Uno studio di Carlo Coppola su Onofrio Giliberti
Carlo Coppola, “Ars clamat artes”. Il Vinto
inferno da Maria di Onofrio Giliberto da Solofra in Partenope in Scena. Studi sul
teatro meridionale tra Seicento e Ottocento,
presentazione di Francesco Tateo, prefazione e cura
di Grazia Distaso, Bari, Cacucci
Editore, 2007.
Lo studio di Carlo Coppola sull’opera Il Vinto inferno da Maria di Onofrio Giliberti è un contributo alla
conoscenza del drammaturgo solofrano.
Questi gli argomenti:
Due artisti alla
corte degli Orsini.
L’autore descrive il rapporto tra Onofrio Giliberti e
Francesco Guarini, non solo figli della stessa terra ma anche in rapporto di
parentela per parte di madre, partendo dalla dedica dell’opera che il primo fa al secondo e riportando sia il testo che i versi che
l’accompagnano. Onofrio con questa operazione vuole,
secondo il Coppola, esaltare “l’arte del Guarini pittore e lodarla nella sua
forza comunicativa, avendo certo sotto gli occhi numerose testimonianze nelle
chiese e nei palazzi della sua città” (pp. 134-135), ma anche “doveva risultare
molto redditizio nel percorso verso la propria affermazione personale” (ivi).
Ma c’è di più: “L’appoggio o un rinsaldato legame di amicizia col Guarini avrebbe potuto garantirgli di far
parte in prima persona di un mondo che lo avrebbe potuto accogliere innanzitutto
come consigliere legale ed in secondo luogo come letterato della piccola e
periferica corte fiorita attorno ai principi Orsini”.
Al di là di queste motivazioni, di chiara
captatio benevolentiae,
ci sono per il Coppola “aspetti più strettamente artistici, che stabiliscono un
rapporto ipertestuale notevolissimo fra arte figurativa e ricerca letteraria”,
importanti “convergenze fra letteratura e pittura” che si trovano nella Napoli
barocca da Torquato Tasso a Giambattista Marino.
Il Giliberto opera una vera convergenza
con il suo conterraneo, che aveva dipinto moltissime scene mariane tra cui
Il Guarini d’altra parte stava compiendo “una vera e
propria rivoluzione del suo stile pittorico” come rottura col passato
individuabile sia negli “innumerevoli mutamenti”
“rispetto agli esordi” sia nella sottolineatura della grafia del suo cognome
nella forma “Guarini” staccandosi da quel paesano “Ciccio Guarino” con cui era
individuato nella dialettica paesana e che poco si addiceva ad un artista che
aveva grandi prospettive come “pittore ufficiale di casa Orsini”.
Il Coppola sottolinea la presenza dei
due artisti alla corte orsina entrambi parte del
“clima di rinascita culturale promosso dai feudatari Orsini” e indica nella
tela commissionata da Dorotea Orsini per la chiesa di San Domenico, Madonna del Rosario, “la massima
espressione del mecenatismo orsineo a Solofra” e
nella dedica del Vinto inferno che il Guarini fa a Ferdinando
Orsini il voler rendere protagonista la famiglia feudale di questo clima. Anzi il Coppola individua Dorotea Orsini in due personaggi
dell’opera del Giliberti, “Orsina e Orsilia,
particolarmente devote alla Madonna a tal punto che
Scambi tra autore ed editore.
L’analisi del Coppola prosegue
con le vicende editoriali del Giliberti che passa dal Beltrano,
l’editore napoletano di Vita e morte di
San Rocco (1642) e di Stravaganze di
amore (1641) a Lorenzo Valerii con cui pubblica
più volte il Vinto inferno. Il Coppola dimostra come l’incontro con l’editore di origine
romana e di adozione tranese, poeta e drammaturgo,
abbia prodotto nel Giliberti “una netta maturazione delle forme espressive” e
“una forte modifica della propria idea di scrittura scenica” che coinvolse “non
solo i moduli narrativi, ma anche,
innovandole, le forme lessicali” e che risente delle innovazioni operate dal Valerii nella sacra rappresentazione aversana”,
elegante nella forma ma “appiattita nello spessore dei protagonisti” e di aver
dato un nuovo indirizzo al dramma edificante d’impronta religiosa - non troppo popolare né troppo erudita - e di aver fatto capire che il “dramma sacro
poteva mettere sulla scena personaggi sacri in azione, in modo che tale
operazione non risultasse sconveniente o discutibile sul piano morale ed
estetico”. Anzi il Coppola individua una chiara
affinità tra il Vinto inferno da Maria
e il Nicola pellegrino del Valerii non solo nella struttura delle scene e nella “tipologia
dei personaggi” quanto “delle vere e proprie rettifiche o integrazioni testuali
da parte del Valerii, alla cui penna verosimilmente
si deve la correzione di più di un luogo” (pp,
142-143). Molte altre affinità sono indicate dallo studioso come l’uso e la
struttura del prologo (p. 144).
La tematica mariana e le sue
interpretazioni
Il Coppola poi affronta il duro giudizio
che Benedetto Croce esprime proprio su questa opera del Giliberto sottolineando
che “fraintendeva molti passi del testo e certamente, a gravare sull’attività
letteraria del Giliberto, era il contesto, barocco e per di più di provincia”.
Più profonda diventa l’analisi circa la tematica
mariana adottata dal Giliberti che il Croce stigmatizza molto superficialmente
con quel “sceneggia una serie di interventi della Vergine a salvare i vari
personaggi del dramma dalle insidie del demonio”, mentre molto complesso ed
organico è il discorso mariano fatto dal Giliberti visto che ogni atto della
rappresentazione è dedicato ad un diverso aspetto del dibattito mariano.
Nel primo atto c’è la figura mediatrice di Maria nei
confronti di Cristo irato per le scelleratezze degli uomini compresi
i pastori della chiesa, mentre Giovanni Scoto
le rivolge una preghiera di invocazione e lode, cui segue nel secondo
l’immagine di Maria avvocata dei peccatori intenta a salvarli dalla perdizione
e nel terzo quella della Immacolata Concezione. In questo percorso il Coppola individua tre “modalità differenti di guardare a
Maria e di leggerne la figura, quasi si trattasse di tre differenti gradi della
conoscenza” (p. 157). Dalla minaccia del giudizio divino, cui risponde il
martirio di Cristo e di Maria, si passa alla punizione cui Maria può sottrarre
chi invochi protezione per giungere alla verità rivelata della
Immacolata Concezione che solo pochi eletti possono comprendere. Questa
estrema ed ardua verità mariana viene difesa da
Giovanni Scoto, il vero protagonista del dramma
perchè, prelevato da un coro di angeli da Parigi - altro errore nell’analisi di Croce -, viene trasportato a Roma dove si svolge il
dramma e dove egli ha il compito di confutare coloro che non riconoscono
Lo studioso sottolinea
l’importanza della figura di questo monaco, rappresentante della grande
scolastica duecentesca e primo difensore della Concezione Immacolata di Maria.
Una figura controversa che proprio nel Seicento era stato
al centro di un acceso dibattito svoltosi soprattutto a Napoli dove aveva
studiato Bartolomeo Mastri, il più grande difensore dell’opera di Scoto a lungo discusso e solo da poco considerato come
colui che ha stabilito la possibilità e la convenienza e quindi la
l’affermazione di Maria come Vergine esente da ogni macchia originale.
Onofrio conosceva, dunque, tutta la ampia
problematica legata al monaco scolastico, aveva studiato i suoi testi e la sua
figura, come dimostra il “profilo drammatico” che il frate ha nell’opera;
conosceva il piano filosofico in cui è racchiusa tutta la problematica
medievale della predestinazione e dell’elezione della sua opera. Per questo
motivo per Onofrio solo Maria, Madre di Dio incarnato, poteva rappresentare la
soluzione nella dinamica del confronto fra Dio e uomo,
poiché viene eletta a modalità del loro incontro nella storia” (p. 161). Ma c’è
di più se, come sottolinea Carlo Coppola, poiché il
Giliberti fu influenzato maggiormente proprio dall’apparente compromesso
trovato da Scoto nel concepire una teologia della
storia nella storia attraverso la figura di Maria come madre di Dio incarnato”,
e le ragioni di questo sono chiarite dal fatto che nella provincia di Avellino
sono presenti numerosi incunaboli delle opere di Giovanni Duns
Scoto fra le quali si segnalano le Questiones in quattuor libros Sententiarum Petri Lombardi in cui il tema mariano è ampiamente
affrontato”. Scoto spiega il perchè della presenza
così forte di Maria nell’opera gilibertiana, la sua
teologia dell’amore, che conduce alla dottrina del Cristocentrismo,
giustifica e dà ragione della mancanza di macchia originale in Maria. Un Dio-uomo come frutto di amore,
principio e fine di tutta la realtà creata non poteva che includere Maria in
questa pienezza, l’unica persona umana nello stesso tempo redenta e immune da
colpa originale. Il Giliberti riesce a sintetizzare nella materia teatrale la
complessità del discorso teologico su Maria Regina del Cielo
Lo studioso di
Bari riempie di significato l’opera del Giliberti andando molto al di là dell’affrettato giudizio di Croce. E prosegue poiché individua nell’autore solofrano un vero
culto mariano non solo riscontrabile nelle sue opere letterarie ma anche nei
suoi scritti privati e nei suoi scritti giuridici che abbondano di formule di
devozione e lode mariana. Aggiungiamo noi che il drammaturgo viveva in un
ambiente fortemente intriso di devozione mariana. La
conca solofrana è infatti puntellata di chiese e tempi
dedicati alla Madre di Dio, a cominciare da quella Maria del 15 agosto di
origine bizantina, della Madonna Assunta in cielo che celebra un’altra
preminenza di Maria nella conservazione del suo corpo senza corruzione dopo la
morte.
Altre figure sono nell’opera gilibertiana
che lo studioso divide in tre gruppi: in azione,
patetici e comici. I primi sono angeli e demoni che sorreggono la macchina
narrativa intervenendo per creare la giusta dose di tensione drammatica sui
quali e sulle loro gerarchie il Giliberti si soffermerà nelle Ruote dell’Universo. I secondi sono
personaggi che chiedono grazie e protezione a Maria o agli angeli, ma fanno
anche accordi con i demoni, personaggi che vanno a coppia forse perchè tale è
la dialettica del loro operare, cui si aggiunge un unico personaggio che emerge
con la sua drammatica solitudine. Gli ultimi fanno parte di un registro che il
Giliberti affronta per la prima volta e che per dare loro maggiore naturalezza
si affida al dialetto napoletano utilizzato per la prima ed unica volta.
Interessante si rivela l’uso di questo registro che entra
nel filone della letteratura dialettale molto viva nella Napoli del Seicento.
Il Giliberti segue Lo cunto de li cunti del Basile perchè “più autorevole e utile per la
ricchezza dei contenuti e delle forme” più rispondente ai suoi bisogni. Egli vi
attinge “non solo gli elementi linguistici ma anche quelli narrativi”. Da
questo mondo il Giliberti prende tre figure Cuosemo, Rienzo e Menechello, che sono
tipiche della popolarità napoletana e che il Giliberti trasferisce tra le vie
di Roma. Tra questi Menechiello
è cieco, condizione che crea “un clima di naturale equivoco, di burla, di
facezia” proprio del Basile. Dal Basile il Giliberti utilizza anche “il modello
della comunicazione orale fatta di suoni, di immagini,
di recitazione e di gioco” con una lingua fatta di espressioni tipiche o
gergali provenienti dalle maggiori attività presenti nella cittadina”.
Di questi termini ci ha colpito nel passo riportato dallo
studioso barese l’espressione “hai cchiù de no
cantaro e ragione”, caratteristica espressione solofrana, dove il cantaro è una
vasca per la concia ed è anche una unità di misura
delle pelli che possono essere contenute in esse. Questo linguaggio è integrato
da motti, proverbi espressioni che seguono il modello del Basile.
Qui vale citare che pochi decenni dopo un altro
solofrano, Gabriele Fasano, usò il dialetto per la sua opera, la traduzione in
dialetto napoletano della Gerusalemme
Liberata del Tasso.
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