Approfondimenti: Onofrio
Giliberto
Un dilettoso edificio
La produzione letteraria di Onofrio
Giliberti
di
Carlo Coppola
S O M M
A R I O Capitolo
I: Onofrio Giliberto e la società del suo Tempo. Tracce di una doverosa
biografia (1618-1665). Il contesto
storico-geografico. Le lettere di dedica. Capitolo II: Onofrio Giliberto nel panorama intellettuale
del suo tempo: il teatro. Introduzione. Vita e morte di San
Rocco. Il Vinto inferno da Maria. Capitolo III: Altre forme di scrittura e la giunta al
romanzo: temi e problemi. Le ruote
dell’Universo in cui compendiosamente si descrivono
le cose celesti e sublunari. Il Cavalier de Capitolo
IV: Alla ricerca del Convitato di Pietra". Materiali
gilibertiani, appendice al capitolo I. Copia dall’originale e trascrizione del testamento del dottor
Onofrio Giliberto da Solofra. Le Lettere di dedica. Materiali
gilibertiani: appendice al capitolo II. Atto I di Vita e morte di San Rocco. Atto I de Il Vinto inferno da Maria. Materiali gilibertiani appendice al capitolo
III. Le prime 41 pagine de Il cavalier de la rosa […]. Materiali
gilibertiani: appendice al capitolo IV. Intorno a Giacinto Andrea Cicognini
e al Convitato di Pietra (Barcellona 1936) di Benedetto Croce. Don
Juan: Mito e Historia
di M. R. Barnatan (originale). ‘Don Giovanni’ de Mozart. Mito e interpretation
del ‘donjuanismo’ masculino di Lucia D’Angelo (originale). Bibliografia. Scelta ragionata dei siti internet consultati. |
Le lettere di dedica
Poco o nulla sappiamo
circa l’opinione e relativa collocazione politica di
Onofrio Giliberto all’interno della società solofrana del suo tempo, ma
possiamo a buon diritto ritenere che egli sia stato vicino se non fautore della
fazione filofeudale, la stessa che aveva contribuito
al ritorno dell’aristocrazia ed alla riduzione delle libertà dell’Universitas di Solofra. Questo si potrebbe desumere
da probabili interessi che egli avrebbe potuto avere
nella gestione del suo ingente patrimonio ed anche perché dovette essere tra i
consiglieri legali della famiglia Orsini a Solofra, se è giusta la mia
interpretazione di alcune carte conservate presso l’Archivio di Stato di Avellino
e da me consultate. Si tratta di sentenze da lui rese e di una
annotazione fatta da un notaio operante a Solofra nel Settecento.
Infatti, chiamato a dirimere alcune contese tributarie tra feudatario e
cittadini appartenenti a famiglie o corporazioni che in passato avevano goduto di sgravi fiscali per le loro attività, il Giliberto
diede sempre ragione al primo, costringendo ad ammende e pagamenti di ingenti
interessi il contendente sconfitto.
Vi è poi una pagina,
di cui si dirà l’importanza in seguito, scritta dal notaio Vito Antonio Grassi,
che in un volume manoscritto, le cui carte sono conservate presso detto
Archivio di Stato, dice a proposito del nostro autore che egli fu "di
massimo senno nel consigliare in materia di legge".
(Vito Antonio Grassi, Genealogie
e Ragguagli Istorici del antico e moderno Stato di
Solofra e Sua universitas, 1722, manoscritto B
6767-6798, presso l’Archivio di Stato di Avellino).
Onofrio Giliberto
inoltre – e questo è il dato più importante per la
nostra indagine – dedicò ai Principi di Solofra, o ai loro
"congiunti", tutte le sue opere, con un’unica eccezione nel 1644,
quando Il Vinto Inferno da Maria fu dedicato al pittore Francesco
Guarini, e solo successivamente a Ferdinando Orsini.
L’importanza delle
lettere di dedica è fondamentale per tentare di ottenere un quadro generale,
oltre che per circoscrivere le motivazioni, non solo occasionali, nell’ambito
delle quali nascono e fioriscono le opere letterarie. Queste di
Onofrio Giliberto, in particolare, mancando un sicuro supporto storico cronachistico, richiedono una minuziosa attenzione verso
ogni parola che possa servire per comprendere un’intenzione, un messaggio, una
necessità in più dell’autore.
Quelle in nostro
possesso sono sette, e tutte, come si è già detto in
precedenza, firmate ‘da Solofra’. In realtà di
queste una, ovvero, la dedica de Il Vinto Inferno
da Maria, indirizzata solo in un secondo tempo a Ferdinando Orisini, potrebbe essere annoverata tra i piccoli
componimenti encomiastico-elogiativi non solo per la
posizione anomala – è posta alla fine dell’opera – ma anche perché risulta
priva di data e firma. Per questo sarebbe da escludere dal numero delle lettere
che resterebbero sei. Ma andiamo con ordine.
Nel 1642 Onofrio
dedicava a don Fabrizio di Capua, Principe della
Riccia e Gran Conte di Altavilla, la sua prima opera a
noi pervenuta, Vita e morte di San Rocco.
(Questa lettera non è
riportata come le altre lettere di dedica integralmente nella sezione dei Materiali
gilibertani in appendice al lavoro).
Di questa dedica pare
certa la motivazione dovuta alla impossibilità di
dedicare l’opera al legittimo principe di Solofra Ferdinando II Orsini, che
doveva essere ancora giovane e contare politicamente meno del di Capua all’epoca della stesura del testo.
Quest’ultimo era imparentato con gli Orsini, in quanto fratello di Aurelia di Capua, moglie di
Flaminio II e nonna di Ferdinando II, ma soprattutto – lo si evince dalla
lettera – era "congiunto di sangue" di donna Beatrice Orsini. Non sappiamo
esattamente quale sia il grado di parentela, anche
perché non è stato possibile ancora individuare storicamente il personaggio di
Beatrice.
Probabilmente si
potrebbe restringere l’identificazione o ad una figlia di Flaminio II ed
Aurelia di Capua, o ad una figlia di Dorotea Orsini e
del cugino Pietro II Orsini. Propendo personalmente per la prima ipotesi perché
in quel caso Beatrice sarebbe figlia della sorella di Fabrizio di Capua, e quindi sarebbe più
plausibile la parentela ‘di sangue’.
L’autore, inoltre,
dichiarava in una sorta di captatio benevolentiae la propria presunta inabilità al lavoro.
Questa veniva esplicitata in una dichiarazione di
estraneità verso la materia drammatica da parte del Giliberto che si diceva
impegnato invece in "occupationi legali".
Secondo una
tradizione letteraria assai consolidata, almeno a partire
dalla grande stagione dell’Umanesimo alla corte napoletana degli
Aragona, continuava vantando per prima cosa le grandi doti di una donna della
famiglia, qui Beatrice appunto:
Vergine
sì religiosa e di spettabil vita, che come vero
specchio d’honestà vive da
tutti ammirata: di quella Beatrice io favello, che abbandonate le pompe, e’ i
fasti del mondo in angusta cella racchiuder si volle per goder poscia, con più
sicurezza, gli spatiosi campi dell’Empireo.
Attraverso
l’intercessione ed il suggerimento di costei, l’opera aveva
potuto essere portata a termine nonostante le tante esitazioni ed era
nata, poi, l’idea di dedicare al di Capua lo scritto.
Per questo, e sempre in linea con la tradizione umanistica, venivano
menzionate e celebrate con giusta semplicità le glorie della famiglia di Capua e gli antenati:
la onde
essaminando ancor io i sacrificij
offerti da V. E. all’Immortalità delle sue sinnumerabili
Virtù, e ‘l famoso grido e la gloriosa fama de’ suoi
Antenati, e’ quali sovente, per la fedeltà, ch’a lor
Regi portarono, quasi amorose farfalle, a volontaria morte si esposero.
Gli esponenti della
famiglia di Capua, infatti, erano stati tra i pochi a
rimanere sempre fedeli agli Spagnoli sia durante
30 Agosto 1643 è la data della seconda lettera in nostro possesso, quella di Le stravaganze d’Amore e d’Amicizia. Essa è
indirizzata a don Ferdinando Orsini Conte di Muro, Duca di Gravina e Principe
di Solofra. Il tono è qui rivolto in modo evidente verso il puro encomio, senza
arditi paragoni con pianeti e stelle, ed il sole a cui di solito Onofrio
paragona gli eredi maschi della famiglia Orsini è per giunta
menzionato solo una volta. In effetti si tratta
essenzialmente di un elogio delle virtù personali di Ferdinando:
in lei
risplende la sovra humana nobiltà de’
suoi natali, si scorge la schiettezza nel trattare, s’ammira la bontà de’ costumi, riluce la chiarezza de’
gesti, fiammeggia la purità dell’anima, e in lei lampeggia la corporal bellezza, così fra i mortali luminosa, e vaga,
come lucido è il Sole tra le Stelle.
È da sottolineare in queste parole il dato della nobiltà dei
natali che si riferisce senza dubbio al fatto che Ferdinando fosse il figlio di
due Orsini, Dorotea e Pietro, e che dunque fosse l’unico erede maschio di due
differenti rami dello stesso casato. L’importanza di questo matrimonio dovette
essere fondamentale per l’assetto politico della zona del Sarno
ed anche per
Questa frase, al di là della occasionalità
letteraria, sembrerebbe assai banale, ma qualche riga dopo Onofrio riprende:
son sicuro, che conosciutasi la mia servitù con V. E.
l’invidiosa maledicenza non havrà
ardire di lacerare questo rozzo parto della gioventù; e acciocché conoscano i
mordaci Aristarchi (e a lor
dispetto imparino a tacere) chi sia, che questa mal composta operetta prottegge, vò, in brevissimo giro
di parole, manifestare al Mondo il meraviglioso tesoro delle virtù e grandezze
di V. E. sgombro però d’ogn’aura di adulatione.
Il passo si potrebbe
intendere in due modi che "l’invidiosa maldicenza" sia il solito
atteggiamento di coloro che criticano, come si è visto
anche nel caso di Vita e Morte di San Rocco, oppure si potrebbe trattare
della smentita ad una testimonianza secondo la quale i rapporti fra il
Giliberto e don Ferdinando non erano buoni, e questo confermerebbe il tono
della frase iniziale assai preciso e perentorio nell’affermare un atto di
devozione.
Terza lettera
dedicatoria è quella de Il Vinto inferno da Maria che fu indirizzata al pittore Francesco Guarini, di cui Onofrio
Giliberto doveva avere molta stima tanto da elogiarlo non solo come
"famoso pittore" ma anche da innalzarlo a suo "padrone
colendissimo". Nato nel 1611, Guarini, di poco più grande del Giliberto, si era distinto a Napoli alla scuola di
Massimo Stanzione, ed aveva goduto subito un grande
successo per l’efficacia emotiva espressa dai personaggi da lui raffigurati e
per la vitalità dei forti accenti coloristici da lui adoperati in modo unico (Per altre notizie sul Francesco
Guarini si confronti M. Grieco, Francesco Guarini
nella pittura napoletana del 600, Pergola 1963, tra i primi studi critici
sul personaggio). La dedica che il nostro
autore compone per lui, però, riveste anche un enorme valore soprattutto per la
biografia del pittore, poiché rientra nella polemica sul suo cognome. Il
Guarini, infatti, apparteneva ad una famiglia di artisti
solofrani, formatisi in botteghe napoletane minori e ritenuti scarsi imitatori
di questo o quel maestro; il cognome della famiglia era Guarino e non Guarini.
Francesco volle cambiare il proprio cognome perché non gradiva essere confuso
con i suoi – non degni del livello da lui raggiunto –
e questa lettera costituisce il primo scritto indirizzato a lui col nuovo
cognome. Inoltre, il pittore in una seconda lettera in cui si dichiarava
indegno della dedica di un così illustre esponente della cultura quale il Giliberto e offriva l’opera a lui affidata a Ferdinando
Orsini, si firmò per la prima volta Francesco Guarini.
La dedica al Guarini
costituisce, poi, un momento di polemica nella quale Onofrio Giliberto
prontamente ribadiva l’appartenenza alla terra di
Solofra dell’amico pittore, che veniva messa in discussione dall’appellativo di
‘napoletano’ spesso da lui adoperato al posto della determinazione da
Solofra.
Occorre, sottolineare che il Giliberto concepisce per questa lettera
uno stile assai particolare in cui risaltano il tono e la costruzione tipica
dell’arringa tribunalizia dalla quale si ricava la
genialità del pittore Guarini che viene paragonato al pittore di Zeusi morto per un eccesso di risa davanti alla sua stessa
raffigurazione della "sconcia vecchia", simbolo dell’estremo realismo
raggiunto dalla pittura ellenistica.
Risulta anche interessante notare come Giliberto concepisca la
variazione del topos della captatio
benevolentiae in maniera assai particolare
facendola scaturire dal rapporto tra la "rozza penna", quella sua, e
il "pennello emulator di Prometeo", a cui
fa eco la risposta del pittore in cui pennello diventa rozzo e la "penna
famosa".
Restano, infine, le
lettere delle due opere non drammatiche, ossia Le Ruote dell’universo e Il
cavalier de la rosa, in
cui il tono della esposizione si fa meno solare e meno ricco delle reminiscenze
della tradizione dell’encomio e del panegirico di stampo umanistico.
La prima è rivolta
allo stesso don Ferdinando Orsini e porta la data del 5 Marzo 1646. La
richiesta di protezione e la dedica vera e propria sono poste alla fine, dopo
una lunga tirata concepita in tono assai oscuro, con un periodare complesso che
rende a tratti poco comprensibile, come non era mai
capitato, il senso primo delle parole dell’autore. Pare, in sostanza, che egli
si riferisca agli influssi delle stelle sul genere umano, sottolineando
che a questi neppure gli uomini dediti all’adempimento delle virtù possono
sfuggire: anch’egli, dunque, che si accorge di non poter venire meno a queste,
cerca la protezione di chi, come don Ferdinando Orsini, è sfuggito all’
"oppressione di tempo" ed alla "persecutione
di Fortuna". Per questo rivolge un discorso contro gli astri, che decidono
il destino degli uomini. Le stelle, però, non sono l’unico elemento contro cui Onofrio rivolge la sua arringa, infatti, precisa:
"Il cielo, se ben si scopre mentitore nell’opre di Natura, e co’ suoi lucidi occhi, dimostra, che della sonnacchiosa
mortalità è custode". Ed anche per questo motivo si pone sotto la
protezione di don Ferdinando, tanto che ribadisce:
"Sono io dunque sicuro, che mi verrà concesso di schernire l’onte della
Fortuna, se verrò protetto da un’heroe così
grande".
La lettera si chiude,
poi, con una "profondissima riverenza" allo stesso signore.
Per quanto concerne Il
cavalier de
Io
gli invio, e sia per picciola
arra del riverente affetto, e della devota servitù, con possesso, e sicurezza,
che vantando solo eccessi di nobiltà, del grande animo del donatore, non della picciolezza del dono resterà appagata, e per fine humilissimamente, la riverisco.
Questa dedica si deve
considerare come un autentico moto dell’animo di Onofrio,
che dovette essere tra i precettori del giovane principe, rimasto orfano di padre
a soli otto anni.
Essa rappresenta
anche una sintesi di poche righe del contenuto dell’opera, l’avventura del Cavaliere
della Rosa di cui secondo un topos
letterario si invita il giovane signore a piangere le
sventure ricordando che "è attributo inseparabile delli
Prencipi suoi pari il commiserare le sciagure di chi
geme depresso sotto ruota di tempestosa Fortuna".
In realtà la lettera
chiarisce le motivazioni con cui l’opera stessa è concepita, come un
particolare tipo di romanzo di formazione il cui contenuto risulta
perciò funzionale alla dedica fatta al giovane principe.
Capitolo III
Altre forme di scrittura e la giunta al romanzo: temi e problemi
Le Ruote dell’Universo, in
cui compendiosamente si descrivono le cose celesti e
sublunari.
Le ultime opere che
prendiamo in esame sono Le Ruote dell’Universo, in cui compendiosamente si descrivono le cose celesti e sublunari del
1646, e Il Cavalier de
Lo sviluppo dello
stile narrativo contribuisce a determinare un netto divario con lo stile
precedente dell’autore, che si fa più asciutto e meno problematico
nella affannosa ricerca retorica della parola estrosa, con un apporto
maggiormente critico nell’uso delle fonti, che inevitabilmente segnano la
materia trattata.
Della prima opera –
che per comodità indicheremo solo come Le ruote
dell’universo – si erano perse le tracce dopo che Benedetto Croce nel
citato articolo su Onofrio Giliberto e del suo Convitato di Pietra (B. Croce, art. cit., Bari 1936) ne
aveva dato notizia. Egli, però, non indicava né se l’opera fosse in suo
possesso, né in quale biblioteca si trovasse. Essa fu
casualmente da me individuata nella "Biblioteca Nazionale Sagarriga-Visconti Volpi" di Bari con collocazione 112-B-2.
Questa copia
proviene, probabilmente da uno dei fondi più antichi della biblioteca, forse
dal "Fondo Cotugno", in cui sono contenute
anche altre numerose pubblicazioni di carattere scientifico. Quasi tutti i testi
acquisiti dal fondo recano un timbro di appartenenza,
ma il testo del Giliberto ne è privo; non è da escludere però, che come altri,
esso sia entrato nella biblioteca in momenti differenti, rispetto all’intero corpus
del fondo. Tutto questo non è stato possibile accertarlo, poiché non ci è stato permesso consultare l’inventario originario e
completo del fondo in questione, o altri documenti d’archivio che spieghino da
dove tale opera provenisse prima di entrare nella Biblioteca Nazionale di Bari.
Sempre per lo stesso
motivo non è stato possibile recuperare una qualsiasi, seppure parziale, storia
della tradizione del Le Ruote dell’universo, che avrebbe un grande valore non solo dal punto di vista della critica
testuale, ma soprattutto, in questo caso specifico, per comprendere chi fosse
davvero il pubblico a cui era destinata questa singolare produzione, che, come
altre del Giliberto, risulta assai difficile da collocare in un preciso filone
di studio.
Quello da me
consultato è comunque, quasi certamente lo stesso
esemplare letto da Benedetto Croce, il quale sosteneva che la copia da lui
visionata fosse unica superstite, ed a proposito di questa parla di uno dei
libri più noiosi che siano mai stati scritti, ribadendo in più parti il suo
grave giudizio di discredito.
È chiaro che ci
troviamo di fronte ad un’opera scientifica, almeno nelle intenzioni
dell’autore, e che certamente mostra l’abitudine a far risalire tutti i
fenomeni di carattere fisico ad eventi od interventi
sovrannaturali. Per questo la lettura del testo può risultare
tediosa se affrontata in chiave scientifica.
L’importanza di
questa composizione è soprattutto strumentale. Essa può servire in primo luogo
per ricostruire il tipo di fonti che caratterizzano l’intera produzione gilibertiana, con l’effettiva presenza e ricezione dei
classici latini quali Cicerone, Seneca, Plinio,
probabilmente Quintiliano, e di Dante di cui viene
presa in esame non solo
Con quest’opera del Giliberto viene,
inoltre, chiarito il tipo di letture e di formazione dell’autore che dovettero
essere di stampo teologico in un contesto storico-geografico in cui tale
impianto serviva da filtro per qualsiasi tipo di letture, da quelle più
strettamente etico-morali a quelle politiche e
sociali, a quelle di svago.
Impressa in Napoli
per i tipi di Novello de Bonis, l’opera si articola
in diverse sezioni nelle quali si affrontano geograficamente le varie parti
dell’Universo aristotelicamente inteso.
Vengono chiariti problemi di geografia infernale lasciati insoluti
da Dante nella Commedia, e calcolate distanze con senno di
scientificità, come ad esempio la distanza della sede infernale dalla
superficie terrestre. Questo dato, come altri dello stesso genere, può farci oggi
sorridere ma certamente doveva essere di grande
interesse per quanti non potevano accettare su base morale le teorie
scientifiche di Niccolò Copernico e di Galileo Galilei. La maniera di affrontare tali problemi di
geografia è certamente nuova rispetto al modello dantesco ma anche messa a
confronto con le posizioni assunte da altri scienziati che avevano
illustrato e commentato l’ordine celeste in tempi più vicini al
Giliberto.
L’uomo con le sue
conoscenze, evitando la fenomenologia empirica intesa come verifica diretta dei
fenomeni, calcola con i propri parametri le
proporzioni in cui tale realtà ultramondana è collocata e le distanze che la
separano dall’ecumene. Certo è che la riduzione di tali argomentazioni a
parametri umani serve in primo luogo ad adeguare tale
realtà a forme che l’intelletto umano può, se non dominare, almeno comprendere.
Questo sforzo di riduzione attuato al fine di rendere possibile la comprensione
è presente come nota peculiare in tutta l’opera. Il singula
enumerare (Ho
preso qui a prestito i due termini latini dall'interessante e presziosa opera che Gincarlo Roscioni dedicò al suo amico Carlo Emilio Gadda un lungo saggio tra gli altri La disarmonia
prestabilita, Torino 1969) delle
varie parti dell’universo prevede l’omnia circumspicere
e quest’ultimo serve, oltre che a spingere verso la
conoscenza di qualcosa che sarebbe di per se stesso, e
in sé, inconoscibile, anche ad esorcizzare la paura
ancestrale di realtà ultraterrene negative che in un’epoca di caccia alle
streghe dovevano essere sentite come particolarmente presenti ed oppressive. Il
progetto non vuole contraddire, alla fine, la volontà iniziale di rendere le realtà ultraterrena in tutte le sue infinite
combinazioni, perché solo ‘l’irreale è incombinabile’.
Gli andamenti descrittivi si confondono continuamente acuendo la percezione di
una visione tra aulico e grottesco, tra una potenzialità tecnico-scientifica ed
una puramente linguistica nel rapporto tra narratore e congetturante, con la
visione sdoppiata dello stesso narratore orante mentre si accosta ai misteri
del Paradiso. Tutto è supportato dallo sviluppo di uno spazio meccanico
interno, che si apre in cerchi concentrici, con implicazioni intrinseche di
significato, e attraverso situazioni in cui la parola, risultato
di calcoli pseudo scientifici, risulta essere il
centro dinamico e provvisorio di molteplici relazioni. Esse si ottengono in
modo da arrivare a creare logicamente una sintassi che serva
a verificare esternamente ciascuno dei sintagmi narrativi. Quello che compone
l’universo per Onofrio è dunque la coincidenza
d’innumerevoli fattori riconosciuti, ma – e questo mi pare
straordinario – che possono essere tutti rappresentati. L’impossibilità di
una descrizione davvero puntuale è comunque
riconosciuta, perché la totalità vuole essere specificata ma non può esserlo
completamente. Di essa si possono identificare e
riconoscere le ‘cause postulatrici’, infatti, l’omnia
circumspicere è un allargamento che non nasce
dall’esigenza di dire tutto, ma di arrivare a quanto è più possibile riprodurre
mediante l’immaginazione. In ogni caso la teoretica gilibertiana
non riesce ad essere sempre fedele a se stessa. Il naturalismo di Onofrio non è qui fine a se stesso, come può capitare in
altre opere, ma è circoscritto da ‘peculiari infiniti’,
che rischiano di spegnere l’interesse per l’opera in una enumerazione quasi
fangosa in forma di catalogo – è di qui nasce il giudizio di
Benedetto Croce.
Il prezzo da pagare è
l’analisi dei dettagli che si rivela, proprio come la ricerca delle cause,
"una tela di ragno che rischia d’imprigionare non la mosca, per cui è stata filata, ma il suo scrupoloso e
improvvido costruttore, il quale di quando in quando insorgerà in veementi
ribellioni contro la rete che da ogni parte lo serra, ma continuerà al tempo
stesso a renderne le maglie sempre più fitte e impenetrabili: inseguendo la
ricerca delle più remote e inafferrabili motivazioni, e proclamando attendibile
solo la mappa che registri la totalità dei rilievi e degli accidenti." (Ho qui riportato C. Benedetti, La
soggettività del racconto, Napoli 1984)
Si è detto che il principale modello seguito dal Giliberto nel
caso di quest’opera è
Non bisogna mancare,
tuttavia, di osservare come accanto all’impianto scientifico, ed a quello
morale e didascalico – che nulla ha di allegorico – vi
è anche un forte richiamo alla previsione dei fenomeni naturali. In questo caso
non vi è nulla di eccepibile rispetto alla ortodossia
cattolica, in quanto la previsione è ottenuta attraverso lo studio della natura
iuxta propria principia (Prendo qui solo a prestito parte del
titolo dell’opera di Bernardino Telesio). Infatti, Onofrio sottolinea più volte – e credo senza secondi fini – come
Il Cavalier de
Aspetto di notevole
interesse della produzione gilibertiana appare,
infine, il romanzo Il Cavalier
de
Allo stato delle
nostre conoscenze non possiamo effettivamente dire come mai l’opera del Giliberto sia stata ristampata a Venezia, ma possiamo
fare due ipotesi. Innanzitutto Venezia rappresentava,
forse seconda per importanza solo a Genova, uno dei centri italiani di maggiore
sviluppo, stampa e diffusione del genere del romanzo e soprattutto di quello
che non sviluppava temi picareschi provenienti dalla Spagna. Per questo stesso
motivo era poco probabile che anche una seconda edizione riveduta e accresciuta
potesse essere stampata a Napoli, centro che non ebbe mai tra le sue
peculiarità letterarie il romanzo e che nel breve
periodo in cui fu interessata dallo sviluppo di questo genere ne sfruttò
soprattutto le caratteristiche più vicine al gusto spagnolo, come hanno
dimostrato gli studi critici e bibliografici condotti da Albert
Mancini (Mancini A.
N., "Il romanzo del Seicento. Saggio di bibliografia (prima parte)",
in Studi secenteschi, XI, 1970. id,
"Il romanzo del Seicento. Saggio di bibliografia (seconda parte)", in
Studi secenteschi, XII, 1971. id.,
Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli 1981).
La seconda ipotesi ci
arriva da un fortunoso riscontro. Alla fine del romanzo è posto l’elenco dei Libri
Volgari, Romanzi, e Belle Lettere, che si trovano, appresso il Turrini.
In esso
si trovano citate Le gare de’ disperati col Rosmindo ed altre numerose di Ambrogio Marini quali il Calloandro fedele ed il Calloandro
Smascherato. Niente di più facile che lo stesso
editore abbia voluto stampare anche le variazioni che il Giliberto aveva
compiuto partendo dallo stesso testo. Questo dato ci viene
confermato da una interessante nota esplicativa dello stesso Mancini, che
considera il lavoro del Giliberto come un accrescimento delle Gare del
Marini, e queste ultime quali derivazione di un precedente filone argomentativo di romanzi picareschi spagnoli (id., Romanzi e romanzieri del Seicento,
Napoli 1981).
Ma torniamo al Cavalier de la rosa.
Le due edizioni presentano alcune differenze di carattere stilistico oltre che
naturalmente dal punto di vista grafico, ma per opportunità non mi soffermerò
qui su questo aspetto, limitandomi a dire che esse
sono presenti soprattutto in alcune righe dell’incipit, e furono
probabilmente attuate dallo stesso autore nel tentativo di rendere meno
‘napoletana-solofrana’, e più raffinata la lingua della composizione che di per
sé, in realtà, non presentava particolare eccessi dialettali o gergali.
Dal punto di vista
storico-critico, si tratta di un’opera che tende ad accostare il genere della trattatistica politica a quello, più ameno, e largamente di
moda in quegli anni, del romanzo. L’opera potrebbe essere tra i primi tentativi
di romanzo di formazione.
Non possiamo ben dire
a chi sia rivolta l’opera di formazione, se al giovane
principe Orsini al quale è dedicata la composizione (Vedi Capitolo I " le lettere
di dedica"), oppure, se il romanzo abbia una valenza politica e sociale e
per questo sia indirizzato – andando oltre la lettera di dedica – alle classi
solofrane economicamente emergenti. In quest’ultimo
caso a doversi ‘edificare’ sarebbe il borghese, ad esempio il ricco
commerciante di pelli, colui che tenta la scalata
della società. Come Il Cavaliere de la rosa
diventa nobile per meriti acquisiti nei confronti del re Ricando,
così il commerciante solofrano, ormai borghese, ha approfittato del momento di
vacanza del potere causato dalla debolezza dinastica degli Orsini, ed è
diventato sempre più forte e incontrastato all’interno delle istituzioni della
città. Il riferimento alla cavalleria sarebbe in realtà una sorta di metafora
per indicare il tentativo di autolegittimazione
da parte delle classi emergenti. Così anche l’estraneità territoriale del
cavaliere al suo nuovo regno, rappresenterebbe una forma di differenziazione
socio-politica dello stesso rispetto al contesto
politico precedente. In questo caso Onofrio avrebbe sfruttato l’opportunità di
educare il rozzo mercante, la cui ascesa l’autore comprendeva essere
inevitabile, benché a malincuore rispetto alla propria posizione politica.
Nel caso in cui
l’opera fosse stata rivolta al giovane don Pietro Francesco Orsini principe di
Solofra e Galluccio, duca di Gravina, conte di Muro,
l’autore avrebbe ricercato – ed è forse questa
l’ipotesi più plausibile – la strada di educare sin da piccolo il futuro
feudatario. Per sua sfortuna però Pietro Francesco, si fece domenicano e fu poi
eletto papa col nome di Benedetto XIII, e beffa della sorte, suo fratello
Domenico divenuto feudatario di Solofra resse il feudo commettendo ogni tipo di
sopruso e prepotenza. (Si veda il Capitolo I "Il
contesto storico e geografico").
In ogni caso il Giliberto costruisce la narrazione seguendo i canoni del
romanzo dell’epoca e la diffusione mirata che questo aveva.
Ambienta il suo
racconto al termine di una non chiara visione onirica dove è addirittura in
discussione il rapporto fra accadimenti reali e sogno, da cui sembra dipanarsi
il racconto vero e proprio secondo un preciso gusto o stilema dell’autore che
si può riscontrare anche nelle prime pagine di Vita e Morte di san Rocco
ed anche in ossequio al modello che stava seguendo: Le gare de’ disperati
poste in appendice a Il Calloandro fedele di
Ambrogio Marini.
Al
di là di queste notizie è
interessante notare come l’utilizzo della forma del romanzo consenta al
Giliberto di evitare una serie di problematiche quali la discussione intorno
alla religione cristiana ed il ricorso ad una superficiale e statalistica idea del divino, come dovere ed abitudine, che
rientra anche nelle prerogative del sovrano e delle classi dirigenti. La
posizione fantastica e atemporale consente
inoltre un ricorso a esempi di carattere filosofico e morale circa la maniera o
le maniere di reggere lo stato senza dovere incorrere in discussioni circa una
presa di posizione sulle reali e concrete necessità economiche e sociali.
Egli insomma può
permettersi con l’impiego di questo genere letterario, di affrontare in maniera
quasi divulgativa una serie di occorrenze etiche sulla
ragion di stato, lascito della più ampia stagione umanistica napoletana ed
italiana in genere, senza il timore di essere chiamato a rendere conto in una
sede culturale della scarsa originalità con cui affrontava il tema della istitutio principis con
le sue varianti.
In contrapposizione
al discorso del Giliberto, l’opera del Marini
riassumeva "pateticamente, come in una sorta di testamento letterario
dell’autore, i caratteri della sua opera" (E. Raimondi,
Trattatisti e narratori del seicento, Napoli 1660), che come sottolinea
Ezio Raimondi, si reggeva e finiva per consumarsi sui
propri limiti in modo da "vivere qualche ora al giorno" e "tra
castelli in aria". Onofrio conferisce, invece, al Cavalier de la rosa overo
aggiunta a le gare de’ disperati un più ampio
respiro fin dall’inizio. È certo che il modello offerto dal
Marini doveva essere assai presente, ma al personaggio sempre in ombra
del Cavalier della Morte disegnato dal suo
predecessore, Onofrio Giliberto contrappone il Cavalier
della Rosa che è visto, e vede il mondo da più parti: una storica e politica,
ed una personale e affettiva. Muove, infatti, da una contrastante tensione
morale tra le necessità della vita pubblica e quelle della sfera privata,
perché nasce da qualcosa di indicibilmente concreto, come gli ufficii nei confronti dello stato, e quelli che
l’amore per quanto libertario impone alla vita di coppia.
Il metodo di
scrittura apparentemente pesante, con brani narrativi intervallati da lunghe
riflessioni sull’etica del buon governo, risente della lezione di propedeuticità offertagli dal periodo vissuto a Napoli
negli anni della formazione, che dovettero essere gli
stessi dei moti masanelliani e della repressione
sfociata in pubblici supplizi.
Il giovane Onofrio,
che proprio negli anni della rivolta completava i sui
studi universitari di diritto, dovette confrontare quanto appreso nelle aule
universitarie con una realtà di repressione, seguita al malessere costante, che
in tutta la sua durezza si rifletteva a pieno nel sangue, nel putrido,
nell’annientamento, nelle pubbliche torture alle quali venivano condannati i
rivoltosi. Un panorama questo destinato a cambiare per sempre l’immaginario
collettivo di una intera generazione di intellettuali.
Non bisogna, però,
credere che quello di Onofrio sia un punto di vista di
simpatia verso quei casi della storia napoletana in cui la lotta antispagnola
si era fatta più forte, in una sorta di sotteso irredentismo napoletano
giustificato dal cattivo comportamento di coloro che reggevano le sorti dello
stato, ma si tratterebbe solo di una reazione emozionale particolarmente
interiorizzata soprattutto perché risalente agli anni giovanili. Il Giliberto, infatti, converte questa emozione in un invito
alla pietas e alla moderatio,
indirizzato al lettore dell’opera.
Il
buon governate deve, dunque, in
primo luogo non estremizzare i conflitti, non mettere i sudditi nella necessità
di ribellarsi, e per farlo non si deve comportare come hanno fatto molti in
passato rubando e defraudando i sudditi, sia che si tratti del popolo, sia che
si tratti dell’oligarchia. Per attuare questo progetto il sovrano non deve recepire ed incentivare la delazione.
La narrazione delle
storie che compongono la complicatissima trama del romanzo
si sviluppa in vario modo. Spesso attraverso uno strano ‘passaparola’ e
dialoghi fra i personaggi, altre volte è invece proprio il re saggio e giusto
che espone al Cavaliere de
Numerose sono le
digressioni di carattere squisitamente morale sulla figura del principe e sui
suoi usi e costumi. Interessante è anche il passo in cui il re racconta al Cavalier della Rosa di quei
principi che vogliono spogliare i vassalli dei loro averi, e sottrarne le
ricchezze col pretesto che a loro si deve ‘ubbidienza’. Sembra qui chiaro il
riferimento alla congiura dei baroni del regno contro re Ferrante che aveva fatto in modo da sottrarre le ingenti ricchezze,
derivanti dalla grande flotta mercantile, al conte di Sarno
Franceso Coppola. Le opere drammatiche del Giliberto fino al romanzo in prosa sembrano quasi un
pretesto per ricercare nuove forme e soluzioni, non passive ma attive che
servissero ad evitare il ripetersi di ciò che era accaduto nel recente quanto
stigmatizzato passato.
Egli mostrò in tutte
le sue opere a noi pervenute il bisogno di sostenere o
confutare principi giuridici e loro applicazioni, la maggior parte dei quali
riguardavano la gestione dello stato ed i comportamenti del Prencipe
dibattuto fra res publica e res privata.
Fonti del dibattito sembrano essere le stratificazioni di quasi due secoli di
machiavellismo, e molto più concretamente le si possono
ricercare nelle classiche esercitazioni di dialettica e retorica condotte nelle
aule universitarie.
A questo punto ci si
potrebbe domandare perché venga impiegato il romanzo e
non la ‘trattatistica’ dialogica sul modello ciceroniano filtrata attraverso i grandi esempi
dell’Umanesimo. A questa domanda si potrebbe rispondere che semplicemente non andava di moda, il che sarebbe corretto in parte, ma
sicuramente nel caso di Onofrio assai banale. C’erano anche da tenere presenti
le temperie culturali napoletane di quegli anni in cui forme rivisitate del
Tasso e del Marino offrivano ottimi spunti ma anche modelli dai quali era quasi impossibile prescindere. La forma del romanzo,
come in precedenza quella rivisitata del dramma, doveva servire a scorporare ed
alleggerire la gravità dei temi espressi rendendo visibili e fortemente
riconoscibili i grandi ambiti della tradizione presi in esame e considerati più
come singoli exempla non più sufficienti ad
affrontare indenni il passaggio generazionale. Questo serviva indubbiamente a
dire in forme nuove ed accettabili dal gusto seicentesco i temi lungamente
elaborati dalla tradizione classica ed umanistica. Questo processo avveniva chiaramente ma non poteva essere altrimenti indifferente
alla coercizione dei giochi della corte napoletana.
Per spiegarci tutto
questo occorre considerare ancora una volta l’importanza delle conoscenze
culturali di Onofrio Giliberto e la sua reale
intenzione pedagogica che come mai in precedenza si riflette nel testo. Per
questo occorre fare una nuova digressione.
Nel 1581 Claudio Acquaviva (Claudio Aquaviva fu il quarto Generale
della compagnia di Gesù) fu eletto preposto generale della Compagnia di Gesù. In quello stesso tempo Martino Fornari
(M. Fornari, Institutio confessariorum, ea continens, quae ad praxim audiendi
confessiones pertinent,
Roma 1606) gesuita, docente a Padova, divenne
teologo del patriarca di Aquileia.
Il primo si preoccupò
di approntare per la stampa il manuale sulla reggenza
dell’ordine composto dal confratello e nella funzione di preposto generale, concesse
facoltà di stampare l’opera del Fornari garantendola
come rispondente alla linea teologico-morale della
Compagnia e strumento proprio dei confessori, ben conosciuto perché usato
durante gli esercizi spirituali, quando il testo era ancora manoscritto.
Altri manuali per i
confessori erano stati scritti, altri se ne scrissero
dopo l’Institutio del Fornari. Nessuno di quelli fu però imposto con tanta
accorta programmazione.
Fu stampato in
dodicesimo, in sedicesimo, ed in formati approntati su misura, quindi come
libricino tascabile. Si pensò di evidenziare gli argomenti a margine delle
pagine, di pubblicare un doppio indice: quello dettagliato dei libri, trattati
e dei capitoli, e l’altro, Index rerum memorabilium, costituito
da circa duecento voci.
L’opera doveva essere
la guida per tutti i confessori della Compagnia, ma anche per quelli degli
altri ordini, per i secolari e, in più, doveva essere utile ai penitenti, come
si ricava dal frontespizio e dall'introduzione
dell'autore. Fu scritta in latino perché fosse universalmente intesa. Edita nel
L’opera scritta dal Fornari e diffusa dall’Acquaviva,
quasi a completamento dell’impegno imposto all’ordine dal Fondatore vide ulteriori ristampe.
Oggi si è tentati di riproporla per meglio verificare quanto essa abbia influito
sulla formazione delle coscienze dei cattolici di tutta Europa, ma durante gli
anni in cui il Giliberto operò essa dovette essere impiegata anche a fini
pedagogici di stampo laicale. Onofrio che la trovò nella
biblioteca di un suo cugino, padre di mons. Costantino Vigilante (Costantino Vigilante (1685-1754) fu vescovo di Caiazzo, e come confessore del re Carlo III di Borbone partecipò al moto innovatore messo in atto da
questi.
Il Vigilante apparteneva ad un ceppo solofrano che era una forza economica di
grande importanza nella società locale. Laureato in utroque
jure all’Università di Napoli ebbe un’ampia
educazione classica, si interessò in modo preminente
della Francia, nazione di cui studiò la lingua e la storia specie quella delle
lotte religiose, approfondì i problemi del Regno di Napoli, studiò medicina e
geografia. Queste notizie e altre di seguito sono dedotte dallo studio dei
libri della sua biblioteca di Solofra e dal loro
inventario di prossima pubblicazione), dovette
adoperare questo testo sia come manuale per la direzione della coscienza, sia
per estrarne principi di mitezza nell’esercizio della res publica riportati nel romanzo.
È importante sottolineare che nell’esame dei comportamenti il Fornari indaga fino in fondo la società dei suoi tempi e
divide i direttori spirituali in varie classi. Alla prima
classe assegna le guide dei sovrani e dei religiosi; alla seconda i custodi del
diritto, dai giudici ai notari; alla terza
tutti gli altri, sposi, genitori, scolari; all’ultima i mercanti e i militari.
I sovrani e i
principi andavano consigliati a non essere superbi, avari, ingiusti, a non
dichiarare guerre se non per causa legittima, a non esigere tributi non
consentiti, a non esercitare monopoli, a non emanare leggi ingiuste né
corrompere i giudici. I confessori però non dovevano mai inserirsi nelle
decisioni di stato. In questo capitolo si elude la questione spinosissima del
regicidio che fu causa, forse, dell’uscita dalla Compagnia, nel 1581, di
Giovanni Botero, autore della Ragione di stato.
I giudici dovevano
essere onesti, come quelli tebani che Plutarco dice senza le mani per non dovere accettare offerte;
dovevano essere clementi più che severi, accettare gli appelli giusti e
visitare le carceri per accertarsi della condizione umana in cui erano tenuti i
condannati. Gli avvocati non dovevano difendere cause ingiuste né dovevano perdere quelle giuste per negligenza, per accordo
con gli avversari, per vizio dei testimoni o per altri illeciti. Non dovevano
rifiutarsi di difendere i poveri. I notari dovevano essere diligenti conservatori degli atti, non dovevano
stipulare per gli usurai né raccogliere le ultime volontà degli incapaci.
I docenti dovevano saper bene insegnare, osservare i programmi e distinguere
tra studio e curiosità, non dovevano rilasciare diplomi ai non
meritevoli e insegnare scienze false. Dovevano coniugare sempre la scienza,
ossia il sapere, con le virtù senza le quali la prima sarebbe stata come una
spada nelle mani di un pazzo. I medici dovevano avere scienza e pratica.
Dovevano visitare e studiare l’ammalato e il male, non dovevano protrarre a
lungo la malattia per fine di lucro, dovevano salvare sempre la vita, impedire
quindi gli aborti, e assistere i poveri.
Gli sposi non
dovevano consumare il matrimonio prima della
benedizione, dovevano astenersi dall’atto procreativo durante le malattie, in
caso di pericolo d’aborto e prima della comunione; dovevano dare ai figli il
nome dei santi protettori, non dovevano parlare in loro presenza di argomenti
scandalosi né essere mai sboccati, perché ci si doveva considerare sempre coram Deo et Angelis. La donna-moglie doveva essere diligente e preparata
nell’amministrazione domestica.
I militari dovevano
combattere guerre giuste, portare il cero dell’Agnus Dei, confessarsi prima della battaglia
e non essere bestemmiatori, rissosi, giocatori, rapinatori, ladri e lussuriosi.
I mercanti non dovevano frodare sui prezzi, pesi e misure, né spacciare moneta
falsa o praticare cambi lucrosi. In tempi di carestia non dovevano nascondere
le vettovaglie. Dovevano pagare la giusta gabella, non praticare l’usura, non
commerciare merce rubata.
Oltre ogni legge civile,
quella che si cercava di radicare nelle coscienze, poneva limiti a ogni straripamento individuale o collettivo capace di
rovinose conseguenze nella societas cristiana
dell’Europa cattolica nell’età della Riforma.
Onofrio Giliberto
riprendendo l’opera del Fornari fa propri i suoi
contenuti per tutte le categorie considerate, lasciando insoluto il dibattito
se anche i governanti debbano sottostare alle norme
disposte per la gente comune, una volta dismessi i
paludamenti e le pompe degli apparati.
Dobbiamo infine
ricordare per dovere di cronaca una nota del notaio Vito Antonio Grassi che
operò a Solofra dal 1701 al 1722, che nei suoi Genealogie
e ragguagli Istorici del antico e moderno stato di
Solofra e sua Universitas (Vedi Capitolo I
"Le lettere di dedica") così scrive de Il cavalier de la rosa overo
aggiunta a le gare de’ disperati:
E
soprattuto [bisogna ricordare] la composizione nobile
fatta da lui [Onofrio Giliberto] con questo titolo il cavalier de la rosa seu
aggiunta alle gare de disperati che diede alla luce nel 1660, dal quale si
apprende il modo del buongoverno, scritto tutto enigmatico.
Questo parere è assai
interessante per comprendere il giudizio verso quest’opera
espresso da un contemporaneo che ne riconosce l’importanza ed il reale significato
pedagogico.
Capitolo IV
Alla ricerca de Il convitato di pietra
In conclusione mi
sembra opportuno spendere qualche parola sul grande assente di questo studio, Il
Convitato di Pietra, opera per il quale ancora
oggi Onofrio Giliberto è noto a qualche studioso.
Non sappiamo quasi
nulla di quest’opera assai famosa del Giliberto, ma possiamo ricostruirne la presenza e le
tracce almeno fino alla seconda metà del Settecento, quando continuavano a
circolare due edizioni tradotte in francese e numerose ristampe bolognesi.
Originariamente,
secondo Benedetto Croce, questo Convitato doveva essere una traduzione o
riadattamento del Burlador de Seviglia di Tirso de Molina. Non sappiamo nulla circa l’effettivo contenuto
dell’opera, ma è molto probabile che il Giliberto sia
intervenuto con variazioni sul tema facendo risaltare gli aspetti etici e la
dissolutezza di don Giovanni, magari con il ricorso ad elementi magici, visioni
oniriche e battaglie tra gerarchie diaboliche ed angeliche.
Al potenziale impiego
di questi espedienti letterari ci fa pensare, oltre lo stile stesso
dell’autore, anche una importante testimonianza di
Andrea Perrucci nella ‘lettera al lettore’
anteposta al suo Convitato di Pietra del 1690:
AMICO LETTORE
So
molto bene che non ti giunge nuovo il titolo di quest'opera
tragica; ma se già l'hai contemplata nuda, accetta di gradirla vestita di
qualche ornamento, se è vero che:
"Spesso un bel
manto accresce la bellezza".
Quest'opera è nata sotto un aspetto di pianeti così benigni che al
suo solo nome la gente è corsa ad ammirarne le meraviglie; e che meraviglie, se
in essa si trovano pietre parlanti. Poiché
il nuovo è ciò che piace di più, quest'opera ti si
presenta davanti con nuove gale. Ammirane la bellezza come una nuda statua; e
ricordati che anche le statue degli antichi furono
adornate di vesti preziose. Se l'abito di questa non
sarà prezioso, non sarà stata una mancanza di chi l'ha vestita, poiché egli ha
provveduto ad abbellirla con diversi gioielli presi in prestito dagli erari di
più ingegni. Potrebbe essere che il suo giudizio si sia ingannato, ma ad ogni
modo l'ha fatto per farti piacere.
Non spaventarti
vedendo il numero dei personaggi, poiché un attore rappresentandone molti,
potrà far sì che l'opera venga rappresentata da non
più di otto attori, essendo le parti compatibili: alcuni attori che recitano
nel primo atto, non comparendo più possono recitare altre parti nel secondo e
nel terzo atto, come potrai ben renderti conto rileggendo il testo. Non mi
resta da dire altro; ti chiedo solo di compatire i
miei errori, anche se è superfluo ricordartelo, se sei virtuoso. Così come
saprai capire da solo che le parole di Fato, Destino e altre, sono dettami di
un abbellimento poetico e non dogmi di un'anima cattolica, la quale scrive per
diletto le opere di finzione in qualità di poeta, ma
sente come cattolico la verità della sua sacrosanta fede. Vivi lieto.( Enrico Preudarca(alias
Andrea Perrucci), Il convitato di pietra, in
Napoli per Giovan Francesco Paci M.DCXC,
ad istanza di Francesco Massari.)
Osserva Roberto De
Simone (Roberto De Simone, direttore d’orchestra e
compositore napoletano, è stato il curatore per la casa editrice Einuadi di molti testi della tradizione napoletana. Ha
curato tra gli altri Il Convitato di Pietra di Andrea
Perrucci. ) nell’introduzione
a il Convitato di Pietra del Perrucci:
In realtà il Perrucci da esperto conoscitore di lazzi e tirate, rivestì
precedenti canovacci dell’Arte con battute che accolse dalla
tradizione orale dei comici come egli dichiara all’amico lettore:
So
molto bene che non ti giunge nuovo il titolo di quest'opera
tragica sott’occhio; ma se già la contemplasti nuda, degnati di gradirla
vestita di qualche ornamento, s’egli è vero che spesso accresce la beltà un bel
manto (Rispetto al testo citato in precedenza quello riportato da De Simone
presenta numerose varianti, ma non mi sembra qui opportuno aprire una
discussione sulla loro tipologia o sulla preferibilità
di una lezione rispetto ad una altra. Per questo ho
riportato qui la citazione completa.). È probabile che egli intendesse
qui riferirsi ad un Convitato di pietra di Onofrio da Solofra, stampato
in Napoli, per le edizioni di Francesco Savio, opera da ritenersi perduta, di
cui abbiamo notizia da Benedetto Croce.
Probabilmente
l’opera drammatica del nostro autore non doveva avere, almeno in origine,
necessità di essere messa in scena, perché essa era del tutto completa ed efficace già alla lettura e probabilmente non aveva
quelle caratteristiche di rappresentabilità che un istrione come il Perrucci andava ricercando. Con questo non si vuole
togliere merito all’opera di quest’ultimo ma solo
porre su due differenti piani, come è giusto, la
configurazione letteraria del dramma rispetto alla pur meritoria opera perrucciana di voler dare leggibilità e dignità ai
canovacci che dall’opera letteraria partivano. Mi sembra inoltre chiaro – e
superfluo da sottolineare – che i canovacci del convitato
di pietra, così numerosi in area napoletana durante il corso del
Seicento, da richiedere l’ordinamento realizzato dal Perrucci,
dovevano essere stati tutti o quasi tutti attinti dall’opera del Giliberto.
Infatti, anche se non si vuole che essa sia la prima traduzione o adattamento
in italiano del dramma di Tirso, e si pretende in base a
congetture di parte che essa sia successiva a quella del Cicognini
o pseudo-Cicognini (Benedetto Croce, infatti, non
attribuisce Il convitato di pietra stampato a Bologna nel
Ma
se questa ricostruzione ci può servire a ridare importanza all’opera del Giliberto, che fu letta nel corso del tempo e presa a
modello da Molière e dalla drammaturgia francese
oltre che da Goldoni, poco ci aiuta a ritrovare
l’opera perduta. Tante piccole testimonianze che giungono da varie fonti non ci dicono nulla di concreto e non abbiamo neppure un
frammento o una citazione diretta sulla quale poter discutere, anzi quei pochi
giudizi espressi non fanno che rendere sempre più problematica una qualsivoglia
idea su quest’opera.
Uno
di questi giudizi proviene dalla autorevole penna di
Carlo Goldoni contenuta nella prefazione al suo Don
Giovanni Tenorio, ovvero il dissoluto punito. Si
tratta di un parere sulla differenza fra il testo di Onofrio
Giliberto e quello di Giacinto Andrea Cicognini.
Goldoni nota, infatti, una minima differenza fra i due
testi.
Vi è inoltre da
ricordare, più di recente rispetto al Goldoni, l’opinione
di Gendarme de Bévotte (A cura di G. Gendarme de Bévotte, Le festin de pierre avant Molière: textes publiés avec introduction, lexique et notes par G.
Gendarme de Bevotte, Paris, 1907), del 1907:
"Rien, ni chez Tirso, ni chez Cicognini, n’a pur fournir à notre auteur l’idée du pélerin. Elle se trouvait certainement pour la primière fois dans le texte de Giliberto.
Je n’ai pu découvrir où celui-ci
l’avait prise".
In
realtà negli ultimi trent’anni sono riprese le
ricerche del testo di Onofrio Giliberto, forse
strumentali ad una migliore comprensione del Le festine
de Pierre di Molière.
Così Giovanni Macchia (Giovanni Macchia era nato a Trani nel 1912; di lui si ricordano molti scritti che hanno
segnato un’epoca e nuovi percorsi per l’intera francesistica.
Tra i suoi più importanti saggi ricordiamo Vita
avventura e morte di Don Giovanni (1978) , Il mito di Parigi (1981),
Il silenzio di Moliére (1985)), illustre
francesista tranese recentemente scomparso, iniziò
uno studio assai approfondito sulla figura di don Giovanni e sul suo mito. Dal
più recente dei suoi più importanti lavori, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo,
stampato dalla casa editrice Adelphi nel 1989,
traiamo questo importante contributo :
Il
mito di Don Giovanni, dopo quasi tre secoli di florida esistenza, più di quello
di Faust, è un mito moderno, nato dalla realtà e non
dalla visionaria fantasia. […] Per secoli il mito di
Don Giovanni prese il nome dal Convitato di pietra, da quella statua di marmo
che con la sua mano gelida trascinava il grande peccatore all’inferno, tra il
disordine di una tavola ricca di vini e di vivande. Era affidato solo a quel
guastafeste l’incarico di rappresentare il fine edificante del dramma, che
faceva, dopo gli spaventi, andar tutti a letto tranquilli.
[…] Con tutti i suoi vizi egli aveva in sé qualcosa di
eroico, e quel pubblico popolare, lettore delle vecchie canzoni e dei poemi
eroicomici, aveva bisogno di un eroe, fosse pure un eroe del male. La figura di
Don Giovanni col tempo si ingrandì sempre di più. […] Fin dagli inizi il gesuita Tirso de Molina
che nel suo Burlador aveva affrontato il tema della
predestinazione e del libero arbitrio, liberò il titolo dall’immagine funesta
di quel convitato (confinato nel sottotitolo), e situò in primo piano la figura
del beffatore, beffatore delle donne, della morte e di Dio. E nel suo Don
Giovanni Molière, che sul palcoscenico non amava
vedere i cadaveri, finì col sopprimere dai personaggi il Commendatore, ucciso
alcuni mesi prima (anche per rendere meno incredibile la vicenda), e nella
scena del banchetto fece apparire la statua ma quasi
per un distratto ossequio alla tradizione. Nel 1651, un grande attore della
Compagnia dei Gelosi, Giovan Battista Andreini, si decise a restaurare dai tanti guasti subiti il
Convitato di pietra, e gli dedicò un immenso poema drammatico che intitolò: Il
nuovo risarcito Convitato di pietra. […] E, come Cervantes aveva fatto con Don Chisciotte
e Tirso col suo Burlador, a Don Giovanni misero
dietro un servo, creatore di lazzi e di variazioni buffonesche. Restarono
famose le prodezze che nel suo Convitato eseguiva
l’Arlecchino Domenico Biancolelli. Di questa grande tradizione comica neanche Mozart
e Da Ponte vollero liberarsi. (Tratto da G. Macchia,
Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, Milano 1989)
Ma oltre a Giovanni Macchia, non molti studiosi italiani hanno
approfondito il mito del Don Giovanni; così non ha fatto, invece, un intero
filone di critica spagnola in cui si sono susseguiti almeno negli ultimi dieci
anni numerosi studi su questo tema. Tra i più interessanti vi sono due studi di
cui non ho trovato traduzione in Italiano e che qui riporto in una mia
traduzione almeno parziale. In essi viene anche citato
il nome di Onofrio Giliberto come autore di passaggio all’interno della storia
della tradizione letteraria del cosidetto ‘donjunismo’.
Il primo di questi
dal titolo "Don Juan: mito e historia"
è a firma Marcos Ricardo Barnatan
(Marcos Ricardo Barnatan,
editorialista e curatore della pagina culturale del quotidiano spagnolo El mundo, è inoltre
tra i maggiori conoscitori di Luis Borges, di cui è stato anche tra i curatori dell’unica
edizione autorizzata della opere) ed è un breve sunto
critico dello sviluppo in epoca moderna del tema del ‘don Giovanni’:
Le
avventure del leggendario seduttore sivigliano conosciusciuto come don Juan Tenorio, sono state un tema
trattato dalla migliore letteratura universale. La storia di questo personaggio
frivolo e cinico, simbolo dei piaceri leggeri e di una vita senza
preoccupazioni abbandonata agli immediati desideri della carne, è servito da
esempio per numerosi lavori teatrali di dignità letteraria nelle più svariate
lingue.
Gli Spagnoli crearono una piece sulla sua origine sivigliana, ma la sua culla è stata sempre assai discussa,
alcuni la pongono in Portogallo, altri in Italia, altri nella
Germania medievale. Soggetto ubiquo e
fantastico, è disegnato nel folclore e nei racconti popolari spagnoli, però non
arriva ad interpretare un'opera letteraria, fino all’apparizione della commedia
in tre atti di Tirso de Molina dal titolo il Burlador de Siviglia o el convidado de piedra del 1630.
Accompagnato
dal suo fedele servitore Catalinon, don Juan seduce con inganni le signorine di Napoli, prima di
andare a Siviglia dove, con abili strategie, si nasconde nella stanza di doña Anna, la giovane figlia del comandante Gonzalo de Ulloa. Le grida di Anna richiamano il padre che trova la morte nella spada
libertina, non prima di maledire il suo assassino.
Ma la
storia continua quando don Juan visita la tomba di
don Gonzalo, e con animo di burla, invita a cena la
statua. Qui si produce lo strano prodigio: la statua accorre all'invito e porta
il peccatore con se all'inferno.
A
questa curiosa mescolanza di comedia di cappa e spada
e auto sacramental, seguirono le pieces
italiane del Giliberto e di Andrea Cicognini
(1650) che continuavano l'operato di Tirso, indurendo il carattere dell'eroe, e
furono seguite da altre tragicommedie francesi, che le imitarono.
Alla
stessa fonte si ispirò Molière
che nel 1665 dava alle stampe il suo Don Giovanni o il convito di pietra, nel
quale il nostro campione interpreta nuove avventure aggiungendo ai suoi vizi
l'ipocrisia, e un vivere alla moda assumendo lo spirito del libero pensatore, e
dotando di caretteristiche comiche alla pari Don
Giovanni, e Sganarelle suo servo. E
come una matrioska Thomas Corneille
nel 1677 lo imita con versi francesi.
In
Spagna, Tirso avrà i suoi primi imitatori in Antonio de Zamora
che ebbe a rappresentare nel 1714 la sua commedia. Mentre in
Italia Carlo Goldoni affronta le medesime tentazioni,
con il suo Don giovanni, o il dissoluto punito. Più tardi
il romanticismo tedesco riscatterà il mito nel romanzo Don Giovanni di Hoffmman, un libero rifacimento della nota opera don
Giovanni di Mozart. E
dobbiamo senz’altro nominare per dovere di cronaca l’opera del danese Helberg (1791-1860) che nel 1814 pubblicò in forma poetica
il suo Don Juan, prima di giungere al poema burlesco
di Lord Byron.
Il
tema è stato sviluppato dal poeta inglese come una commedia cinica, condotta con
totale naturalezza, abbandonando qualsiasi intento di demistificazione del
personaggio o della sua impronta letteraria. Questo, a dire
il vero, secondo una linea di tradizione assai consolidata nella letteratura
inglese, formata da una parte dagli scrittori satirici, e dall’altra
dagli umoristi del secolo XVIII.
È
importante sottolineare tuttavia il cambio radicale
dello scenario di azione: Don Juan nella penna di Byron viaggia attaverso le isole
greche, si vede coinvolto in imprese con dei pirati, e venduto come schiavo a
una sultana turca, giunge a San Pietroburgo dove è
accolto nelle comprensive braccia di Caterina II, dalla quale è inviato in
Inghilterra per compiere una missione politica.
La
cristalizazzione del mito, continuando ancora attraveso molti scrittori passa
per Pouchkine e Alessandro Dumas. Quest’ultimo
appronta l’intero testo su Don Juan Tenorio de Zorrilla in ventuno
giorni lo fa rappresentare per la prima volta nel 1844, e la ripete ritualmente nella notte dei defunti ricordando che in essa capita l’unica possibilità per la salvezza del
peccatore grazie al cammino d’amore compiuto dalla novizia doña
Inés. Il donjuanismo, del
quale nella tradizione spagnola vi è un’eco tanto grande, è stato un fenomeno
molto studiato da Gregorio Marañón che lo qualifica
come infraviril, all’ispanista Maurice
Mohlo, che considera questo mito indissolubilmente
unito a quello di Don Quijote nella grande operazione propriamente spagnola di apporto
all’immaginario collettivo della civiltà occidentale.
Il secondo articolo ‘Don Giovanni’ de Mozart. Mito e interpretación del ‘donjuanismo’ masculino,
che sono riuscito a trovare solo su internet, non è disponibile a quanto pare –
in Italia su supporto cartaceo – e porta la firma di Lucia D’Angelo.
Questo articolo se
pur non riflette nello specifico la situazione del Convitato del Giliberto ben ci fa comprendere il terreno di
attecchimento e l’impostazione psicologica del personaggio di don Giovanni
quale uomo fuori da un preciso contesto temporale ma straordinario nella sua
modernità.
Per problemi di
lunghezza la traduzione dell’articolo non è da me riportata interamente;
infatti, mi limito a proporre qui sotto solo una breve sezione di carattere
introduttivo sulla psicologia del mito, non tanto sugli effetti quanto sui
significati e sulle condizioni che hanno portato a stigmatizzarne
la valenza, fino a fare di don Giovanni, il mito simbolo di una crisi dei
rapporti interpersonali fra uomo e donna oggi. Per una più ampia fruizione del testo, riporto comunque l’originale in
appendice:
"En el reino del hombre
siempre tenemos la presencia de cierta
impostura..." (J. Lacan)
È indiscutibile che la insistente ricerca
dell’uomo di produrre l’incontro con la donna espressa, nella figura del "donjuanismo" maschile, ha attratto l’interesse, della
psicanalisi dagli albori fino ad oggi come discorso che abbraccia per intero la
sfera culturale.
Il mito di "Don Juan" l’imperterrito
seduttore, sopravvive da tre secoli, ma ciò non ci vieta di provare ad
interpretarne gli elementi stessi della condanna: egli
infatti, non incontra la donna ma immagina di averla incontrata e
inciampa inaspettatamente nel "convidado de piedra" che ne è il Padre. Tuttavia, tanto il mito
quanto il "donjuanismo" maschile resistono nel nostro tempo, che non pare peraltro
interessato alle avventure galanti, quanto piuttosto forse all’intento di
distruggere i simboli maschili, dalle maschere agli abiti con i quali si
possono vestire gli uomini, per sostenerne il richiamo alla
"virilità", "genere" maschile e singolare nel tentativo di
giungere all’incontro con l’altro sesso.
Lacan,
dall’inizio dei suoi insegnamenti della psicanalisi ha messo in guardia dal
disorientamento al quale si può essere esposti se si contribuisce a promuovere
lo svincolamento tra il sesso e il genere, uscendo dalle coordinate di una
definita identità sessuale, l’uomo e la donna, il maschile e il femminile, in
una contemporaneità nella quale è evidente il declino
della figura paterna all’interno della società occidentale. Ci
invita, pertanto nella parte finale del suo seminario "La relación de objeto" (1956) a
percorrere altre strade ed usa più precisamente per questo il mito di "Don
Juan" e ad esso aggiunge una personale
interpretazione del "donjuanismo"
avvertendo che gli psicanalisti non si reclutano tra coloro che si abbandonano
interamente alle "fluctuaciones" della moda
in materia psicosessuale.[…]
Questa è la ragione
per la quale crediamo opportuni i tentativi di sostenere l’interpretazione a
cui è pervenuto Lacan del
mito di "Don Juan", e più precisamente di
quello che egli designa come "apice" del personaggio "Don
Giovanni" (Mozart), quasi a dimostrare che la
prospettiva psicoanalitica del "donjuanismo"
non si disperde nelle necessità di definirne il gerere
e la sua presupposta identità maschile; quello che veramente si sovverte e si radicalizza a partire dalla sua interpretazione circa il
mito, e ciò che si produce in definitiva, è un cambio del genere del mito
stesso.
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“Ars clamat artes”. Il Vinto inferno da Maria di Onofrio Giliberto da Solofra
di Carlo
Coppola
La vita e le opere di Onofrio
Giliberto
di Carlo
Coppola
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