La peste del 1528
Una terribile
piaga a cominciare da quella che si diffuse verso la metà del
XIV secolo e che fu la prima di una lunga serie di epidemie fino agli eventi
pestiferi che si svilupparono in Italia tra il 1523 e il 1528 e che sono da
porre in relazione agli eventi bellici che travagliarono le nostre terre in
quegli anni.
Nel Meridione essa fu portata
dall’esercito del generale francese Lautrek che era
entrato nel Regno di Napoli il 10 aprile e che dopo una campagna in Puglia si
era spostato, il 30 aprile, nella pianura campana ponendo
l’assedio a Napoli. E fu durante questo assedio, a
causa del taglio dell’acquedotto della città e dell’impaludamento delle acque
vicino all’accampamento, che si diffuse il morbo che ebbe il suo acme tra
luglio ed agosto tanto da decimare l’esercito, causare la morte dello stesso Lautrek (15 agosto) e quindi la fine della impresa francese
nel meridione.
Ecco come un autore del tempo racconta quella epidemia:
Dal 15 luglio al 5 agosto dilatò tanto la peste e
cominciò con tanta mortalità nel campo che si vedevano
gittate giù l’armi, giacer distesi nei padiglioni i soldati e nelle erbe senza
colore. Tra gemiti miserabili, un orrore funebre per tutto, e l’aspetto del
luogo infelice e spaventevole e tra la strage accomulata
dei morti con odor puzzolente e acutissimo molti tra il bere e il mangiare
venivano meno e con un torcersi di corpo mandavano lo spirito fuori restando
insepolti . Altri quasi oppressi di sonno non alzavano
il capo, poco meno che trapassati covert da sciami di
vespe e mosche tra l’unghie e becchi di avvoltoi e
corvi che in isquadroni si raggiravano per le tende
con istridi crudi e noiosi e così le altre bestie di carnaggio: senza che il padre al figlio o amico al compagno
potesse apportar alcun ristoro, non chiuder gli occhi o bagnar di lacrime il
viso non proger gli ultimi baci ed abbracciamenti non
almeno poterli cuoprire d’arena e di cespugli tra
erbe e spine. Ai mal vivi poi erano venuti meno tutti i rinfrescamenti, poiché
la maggior parte degli uomini del paese non ardiva più per tema della peste
passare nel campo, E nelle vie massime per quelle di Aversa
ed a Melito si trovavano parecchi soldati partiti malati dal campo esser morti
per lassezza che non avevano sembianza umana tanto
erano scarnati e brutti (pp. 106-107).
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A molti si vedeva gonfiare il
ventre e le cosce con notabil pallidezza di volto. Il
15 luglio si videro manifesti segni d’infezione, non solamente nel volgo de’ soldati,
ma ne’ capi dell’esercito. E quel che era peggio, non s’usava diligenza nè rimedi per ovviare al male con separare gl’infetti e tener netti gli alloggiamenti e puri i canaggi e necessità corporali. Giacevano distesi ne’ padiglioni i soldati mezzo morti e tutti malaticci,
sentendosi poi una puzza molto acuta. Si vedevano gittate giù l’armi, giacer distesi nei padiglioni i soldati e nelle erbe
senza colore. Tra gemiti miserabili, un orrore funebre per tutto, e l’aspetto
del luogo infelice e spaventevole e tra la strage accomulata
dei morti con odor puzzolente e acutissimo molti tra il bere e il mangiare
venivano meno e con un torcersi di corpo mandavano lo spirito fuori restando
insepolti . Altri quasi oppressi di sonno non alzavano
il capo, poco meno che trapassati coverti da sciami
di vespe e mosche tra l’unghie e becchi di avvoltoi e
corvi che in isquadroni si raggiravano per le tende
con istridi crudi e noiosi e così le altre bestie di carnaggio.
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In quei giorni soffiò un ostro
nebbioso e caldo che finì di infettare il resto eccitando una puzza intolleranda di corpi morti con sommo orrore de’ morenti
e coprendo ogni cosa di caligine.
Ogni cosa era piena di lagrime, di miserie, di
confusioni, tumulti e stridi di quei che fuggivano per mai più ritornare nelle
loro case a vedere ed abbracciare i suoi più cari e di quei che restavano per
essere ogni giorno insultati ed oltraggiati tra
l’insolenza della vittoria ed i privati sdegni de’
maligni. Non pareva sicuro il padre dal figlio, né il figlio
dal padre, né tra amici, fratelli o congiunti v’era sincerità d’affetto. Ogni
cosa era ingombrata di spavento e di lutto tra le rapine, proscrizioni, bandi e
minacce ed insolenze (p. 133).
Da questo accampamento,
dove già erano partiti dei commissari a raccogliere le vettovaglie per
l’esercito e tra questi il solofrano Antonio Maffei, per
porre rimedio alla diffusione del morbo si pensò di allontanare i soldati verso
posti meno contaminati mandandoli nelle terre dei baroni amici. Cosa che successe a Solofra, che essendo feudo dello Zurlo alleato del Lautrek,
fu costretta ad accogliere alloggiamenti di soldati francesi, che si portarono
dietro l’infezione. Ma a Solofra si ritirarono anche i
soldati locali fuggiti dal campo infetto. Qui i primi sintomi si ebbero in
giugno tanto che l’Universitas nominò un
"ministro de atterrare gli infetti" col compito di controllare la
sepoltura degli appestati, mentre tra agosto e settembre i morti aumentarono in
modo considerevole, ma si continuò a morire di peste anche ad ottobre.
Il male
Il male era caratterizzato da una infiammazione e da un rigonfiamento doloroso dei
linfonodi o bubboni generalmente a livello inguinale. La malattia insorgeva
improvvisamente con brividi e febbre, i bambini avevano le convulsioni, vi era
vomito, sete intensa, dolori generali, cefalea, sopore
mentale e delirio. Al terzo giorno, dall'inizio dei sintomi, comparivano
macchie nere cutanee, da cui il nome di "peste o morte nera" e la morte giungeva quasi subito. Non mancavano casi in cui la
malattia aveva un decorso benigno con sintomi lievi che si attenuavano dopo il
decimo giorno fino a scomparire.
La situazione a Solofra
Attraverso la lettura dei rogiti
notarili di tutto quell’anno si colgono molti
elementi riguardanti la peste diffusasi in modo
particolarmente virulenta a Solofra tanto da fare "tricento in suso" vittime
cancellando intere famiglie e interessando tutte le zone sia i rioni alti,
come Caposolofra, sia quelli bassi. Emerge una situazione che mostrava tutta
l’insufficienza della scienza di allora che non riusciva neanche a dare
sollievo ai malati e che generava panico e fanatismo. Si mettevano allora in atto pratiche, che univano religione e superstizione
legate proprio dalla paura e dall’impotenza, come durante le processioni e i
riti per placare l’ira divina messe in atto nelle chiese o lungo le strade,
ma che non facevano altro che aumentare le occasioni di contagio. Al centro
di questi riti c’era il culto a San Rocco, particolarmente venerato proprio
come protettore dalla peste e che a Solofra già aveva una cappelletta
che dominava il rione delle concerie per le sue virtù taumaturgiche contro la tracena, la terribile pustoletta maligna provocata dal carbonchio delle pelli.
In occasione di questi eventi la chiesa vide moltiplicate
le donazioni nei testamenti, come il caso di Margherita Vigilante, moglie di
Gio Loisi Troisio del
casale Burrelli, che donò alla Cappella de Santo Rocho alcuni suoi beni dotali. Proprio i testamenti sono la spia più
eloquente del clima di impotenza che l’evento
epidemico creava. Dinanzi a persone che cadevano letteralmente a terra morti, dinanzi a decimazioni in poche ore di tutti
i membri di una stessa famiglia colui che riusciva a fare testamento non
aveva più la preoccupazione di fare lasciti per le esequie, per il canto del
salterio o per i riti nelle chiese che prima erano prescritti con la
meticolosa indicazione dei preti, dei frati e dei presbiteri delle varie
chiese che vi dovevano prendere parte, perché sapeva che alla sua morte tutto
questo non sarebbe potuto avvenire. Il testatore invece parlava molto di
"malo oblato incerto", "penitentia
non fatta" o di "decima fraudata"
che erano quelle mancanze che facevano versare un obolo alla chiesa o al
prete per il rito riparatore, il poveretto in questo terribile frangente, si
preoccupava di lasciare alla chiesa molti dei suoi averi, offerte per ceri e
per messe, compiti che dava ai suoi eredi o a chi restava, e si preoccupava
degli eredi, li elencava fino alla quinta linea di successione ed oltre.
Bartolomeo Parrella, "artis medicine doctor", si preoccupò dei suoi libri di medicina e
dispose che se nessun erede avrebbe studiato medicina i libri sarebbero
dovuti andare al monastero di S. Agostino. Mai come in questo periodo i
testamenti sono ricchi di dati che permettono di conoscere la consistenza
patrimoniale della famiglia, i rapporti mercantili, notizie precise sulle
attività dei testatori e di altri membri. Toccante è
il testamento di una madre di Serino moglie di Alessandro
Guarino abitante al Toro soprano che è "gravidam
et partorientem infirmam et suspectam
de peste" e che nel fare testamento lascia al figlio o alla figlia
nascitura i beni della famiglia. |
La medicina di allora credeva che la
peste fosse un male causato dalla putredine e dalla umidità
dell’aria e che si trasmettesse tramite il respiro ed era collegata agli umori
del corpo umano che si ammalava quando questi erano in subbuglio. A ciò si
aggiungevano superstizioni di tipo astrologico che attribuivano la peste a
determinate posizioni dei cinque astri maggiori, oppure si credeva che il male
fosse portato dallo "spiritus" infetto che
usciva da un appestato in punto di morte. I malati quindi venivano
chiusi in casa e allontanati dai sani i quali spesso si ritiravano in luoghi
isolati, oppure abbandonavano beni e famiglie ritornando solo dopo molti anni o
non ritornando affatto.
Dai testamenti emerge una situazione
variegata. C’erano sani che sceglievano di abitare nelle selve di loro
proprietà o anche nelle caverne dei monti di Solofra e qui il notaio era
chiamato a redigere il testamento oppure si ritiravano nelle chiese isolate
come la chiesa di S. Maria della neve e di S. Maria
delle Selve dove furono redatti altri testamenti. Sempre però i testatori,
sia se dichiaravano di essere sani o "infermi e
sospetti di peste", si ponevano in luogo isolato e ben lontani dal
notaio ma in modo che potesse arrivare la voce e dettavano le loro ultime
volontà. Se erano in casa i testatori si
affacciavano alla finestra o nella loggia "supra
gaifo" e parlavano al notaio che era in
cortile o nella strada. Ci fu chi fece testamento dal "viridario castri Solofre sito supra dicto castro", era la
moglie del custode del castello che accolse il notaio nello spazio antistante
il maniero. Chi era costretto ad entrare nella camera del malato
lo faceva solo dopo che le finestre fossero state aperte mettendo in pratica
varie precauzioni tra cui quella di respirare aceto come fece in una
occasione il notaio che cominciò a scrivere dopo aver deposto un panno
bagnato di aceto. I malati non venivano sepolti in
chiesa ma nei luoghi dove morivano, in fosse scavate nel terreno e non
raramente le fosse erano comuni. Spesso trovavano sepoltura anche dopo molto
tempo dalla morte perché si aspettava che lo spirito malefico se ne andasse. Nel testamento specificamente chiedevano che,
passato il contagio, le loro ossa venissero poste
nella cappella di famiglia. Ci fu una moglie che chiese di scavare anche le
ossa del marito già morto e di metterle insieme nella sepoltura religiosa
"elapsi de peste" cioè
quando la peste aveva abbandonato la zona. Da un contratto di compravendita si ha
la prova dell’acquisto di "brettonica e propinella". Erano queste due erbe che venivano triturate e con altre sostanze unite ad acqua
vite servivano per la composizione di pillole in aiuto dei malati. Si usavano
medicamenti legati soprattutto ad erbe odorose e spezie, zenzaro,
cannella, chiodi di garofano, molto aceto ed acqua di rose con le quali si
lavavano spesso le mani e soprattutto le zone intorno al naso e alla bocca
che erano i luoghi dove entrava l’aria infetta. Naturalmente passato il contagio ci
furono tanti problemi da quelli ereditari a quelli dotali, dal pagamento
delle gabelle a quello dei debiti. Non pochi artigiani si lamentarono per
vario tempo per la "guerra e la moria" che aveva impedito loro di
portare a termine lavori o ottemperare agli obblighi
presi prima della epidemia. Ci sono molti atti che sistemano situazioni
patrimoniali e ci sono soprattutto molti matrimoni. Ci si sposa tra cugini
anche di primo grado, una endogamia
che appare chiaramente come forma di difesa della identità della stirpe ma
anche dell’attività economica che la caratterizzava, senza contare che tanti
morti, in una società non numerosa, causava realmente forti vuoti. Cambia il
tenore dei testamenti dove continuano le donazioni, ma si nota un bisogno di
ringraziare per lo scampato pericolo ed allora ecco i lasciti per anniversari
da celebrarsi ogni anno, ecco candelabri, calici, quadri per addobbare le
cappelle ed ecco le disposizioni proprio per l’ampliamento delle stesse.
Sicuramente ci furono problemi per la sistemazione dei
morti sicuramente le cappelle non bastarono più e sicuramente la peste
portò ad un rinnovo di molte chiese. Si trovano diverse citazioni della
chiesa di San Rocco che dovette essere ampliata e ristrutturata come
ringraziamento dello scampato pericolo. Tra le conseguenze della peste ci
furono molte lamentele sui danni provocati dagli alloggiamenti, ci furono
casi di intolleranza contro i soldati che
alloggiavano a Solofra e che essendo rimasti senza guida per la morte dei
capi e per la repentina fine delle ostilità si dettero ad ruberie ed
uccisioni. |
Come ci si
difendeva
Una delle cause della diffusione della
peste, in passato, era anche la scarsa igiene e l'accumulo d'immondizia nelle
città che creavano l'ambiente ideale per la riproduzione dei ratti. È certo che il morbo
umiliava i medici che non riuscivano a dare sollievo ai malati e proprio questa incapacità generava manifestazioni di panico e di
fanatismo.
Si sa che la peste aveva dato vita alla
pratica di turbe di penitenti che vagavano da un luogo all'altro flagellandosi
pubblicamente, una specie di autopunizione per placare l'ira divina dinanzi a
folle contrite, pratiche dove religione e superstizione facevano un tutt’uno legato dalla paura e dalla impotenza e che invece
non facevano altro che aumentare la causa del contagio. E si sa che in queste
occasioni si dava vita a processioni e a riti dedicati
ai santi patroni e tra questi c’era il culto a San Rocco che nel meridione fu
appunto il protettore delle popolazioni proprio contro questo morbo. Non è un
caso dunque che il culto solofrano al santo nella cappelletta
a margine dell’area delle concerie visto che S. Rocco era anche il protettore
della tracena, trovasse un duplice motivo di esistenza, sta il fatto che dopo la peste ci furono varie
donazioni alla chiesa e i documenti si arricchiscono di riferimenti. Non
mancavano casi di vera superstizione come quello di attribuire potere
protettivo a determinati amuleti. La superstizione era convalidata anche dalla
teoria araba di tipo astrologico che attribuiva la peste ad una determinata
posizione dei cinque astri maggiori, oppure credendo che il male giungesse quando lo spiritus
infetto usciva da un appestato in punto di morte.
Quello che è certo è che già allora si usava la pratica di
prevenire il male. E poiché allora si pensava che la peste era una malattia
dell’aria che si trasmetteva tramite il respiro (e che si collegava alla teoria
umorale tanto che alcuni credevano che fosse
perennemente nell’aria e che si venisse colpiti dallo spirito venefico solo
quando gli umori del corpo umano erano in subbuglio), il primo rimedio era
quello di recarsi dove non poteva giungere l'aria pestifera. Avveniva così che
i sani andavano verso luoghi isolati e alti, o
cominciavano una convivenza separata senza parlare con le persone c’era chi si
allontanava dai paesi abbandonando beni e famiglie
Si allontanavano anche i malati che andavano ad aspettare la morte
o la guarigione in luoghi isolati.
La peste era un male d’aria: proibito stare in ambienti aperti e
molto aerati, divieto di fare fatiche (si respira di più).Si pensava inoltre
che fosse un male legato alla putredine e dall’umidità: perciò fu proibito
mangiare pesce, e gli altri cibi erano ritenuti migliori se fritti; andavano
poi usati in abbondanza sali (qualità conservanti), limone e aceto con le loro
qualità di astringenti e rinfrescanti. Seguivano poi i
salassi, la cosiddetta 'medicina universale' (legata agli umori) e le purghe, purificatori
universali.
A coloro che rimanevano in paese, preti, medici e notai, veniva consigliato prima di entrare in camera del malato di
aprire porte e finestre, di lavarsi le mani, il naso, la faccia e la bocca con
aceto ed acqua rosata, di tenere in bocca due granelli di garofani di portare
nelle mani fiori o erbe odorose oppure spezie, ponendosele spesso al naso.
Per la confessione il prete che non poteva
avvicinarsi avveniva di lontano per non ricevere l'aria infetta e dopo anche
lui doveva lavarsi di nuovo con l' aceto, o acqua rosata sempre intorno al naso
e alla bocca Altri tenevano in mano la spugna bagnata nell'aceto odorandola
spesso e i garofani in bocca.
C’erano anche ricette di alcune pillole da
prendersi varie volte al giorno "un’oncia di brettonica
e propinella e di camedrios
triturati minutissimamente come polvere. Poi mirra oncie due, aloepatico oncia una e
mezza, croci, broli armetrici, di ciascuno drama mezza il tutto si crivellino
e siano messi come polvere in acqua vita e buglioso
per uno giorno e una notte. Poi si coli il tutto e se ne
facciano pillole.
Consigli medici: bagnare la casa o le camere ove l'
uomo sta con aceto fortissimo o con acqua rosata. Quando fa caldo l' uomo deve lavarsi con l' aceto o con l' acqua rosata Non
entrare nella camera dove c’è ò’infermo oppure dove
vi è stato di recente. Deve guardarsi di non avvicinarsi agli infermi perché il
loro alito e velenoso e così pure l' aria della camera
diventa putrida e infetta.
C’erano anche medicamenti specifici come delle pillole prese prima e dopo i pasti, o ingerite al mattino appena
svegli e alla sera prima di coricarsi. Come erano
consigliati il vino
E c’erano regole di comportamento estemporanee che spingevano a
vivere moderatamente. oppure a darsi agli eccessi di
bere e di godere la vita come una medicina.
Il male era caratterizzato da una infiammazione e da un rigonfiamento doloroso dei
linfonodi o bubboni generalmente a livello inguinale. La malattia insorgeva
improvvisamente con brividi e febbre, i bambini avevano le convulsioni, vi era
vomito, sete intensa, dolori generali, cefalea, sopore
mentale e delirio. Al terzo giorno, dall'inizio dei sintomi, comparivano
macchie nere cutanee, da cui il nome di "peste o morte nera". Non
mancavano casi in cui la malattia aveva un decorso benigno con sintomi lievi
che si attenuavano dopo il decimo giorno fino a scomparire. Altri casi erano
più virulenti e dopo cinque o sei giorni si moriva.
Ciò che colpiva era il modo di morire quasi subito a volte cadendo letteralmente
morti.
Dai testamenti è chiaro che i malati non venivano
seppelliti in chiesa ma in fosse nel luogo ove si moriva ed anche in grandi
buche dove venivano sepolti i morti della zona.
Bisogna considerare che i grandi avvenimenti colpivano
fortemente la fantasia e di fronte alle avversità c'era la concezione che
queste fossero delle punizioni divine causate dai loro peccati e che Dio,
offeso da ciò, scaricasse sulla gente la sua ira.
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Il prete doveva recarsi presso l'ammalato portando con sé un lume,
l'acqua benedetta, la croce e dei tamponi di lana per asciugare l'olio.
L'ammalato chiedeva perdono al religioso battendosi il petto, baciando la croce
e recitando i sette salmi della penitenza, e poi gli veniva
data l'estrema unzione. Tutto ciò era accompagnato da una serie di preghiere.
Se l'agonia del malato si prolungava il curato ed una parte dei chierici uscivano dalla stanza , lasciandovi la croce e l'acqua
benedetta. Quando la fine si avvicinava li si chiamava
con il suono delle campana e se il poveretto moriva venivano lette delle
preghiere tramite le quali lo stesso rimetteva a Dio la sua anima .Nonostante
questi fossero i rituali non venivano pienamente
rispettati infatti ad esempio l'estrema unzione era considerata come il
"Sacramento di lusso" che era alla portata delle persone più
importanti. Il perdono lo si otteneva da Dio, ma la
stessa importanza l'aveva il mettersi in pace con gli uomini, cioè riparare i
"torti fatti", e proprio per questo cominciava a diffondersi l'idea
del testamento anche se questo metodo per il perdono dell'anima e del corpo non
fu mai pienamente considerato e si preferì sempre l'uso dei semplici
sacramenti.
L'uomo è ritenuto ammalato quando la
buona miscela che è alla base fisiologica dello stato di salute, è
sovrabbondante o scarsa. Il sistema fisiologico tetraumorale
si integra perfettamente con la dottrina filosofica di
derivazione platonicoaristotelica ,delle tre funzioni
o facoltà e dei tre spiriti: naturale, vitale, animale. Fegato, cuore , cervello, sono gli organi che comandano le tre cavità
organiche interne; i mali inaccessibili alla vista sono oggetto della medicina
interna, che è altra cosa dalla medicina esterna ,la quale guarda la
superficie del corpo, e per curarlo ci si affida agli "empirici".
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