluto all'uomo. Entrambe le donazioni venivano stabilite in due atti legali accompagnati dalla
rinuncia, da parte del padre della sposa, della patria potestas
sulla figlia che passava allo sposo. Entrambi i coniugi venivano in possesso
di queste donazioni soltanto alla morte del coniuge perciò di questo se ne
parlava nei testamenti. La dote era quindi
l'impegno più autentico del vincolo matrimoniale, qualificava in modo
indiscutibile il matrimonio come un atto economico attraverso il quale, in una economia debole come quella del meridione, due
famiglie ponevano insieme le proprie forze economiche proteggendole dalla
dispersione. Si preferivano infatti matrimoni di due
sorelle con due fratelli, di vedove con cognati e naturalmente tra cugini per
far rimanere nell'ambito della famiglia il capitale. E si preferiva sancire
un patto societario, che univa due famiglie in una unica
attività o in due attività complementari, con un matrimonio dove la dote veniva
a far parte del capitale che si impegnava nella società. Addirittura il
matrimonio sanciva il trasferimento di una famiglia dal casale di origine ad un altro. Per capire tutta questa complessa
procedura delle alleanze familiari bisogna considerare che la famiglia costituiva una impresa in se stessa e considerare che
allora non esistevano famiglie costituite ad un unico nucleo. Se il
matrimonio non sanciva un'alleanza familiare bisogna sempre tenere presente
che la donna apportava nella famiglia in cui entrava un suo preciso
contributo che concorreva a determinare un progresso economico di essa. E' chiaro ora che ci troviamo di fronte a qualche
cosa che non ha a che fare con la sfera dei sentimenti e degli affetti e
spiega perché non si richiedeva l'intervento della donna nella scelta del
marito. La dote fu anche uno
strumento di difesa del patrimonio nel senso che all'atto di riceverla la
donna rinunciava a qualsiasi eredità futura, sia da parte delle
madre che del padre. Così l'atto notarile non serviva solo a
legalizzare la trasmissione dei beni, ma ad escludere la donna dalle
successive suddivisioni del patrimonio, favoriva quindi la discendenza
maschile ed evitava ulteriori dispersioni del
capitale immobiliare della famiglia. A costituire la dote
erano obbligati i familiari maschi: in assenza del padre c'erano i fratelli,
poi venivano gli zii o altre persone indicate nei testamenti dove i genitori
ne stabilivano l'ammontare o incaricavano appunto un esecutore testamentario
a costituire la dote se la donna si sposava. Non mancavano casi in cui il
marito incaricava la moglie a costituire la dote alle figlie. La donna
solofrana infatti poteva stipulare gli atti ma
doveva essere assistita, come si è detto, dal mundoaldo
e da un rappresentante legale. In caso di morte del marito e di assenza di figli la donna poteva avere accanto alla
dote alcuni beni stabiliti nel testamento del capo famiglia. Se c'erano i figli invece la dote non le era restituita e
la donna era usufruttuaria dei beni di famiglia solo se manteneva "il
letto viduale", si diceva. Le donne avevano la dote anche se entravano in convento in tal caso essa
determinava il trattamento che la giovane aveva nel monastero. Se infatti prendeva i voti senza dote era assegnata ai
lavori di pulizia, cucina o cucito cioè contribuiva con il suo lavoro al
mantenimento del monastero. Il monastero gestiva le doti delle monache
attraverso il prestito, esse quindi ritornavano nel circolo della economia locale e per molto tempo costituirono un
valido sostegno alle attività mercantili ed artigiane solofrane. La gestione
di questo patrimonio veniva affidata alle Badesse o
a suore addette a questo scopo, come fu suor Maria Raffaela Giliberti che per
molti anni nel XVII secolo gestì il patrimonio del Monastero di S. Chiara
avendo anche diverse liti con Col tempo la dote
assunse le caratteristiche di un obbligo civile, di un dovere e di un segno
della consistenza economica, e della rispettabilità della famiglia tanto che veniva ritenuto disonorevole maritare una figlia senza
dote. Per questo motivo nacquero i Monti familiari o maritaggi
che erano istituzioni che gestivano una parte del patrimonio di famiglia per
assicurare con tale gestione la dote alle donne della famiglia. Erano gestiti
da persone incaricate a ciò all'atto della costituzione del Monte. Il Monte
più antico, istituito a questo scopo, fu quello di Gregorio Giliberti che a
metà cinquecento impegnò una parte del suo patrimonio in questo ente per le
donne della famiglia che fu utilizzato per ben due secoli. In seguito anche
le altre famiglie facoltose di Solofra istituirono Monti familiari o laicali.
Nel 1754 il catasto onciario indicava i seguenti Monti: Monte
della famiglia Vigilante fondato da Pompilio, Monte della famiglia
Giannattasio fondato da Antonello, Monte della famiglia Giliberti, fondato da
Giovanni, Monte della famiglia Ronca fondato da Aurelio, Monte della famiglia
Landolfi fondato da Gio. Pietro, Monte della
famiglia Verità fondato da Pirro, Monte della famiglia Pandolfelli fondato da
Antonello, Monte della famiglia Giaquianto fondato
da Pompilio; e poi c'erano i Monti delle famiglie Iuliani,
Papa e Maffei. Da sottolineare il Monte dei
Battitori d'oro della città di Napoli, sito nella Chiesa di S. Maria della
Moneta, era detto delle Centenare, perché
così si chiamavano i fogli di oro da battere, e fu utilizzato da molti
battiloro solofrani i quali per poter fare questa attività a Solofra dovevano
avere residenza a Napoli. Era un Monte molto ricco e dotato di molti
privilegi come tutta la consorteria dei Battitori di oro
tra i quali si trovavano anche coloro che avevano un titolo nobiliare, come i
Maffei, poiché questa arte non era considerata disonorevole per un nobile. Per le fanciulle povere c'erano invece i lasciti testamentari
fatti da persone facoltose e finalizzati alla costituzione di un reddito
dotale. In genere il lascito era affidato ad una chiesa che lo gestiva per le
giovani povere del paese. La consuetudine delle Verginelle solofrane
aveva proprio questo scopo. Era un'istituzione religiosa che si appoggiava
alle chiese dedicate alla Madonna - a Solofra ce ne erano
molte - alle quali si iscrivevano le giovani senza dote. Esse in occasione
delle festività mariane si recavano vestite di bianco ai piedi della Madonna
e pregavano per le benefattrici, in genere chiedendo per esse
la grazia di una buona maternità, di un buon parto o il dono del latte. Se si
tiene presente che in quei tempi altissimo era il numero di persone che
morivano di parto e di neonati che morivano nei primi mesi di vita e se si
considera che il dono del latte era una vera grazia poiché
con esso si nutriva il piccolo per molti mesi, questa istituzione appare in
tutta la sua importanza. Alle ragazze, considerate degne della dote per
meriti di onestà e purezza, questa veniva consegnata
nel giorno di S. Michele, l'otto maggio, durante la celebrazione della messa
solenne. In questa occasione avveniva anche il
sorteggio di altre doti. Per le donne che
lavoravano come domestiche presso le famiglie facoltose nel contratto di lavoro veniva stabilito che parte del salario era
destinato a costituire la dote che, ad usum
Solofre, era sempre diviso in corredo et pecunia. Non mancavano casi in cui il contratto di
matrimonio era stipulato dal datore di lavoro che donava di suo una dote alla
domestica. Molto importante si faceva l'azione legale nel controllare i matrimoni e le
doti nei momenti di pestilenza. Sia durante la peste del 1528 che quella del
1656, ma anche in periodi minori di calamità, le ragazze rimaste orfane e le
vedove o anche le domestiche rimaste senza padrone, affidavano,
in un preciso atto notarile, "personalmente e con affetto", la dote
al futuro marito. Neanche in questo caso si può dire
che esse fossero libere di scegliere il marito poiché la scelta era sempre
dettata da motivi economici che erano così dominanti che si avevano matrimoni
tra familiari ed anche tra persone con grande differenza di età per salvare
l'impresa di famiglia. Spesso in questi casi il matrimonio era determinato
dalla necessità di risolvere situazioni debitorie e
non poche volte la sposa rinunziava ai beni a favore del marito che
rivendicava delle somme di denaro dovute dalla
famiglia della donna. Non pochi contratti di matrimoni erano seguiti da atti
notarili che liberavano lo sposo dal debito, il cui ammontare corrispondeva
esattamente a quello della dote. Le doti in occasione delle due epidemie più
disastrose aumentarono enormemente e furono costituite da concerie e botteghe
proprio perché bisognò sistemare interi patrimoni che erano rimasti senza
proprietari. Circa la gestione
della dote dobbiamo dire che in vita era gestita dal
marito o dai parenti dell'uomo, la donna ne poteva disporre totalmente alla
morte del marito e in presenza di figli; altrimenti poteva decidere a suo
piacere nella misura di un terzo, mentre gli altri due terzi andavano a
coloro che le avevano costituito la dote cioè alla sua famiglia di
provenienza. A conclusione di questo articolo voglio augurarmi che nel lettore sia nato
lo stesso sentimento che è nato in me nel fare questo studio e cioè della
pregnanza di certe modalità di vita che, pur giustificate dalla contingenza
della storia, facevano della donna, in quanto madre e moglie, il perno della
famiglia e della economia caricandola di doveri e di incombenze a cui però
non corrispondeva un'eguale autonomia. |
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