ILLUMINISTI E NOVANTANOVE A SOLOFRA
Capitolo Primo
L’area solofrano-montorese, che attraverso il raccordo di S.
Severino è in contatto sia con la valle dell’Irno che
con l’agro sarnese-nocerino, appartiene a quell’enclave socio-economica
della pianura campana in cui il rapporto montagna-pianura ha costituito l’asse
della sua definizione, e che è stato il territorio di riferimento delle sue
attività, e coagulo di forze e di spinte evolutive1. Quest’area
quando Napoli, divenuta capitale, si trasformò in un enorme centro urbano-economico-amministrativo e culturale, pur continuando
a ricevere linfa dalla mai venuta meno ricchezza di Salerno, del cui hinterland
faceva direttamente parte2, entrò nella più ampia conurbazione
gravitante intorno alla grande città.
,
Avellino, 1997 e poi in Id.,
Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000 si è dimostrato, per l’area interessata, questo
rapporto sottolineato anche dal Galasso (Motivi, permanenze e sviluppo della
storia regionale in Campania, Napoli, 1972).
2.
All’indomani delle distruzioni barbariche, quando nella conca solofrana si
formarono due arroccamenti sostenuti dalla pieve
di S. Angelo e S. Maria, si
realizzò una diretta gravitazione della stessa su Salerno, del cui episcopato
peraltro la chiesa rurale faceva parte, tanto da farla
entrare in modo non secondario in quel vivo territorio che fu l’hinterland
salernitano. I rapporti con Salerno furono di natura squisitamente economica,
essendo le terre della pieve proprietà dell’episcopio salernitano, per cui ci fu un diretto contatto delle attività di concia,
sviluppatesi lungo il corso d’acqua solofrano, con quelle che si svolgevano a
Salerno per opera soprattutto degli Ebrei. Per questo motivo l’area fu
interessata da una quasi costante corrente migratoria dal salernitano (cfr. M.
De Maio, Alle radici..., e Solofra nel
Mezzogiorno..., cit. infra).
Lo
studio della società solofrana ha messo in evidenza,
fin da questo periodo, una intensa sinergia con la capitale, che fu il punto di
riferimento di tutta la sua storia, da quella socio-economica a quella
culturale. La rete di rapporti commerciali ed insieme culturali iniziò con la famiglia solofrana dei Fasano, che, fin dalla fine del XIII
secolo, fu tra quelle su cui i re angioini si poggiarono nel sostenere l’evoluzione
del territorio e nel fare di Napoli un grande polo mercantile e culturale.
Questi proprietari, allevatori e mercanti, con un raggio di azione
che giungeva alla Puglia, furono protetti da privilegi che si estesero alle
attività mercantili solofrane su tutte le piazze, contribuendo a dare una
spinta alla specializzazione produttiva che si stava realizzando in loco,
mentre dei tre medici - Riccardo, Niccolò ed Andrea - , tutti della corte
angioina, il primo contribuì, sia con Carlo II che con re Roberto, allo
sviluppo dello Studio di Napoli3. Se quella dei Fasano indica una
via di sviluppo della società locale nella collaborazione con la corona, non
mancò di formarsi a Solofra, per le opportunità che le attività artigianali
offrivano, specie dopo l’introduzione di elementi
della borghesia artigiana legata alla concia della pelle provenienti da Salerno
e dalla sua zona produttiva, un ceto che maturò forme più autonome durante gli
eventi che segnarono il passaggio dalla signoria dei Filangieri a quella degli Zurlo4. La comunità
infatti potette rafforzare una tendenza che la portava a trovare in se
stessa la forza per la difesa della propria realtà economica in funzione
antifeudale, a cui contribuì, in modo non secondario, la formazione di un ceto
notarile ed ecclesiale volto alla protezione e al sostegno delle attività
mercantili5. Era stata proprio la realtà solofrana all’inizio
dell’autonomia amministrativa e territoriale - a cavallo tra il XII e il XIII
secolo - a dare l’avvio a questa tendenza con un atto di grande importanza - la
richiesta di decadenza del feudatario6 - che inaugurò
una linea rivendicativa che sarà perseguita da questa comunità con ostinata
costanza.
Quando
con gli Aragonesi Napoli, divenuta unico polo di smercio dei prodotti del regno
e nodo di traffico multinazionale, fu fonte di stimolo e di sviluppo dei centri
a suo più diretto contatto, il rapporto Solofra-Napoli, divenne più solido:
quelli che intrecciarono a Napoli legami matrimoniali e patrimoniali, per
usufruire dei conseguenti benefici economici, e che esercitavano anche attività
liberali - inizialmente di tipo curiale - , crearono
nella grande capitale importanti punti di appoggio per la realtà solofrana.
3.
I Fasano, che, provenienti dalla distrutta Fasanella, si erano stabiliti tra
Montoro e Solofra, ebbero da Carlo I d’Angiò l’incartamento su un fondo in
territorio solofrano (cfr. O. Beltrano, Breve descrittione
del Regno di Napoli, Napoli, 1644, p. 173).
4.
Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,
cit., pp. 33-70. La comunità solofrana godette, alla morte di Giacomo
Filangieri, un periodo di demanialità, seguito, per il difficile stabilizzarsi
in loco della signoria degli Zurlo di Montoro, da uno
di labile dominio feudale, che favorirono entrambi lo sviluppo di forme di
autonomia.
5.
Le attività mercantili ebbero bisogno della protezione
notarile e dei diritti patronali delle chiese. Vale la pena sottolineare
che il sentimento di autonomia, al di là dei bisogni concreti della mercatura,
trovò un terreno favorevole nel fatto che Solofra non ebbe un luogo forte, che
avrebbe potuto ostacolare tale maturazione come non fu il castello, sentito
parte di quello di Serino a cui originariamente apparteneva, e che certamente
non fu un punto di riferimento importante o la sede del feudatario; ed invece
ebbe un centro religioso di origine popolare, che favorì lo sviluppo di un
senso deciso della individualità locale, a cui dette forza anche il fatto che
la chiesa era stata centro delle attività economiche.
6.
Alla morte senza eredi di Giordano Tricarico, a cui il padre Ruggiero aveva assegnato il casale,
l’Universitas chiese a Federico II la decadenza del dominio feudale e il
conseguente passaggio al demanio imperiale (cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 68 e sgg.).
Il
più intenso rapporto con Napoli, sostenuto dagli Zurlo
- la feudalità cittadina penetrata nelle campagne col favore aragonese - ,
produsse un sostanziale sviluppo dell’ambiente economico: l’artigianato,
incentrato sulla pelle, divenne più articolato e le conseguenti attività
mercantili e finanziarie più mature. Vale la pena sottolineare
il ruolo decisivo che nella vicenda solofrana acquistarono, fin da questo
periodo, la proprietà ecclesiastica e il piccolo possesso, che ebbero un forte
valore finanziario, e che impedirono alla feudalità di entrare in modo
preminente nelle attività locali7. Ed ancora bisogna considerare che
il ristretto territorio e la sua conformazione prevalentemente pedemontana tennero la comunità lontana dai danni del latifondo; che il
commercio introdusse costantemente linfa nuova nella compagine sociale; che non
vennero mai meno le attività artigianali legate all’industria armentizia; che
la comunità fu sempre ben decisa a mantenere forme di autonomia e a difendere
le prerogative acquisite.
La
mercatura fu, in questo ambiente, un determinante
elemento di maturazione. I viaticali e i mercanti, mai perdendo i contatti con
i mercati locali - il polo di Giffoni-Sanseverino, la stessa Salerno, le cui
due fiere furono un punto importante di riferimento - ,
ebbero un raggio di azione che alimentava, con fitti rapporti, i centri
commerciali della Puglia, e che si allargava ai mercati abruzzesi e calabresi,
dando la possibilità di una variegata esperienza aperta a nuove istanze e a
molteplici interessi. Essi inoltre nel ricco mercato napoletano trovarono ulteriori stimoli per le attività locali che potettero
subire uno sviluppo di tipo cittadino, sfociato nell’autonomia finanziaria, in
cui Napoli ebbe un ruolo determinante.
Il
solofrano, che veniva a contatto con l’ambiente napoletano, apparteneva ad una
compagine sociale amalgamata da una fitta rete di intrecci
familiari, che aveva coagulato forme di collaborazione sui generis, dove
l’unione di persone e di attività teneva insieme la parcellizzazione
dell’artigianato e la stessa attività mercantile e finanziaria in una simbiosi
in cui l’una viveva dell’altra. Se in questa società l’operatore ed il
finanziatore formavano un tutt’uno con una mancanza di autonomia
propria della economia meridionale, fu questa caratteristica che, costituendo
una peculiarità, contribuì a favorire quei "salti" che la
partecipazione alla cultura permetteva e a creare la borghesia dell’artigianato
e della mente che fu la parte più innovativa della società napoletana8.
Il
Viceregno, che trovava Solofra in pieno
sviluppo socio-economico, espresso in due significative
opere - la costruzione della Collegiata e la stesura del secondo corpo statuario
- , nell’esplosione delle attività artigianali e in un considerevole incremento
demografico tutto volto su Napoli - divenuta "centro di consumo e di
concentrazione della rendita delle campagne" e dipendente da esse9
- , favorì la continuazione della tradizione mercantile e culturale, e
l’arricchì con altre attività tra cui l’artigianato di lusso del battiloro, che
rispondeva alle esigenze della capitale e del suo mercato10.
Sintomatico
è proprio il caso del battiloro napoletano che, per trovare un più
diretto contatto con la materia prima, si spostò a Solofra dove acquistò una
specificità che la stessa Napoli non ebbe11. Ma c’è il campo più
ampio della concia, con forme fortemente specializzate
- in particolare la pergamena - , quello della manifattura della pelle (vari
tipi di calzature e cordami), della lana, della carne salata12,
tutti prodotti il cui commercio dette luogo a intensi rapporti finanziari, che
furono sempre arricchiti da quelli culturali intessuti dagli stessi ceppi
artigiano-commerciali, poiché coloro che si stabilivano a Napoli appartenevano
alle famiglie più forti economicamente da poter sostenere la residenza nella
città13.
7. Fin dal tempo del
Filangieri la comunità era riuscita a limitare le prerogative feudali,
specie negli usi civici, ed ancora nel XIV secolo il
feudatario non aveva l’uso dell’acqua né dei prodotti delle selve, essenziali
per la concia - ghiande e scorza di quercia ma anche di castagno, ricchi di
tannino - e per l’allevamento dei maiali, voce non indifferente della
produzione locale (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 33 e sgg).
8.
Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,
cit., pp. 73 e sgg.
9.
Cfr. P. Villari, Il sud nella storia d’Italia,
Roma-Bari, 1984, p. 11.
10.
Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,
cit., pp. 151 e sgg. Per avere un’idea dello sviluppo solofrano basti considerare
che nell’arco di un secolo si ebbe un’esplosione
urbanistica di ben quattordici casali.
11.
Questa attività, sulla quale nel Regno solo Napoli e Salerno avevano il jus prohibendi e che si impiantò a Solofra per soddisfare
le esigenze della produzione sia salernitana che napoletana, come una loro
diramazione, legò Solofra ai due centri, anche perché i suoi fonditori, insieme
a quelli salernitani, furono alla Zecca di Napoli fin dall’inizio del XIV
secolo. Tra le famiglie solofrane al centro di questa vicenda vale citare i Maffei che, già nella prima metà del cinquecento, ebbero un’importante
bottega, anche di oreficeria, con un marchio proprio
(cfr. Archivio di Stato di Avellino, Notai, B6528,
191-202, per altre citazioni ASA) e che abitarono a Napoli in strada degli
orefici entrando a far parte di quella corporazione.
12.
Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit.
pp. 178-179, 237-366. Gli atti notarili del primo cinquecento mettono in evidenza in modo chiaro la ricchezza produttiva
locale sia dal punto di vista della qualità - basti pensare alla capacità di
questo artigianato di produrre fogli sottilissimi di oro e di argento e
pregiate pergamene - che della quantità. Si consideri che nel 1521-1522 su
seicento rogiti notarili oltre trecento riguardano la
compravendita di una notevole varietà di prodotti locali.
13.
Le famiglie trasferite a Napoli all’inizio del cinquecento solofrano sono i Murena e i de Parisio (entrambi in questa città fin dal
secolo precedente), i Maffei, i Giliberti, i Guarino (anch’essi con l’arte del
battiloro), i Petrone (che avevano proprietà a Ponticelli), i Landolfi (che
abitavano in via Fontana dei Serpi), i Troisi, i Vigilante, i Fasano (cfr. M.
De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit., pp.
181-194).
Anzi
l’apporto culturale divenne più qualificato nel senso che non furono più gli
avvocati o i notai solofrani a stabilirsi nella capitale per proteggere i
rapporti commerciali o trattare i problemi della comunità, come
era avvenuto prima, ma nel senso che ora le famiglie trasferitesi a
Napoli manifestavano una più piena integrazione, dando un diretto apporto alla
intellettualità cittadina ed interessandosi a problemi di più ampio raggio. La
capitale, pur continuando ad essere prima di tutto
centro e polo di attuazione e sostegno delle attività mercantili, divenne
centro di cultura e stimolo per i giovani che vi trovavano sbocco per lo studio
delle leggi, che Solofra viveva come una tradizione, e che portarono queste
famiglie a far parte di quella borghesia napoletana - di uomini di legge e di
artigiani-mercanti-finanziatori - che vivrà tutte le contraddizioni della
società napoletana, compresa la sclerotizzazione del commercio e della
produzione di cui soffrì Napoli14.
Questa
parte attiva e aperta della società solofrana, nell’aria stimolante,
che si respirava nella capitale, sentì più forte la ristrettezza della
soggezione al barone, che toglieva linfa al commercio e che asfissiava la vita civile,
anche se la tendenza antifeudale riuscì ad essere soddisfatta nel ventennio più
ricco del cinquecento solofrano - 1535-1555 - quando la comunità si
riscattò dalla condizione feudale e passò al demanio15. La brevità
di questa esperienza, non sostenuta da alcun
intervento vicereale, per la caratteristica di quella politica completamente
carente verso le realtà che potevano diventare conduttrici di un autonomo
processo economico, non fece altro che alimentare sordi sensi di
insoddisfazione e di impotenza, a cui si aggiunsero le peculiarità del dominio feudale orsino.
La
comunità fu costretta, nella seconda metà del cinquecento, a subire un
feudatario che si insediò imponendo forti privilegi
economici e giurisdizionali che fecero naufragare le prospettive economiche del
primo cinquecento. Il dominio autoritario e rapace degli Orsini dette una spinta all’acutizzarsi della dialettica antifeudale,
portando a maturazione, anche se non senza contraddizioni, nuove esigenze
morali e civili, che interagivano con quelle che si attingevano nella capitale.
Dopo
l’esperienza demaniale, infatti, si era creata nella società solofrana, in cui
una viva immigrazione portava sempre nuova linfa, ed in cui all’inizio non
erano sentite le differenze, essendo ancora aperta la possibilità di ascesa sociale dalle fasce più basse16, una
differenziazione sociale che, nel secolo seguente, tese ad irrigidirsi, dando
luogo a violenti contrasti. C’era un gruppo di finanziatori e speculatori nelle
cui mani si concentrò il potere della Universitas, la
gestione delle gabelle, il possesso degli arrendamenti di molte Universitas e
della stessa Napoli, accanto a cui ce n’era un altro più ampio, sempre di
proprietari, artigiani e piccoli finanziatori in posizione di inferiorità -
spesso famiglie legate da vincoli di parentela con quelle del primo gruppo
senz’altro da vincoli economici - , che aveva una comune caratterizzazione col
primo: la presenza, in ogni nucleo, di almeno un membro che accedeva alla
cultura, e di uno o più appartenenti al clero, con un’incidenza che andava di
pari passo con la ricchezza.
La
parte più bassa della società solofrana era formata da piccoli artigiani e
mercanti, in posizione di dipendenza dalla prima di cui subiva la prepotenza, e
che finiva per apparire tutt’uno con quella del feudatario, diventato come loro
mercante e finanziatore17. In questa ampia
fascia, che cominciò a non vedere più la possibilità di un’ascesa sociale, si
evidenziò una tendenza ad attaccarsi, anche se non in modo sempre chiaro, a
tutto ciò che avrebbe potuto cambiare quello stato di cose, producendo i germi
di un sempre vivo radicalismo. Soprattutto questa fascia sentiva forte il
dominio feudale, perché provava sulla propria pelle i danni che esso provocava
alla produzione e al commercio con l’usurpazione degli usi civici, con le
vessazioni e gli arbitri venali di quel tribunale, e vedeva nelle
liti col barone tutta la forza di quella prepotenza. Infine avvertiva il
peso della proprietà ecclesiale, di cui non faceva parte e che, servita a
sostenere il commercio, aveva fatto accumulare i beni in poche mani.
Non
in posizione molto distanziata c’erano i "bracciali"18,
una fetta della società che soffriva tutti i contraccolpi di un’economia
debole, e che viveva i problemi della classe con cui era a più diretto contatto
con reazioni spesso incontrollate e facilmente condizionabili.
15.
Vale la pena sottolineare che questo passaggio, che
comportò un peso non indifferente, avvenne mentre Solofra ne sopportava un
altro non meno gravoso, quello della costruzione della Collegiata.
16.
Questa caratteristica del periodo aragonese ma evidente fino al primo
Viceregno, era dovuta ad un facile passaggio dalla
condizione di "bracciale conciario" a quella di "artigiano della
pelle" (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit., pp. 87 e sgg.).
17.
Fin dalla fine del XVI secolo gli Orsini di Solofra si
introdussero da speculatori ed in posizione di prepotenza nelle attività locali
trasformandosi in feudatari-imprenditori.
Per
il patriziato solofrano la ormai consolidata dimora a Napoli, sempre legata con
intensi rapporti economici al luogo di origine anche
per quelli nati nella città, fu segno di distinzione e di successo sociale.
Oltre al gruppo forense, queste famiglie produssero anche letterati, medici e
studiosi, che costituirono la parte più aperta alle novità, quella che
cominciava ad avere una più ampia coscienza della ricchezza della cultura e più
chiari intendimenti politici. Da questa compagine emersero coloro
che furono più propensi a sostenere il feudatario, da cui erano
beneficiati e ai cui modi di vita si allinearono, interessati a mantenere lo statu
quo e restando chiusi nei limiti di piccoli interessi comunali19.
Essi apparvero come difensori dello stato di sfruttamento baronale la cui
incidenza, anche per il trasferimento dell’Orsini a Napoli, ebbe un incremento
sia sul versante dei tributi che su quello della
giustizia.
Intorno
al rapporto col feudatario si svilupparono, lungo tutto il Seicento, le
divisioni familiari, che misero in risalto una
ristretta visione della stessa dimensione economica, ma si sviluppò anche un
processo di maturazione di elementi che resistettero alle tentazioni di
accucciarsi comodamente sotto l’ala del feudatario e che tesero ad un
ridimensionamento del potere orsino.
Questa
realtà sociale seguì una parabola che si mosse in sintonia con la ricchezza
dell’area di cui faceva parte, soffrì, pertanto, dell’involuzione dei rapporti di produzione derivanti dall’arresto dello sviluppo
mercantile e manifatturiero del secondo periodo vicereale. In tali angustie la
società solofrana visse il brivido dell’esperienza masanelliana, che vide la partecipazione
dei "popolani che riuscirono a far approvare talune richieste", ma
anche acuì il "moto di ribellione" rimasto latente che andò ad
"alimentare una cellula di banditi" che trovava stanza tra le
montagne circostanti20, fino ad affogare nella crisi della grande peste, ancora una volta ritrovando nel dominio
baronale la fonte di una serie di contrasti21, che esplosero, poco
dopo, proprio per il peso feudale divenuto insopportabile. Forse fu la
vittoria, in quel moto, che rese l’Orsini più audace nel far valere con
violenza i propri interessi, e forse la comunità solofrana, nonostante la
sconfitta, volle continuare l’esperienza masanelliana, certo è che le
rivendicazioni sfociarono in un violento contrasto antifeudale che coinvolse -
tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII - tutta la popolazione in un
clima di feroce guerra civile che fu l’episodio più significativo,
e prettamente locale, di tutta la storia vicereale solofrana22.
L’episodio,
che esprime una feudalità insofferente verso l’espansione di un ceto più
autonomo e più capace di difendere i propri interessi,
mostra una maturazione della tendenza antifeudale solofrana. Il dato più
evidente dello scontro con l’Orsini è proprio quello di una società sensibile
ai problemi dell’economia e pronta a far valere le proprie ragioni, non
inattiva, che comprende che la strada delle rivendicazioni è sostenuta non solo
da ragioni meramente pratiche ma lucidamente razionali, ed ora anche dalla
riflessione dei suoi intellettuali23.
Esso
però mise anche in risalto come fosse facile far presa
su interessi personali e come questi potessero, in una società costretta a
stare in trincea e comunque legata all’effettività pratica, valere su più ampi
interessi sociali o estesi nel futuro. Il fatto poi che il patriziato delle
finanze - una ristretta oligarchia - , ancor più
arricchitosi con le riforme di Carlo III, riuscì a non perdere il controllo del
governo della Universitas, mentre la parte più ampia della comunità non riuscì,
nonostante i tentativi, a porre un freno a quella preponderanza, fece ancora
una volta apparire un fallimento quello che era sembrata una vittoria e fece
insinuare la convinzione che non si sarebbero potute cambiare facilmente
situazioni di comodo incancrenitesi nel tempo. Ed ancora, il fatto che
l’Orsini, sentito sempre più lontano, si circondasse di agenti
provenienti da queste famiglie, acuì un sordo rancore nei suoi riguardi tanto
che si giunse, nel 1782, persino ad un assalto al suo palazzo24.
Da
una parte si avvertiva la forza delle proprie ragioni dall’altra un senso di
fallimento, che però non sfociò in forme estreme. Che
in questo terreno si sia insinuato il mito della
"regalità" e della "legge protettrice", che dette inizio al
"faticoso avvio di un nuovo e superiore equilibrio della vita politica e
sociale" e che portò alla fine del "predominio
monarchico-nobiliare", come dice il Galasso, questo avvenne anche tra gli
intellettuali solofrani, che, finito il governo vicereale, sosterranno, come si
vedrà, il riformismo borbonico nel quale era sottinteso lo scalzamento della
feudalità25. D’altra parte, se questa scendeva a comportamenti come
quelli tenuti dall’Orsini a Solofra, appariva in
realtà fortemente scaduta: divenuta un "partito" che poteva poggiare
sul sostegno di quelli "della sua parte", che metteva in atto
comportamenti improntati ad una "logica tutta borghese" dove non
c’era distinzione tra il barone e quei borghesi che erano riusciti ad avere un
titolo nobiliare26.
19. Le analisi della politica
vicereale mettono in risalto il rifugio dei ceti borghesi locali in uno
stagnante statu quo, che favorì lo scadimento verso situazioni di comodo
per la mancanza di sostegno ai tentativi delle comunità meridionali nella lotta
antibaronale.
20. Ricca è questa esperienza
conclusasi con stragi a carico di solofrani tra cui il
"caporivoluzionario" Giuseppe Fusco, anche dopo la partecipazione ai
fatti di Ariano (Partium Collaterale, v.
21. Dopo la rivolta masanelliana si
formò a Solofra un’oligarchia di potere con la permanenza di alcune
famiglie nel governo della Universitas, resa possibile dal fatto che gli Eletti
e i Decurioni nominavano i loro successori in modo che i rappresentanti dei
casali fossero sempre dello stesso ceppo. Su questa situazione dominò la figura
infausta del feudatario, Domenico Orsini che si accaparrò una fetta non
indifferente delle gabelle oltre a diversi diritti sulla vendita dei prodotti,
rendendo impossibile ogni spinta di modernizzazione,
mentre la presenza di governatori ed di agenti feudali esosi, una vera longa
manus del feudatario sulle attività locali, fu ancora più perniciosa.
22. L’episodio vide schierato da una
parte la maggioranza della comunità capeggiata dal primicerio Giovan Sabato
Juliani (1651-1736) che subì prigionia ed esilio, dall’altra il feudatario
sostenuto da quella parte del patriziato mercantile solofrano che aveva
benefici dall’essere dalla parte del principe. La causa occasionale della
rivolta fu il tentativo dell’Orsini di controllare ancora più direttamente le
attività mercantili solofrane con lo spostamento del mercato nella piazza
antistante il suo palazzo e la stessa Collegiata
(cfr. A. Graziani, op. cit. ).
24. Cfr. A. Graziani, op. cit., p. 13.
26. Ibidem, pp. 209 e sgg. Le
famiglie solofrane che nel XVIII secolo avevano un titolo nobiliare furono,
oltre ai precedenti casi dei Fasano e dei Murena, un
ramo dei Maffei, dei Giannattasio, dei Garzilli.
Lungo
tutto il Settecento nella società solofrana si vide il
ceto più attivo attingere linfa, per sostenere l’antica tendenza ad una vita
più autonoma in opposizione alla feudalità, anche tra quelli che, come si
diceva, "vivevano nobilmente" o "vivevano
del suo" e che poggiavano questo vivere sulle attività mercantili e
finanziarie, possedendo a Solofra concerie e botteghe27, accanto ai
quali c’erano quelli che avevano spostato le loro attività artigianali nella
capitale28. La maturazione era legata al fatto che a Napoli molti
loro membri appartenevano a quel "ceto forense" che era diventato una forza autonoma più consapevole e di
schieramento moderato. Un ceto che non tradiva le sue origini
quando partecipava nella capitale alla lotta giurisdizionalistica,
quando contribuiva al rinnovamento culturale e quando lottava per proteggere le
energie economiche29.
Fin
dalla seconda metà del Seicento erano aumentati i solofrani che, dopo aver
avuto una iniziazione nelle scuole private locali - da
tempo espressione della sensibilità verso la cultura utile a chi esercitava la
mercatura30 - , si iscrivevano all’Università e che nel Settecento
subirono un considerevole aumento31. Costoro, presenti, si è visto, in ogni famiglia che poteva mandare un figlio a
scuola e non solo in quelle del ristretto patriziato, vivevano le esperienze
napoletane, e soprattutto conoscevano i programmi illuminati che affrontavano proprio
i problemi a loro vicini: quelli di una società tesa a far denari e ad
assurgere economicamente, interessata alla liberazione dai vincoli feudali,
alle questioni locali, alla libertà dei commerci, di una società che rifiutava
eccessive idealizzazioni ed aveva un particolare senso della cosa pubblica,
avendovi partecipato intensamente nel risolvere i problemi del "reggersi a
gabella"32.
27. Si tengono presenti in questa
parte i dati del Catasto onciario del 1754 (Archivio di Stato di Napoli, v.
4743-4746) che fotografa la società solofrana in senso sincronico e quelli
degli atti notarili (ASA, B6825 e sgg.) che permettono un’analisi diacronica.
Vale la pena considerare che a metà Settecento a Solofra erano
censiti 509 membri di 77 fuochi esercitanti le attività liberali, tutti con
impegni mercantili e finanziari e tutte famiglie più o meno direttamente
impiantate a Napoli, che intrattenevano rapporti commerciali con la terra di
origine, svolgendo in prima persona e concretamente tali attività. Si consideri
che la famiglia del giurista Giuseppe Maffei dichiarava
di impegnare nella mercatura una certa quantità di ducati, che il matematico e
cattedratico Felice Giannattasio faceva a Napoli da base alle attività
commerciali ed artigianali della sua famiglia di origine, e che in un
"fuoco" del ceppo dei Guarino, un ramo facente capo al
"battargento napoletano Orlando", c’erano quattro membri censiti con
la dicitura di "privilegiato napoletano".
28. Che l’attività artigianale dei
solofrani a Napoli fosse diffusa è dimostrata dal
fatto che in questo periodo esisteva nella città una strada detta dei
solofrani (cfr. N. D’Auria, Descrizione di Napoli, Napoli, 1956,
s.v.).
29. Cfr. G. Galasso, op. cit., pp. 221 e sgg.
30. Fin dall’inizio del
XVI secolo sono documentate a Solofra scuole private, tenute in genere dai
notai locali, ed una vera e propria scuola, autofinanziata dalle famiglie che
ne usufruivano, con programmi, orari e regole di comportamento e con un
insegnante appositamente stipendiato (ASA, B7706, 22r e B6522, 255r).
31. Si contano nella seconda metà del
XVII secolo 18 studenti universitari e nel secolo
seguente oltre 60 (cfr. F. Scandone, Documenti per la
storia dei comuni dell’Irpinia, Avellino, 1956, pp. 306 e sgg.).
32. Vale la pena sottolineare
che questa modalità di pagamento fiscale, da tempo adottata dalla comunità
solofrana, servì a creare un forte senso della partecipazione alla vita
comunitaria.
Gli
intellettuali solofrani a Napoli presero parte agli eventi culturali del
Settecento napoletano nel modo in cui questi potevano risolvere i problemi
economici, perché in essi fu sempre chiara la
coscienza di una essenziale preminenza - in un meridione in cui le attività
artigiano-mercantili boccheggiavano - di liberare cioè il commercio dai secolari
vincoli, anche di corruzione33, e di svecchiare le attività
artigianali con strumenti più efficienti.
Questa
problematica, che permeava il pensiero di una dimensione "concreta",
fece avvicinare molti solofrani-napoletani a Bartolomeo Intieri,
che nel suo salotto rifletteva proprio sul progresso dell’economia, e
all’insegnamento del salernitano Antonio Genovesi, che era sentito di casa per
la familiarità dei rapporti con tanti studenti locali. Non è un caso che
proprio a Napoli, dove questa problematica si faceva fortemente sentire, egli
ebbe una cattedra di economia politica, e non è un
caso che diversi solofrani furono molto vicini a lui quando discettava sulla
necessità di regolare i rapporti economici con le leggi della ragione, che non
erano quelle che fino ad allora avevano dominato l’economia meridionale.
D’altra parte il Genovesi, che conosceva i problemi
delle aree economicamente sensibili, come quella del salernitano, era troppo
vicino al pensare solofrano, da sempre alimentato dalla tensione di un vivere
migliore e più prospero, caratteristico delle società di questo tipo. Quando lo
stesso parlava della cultura, che doveva innalzare il tono dei bisogni e
favorire la produttività col miglioramento delle arti, non faceva altro che sottolineare una tendenza che da sempre aveva guidato la
vicenda economica solofrana. Anche la sua "cultura delle cose"
trovava riscontro in questa società che aveva teso sempre al "concreto", mentre le sue sottolineature sulla necessità
di "curare" coloro che lavorano, le sue analisi sui problemi
monetari, su quelli del denaro prestato ad interesse o della inflazione, tutto
questo faceva guardare con fiducia a lui e a quelli che operavano ed
auspicavano il miglioramento della parte più importante e, fino allora, più
abbandonata della società. Era, come dire, un apostolo dei problemi solofrani,
perciò fu amico di tanti che a Napoli lo frequentavano, non solo per averlo
avuto come maestro o compagno di studi.
Anche
in Gaetano Filangieri, pure lui collega ed amico di tanti solofrani, si
trovavano idee comuni contro i privilegi e il dispotismo e contro la corruzione
dei costumi, in favore di un governo basato sulle leggi; ed anche in Ferdinando
Galiani, che portò l’interesse per le cose che
venivano dalla Francia, i suoi amici solofrani vedevano colui che affrontava
problemi vicini alla loro realtà.
Questi
tre spiriti dell’Illuminismo napoletano erano dunque seguiti, sia attraverso il
filtro degli intellettuali locali sia direttamente, da chi manteneva vivo il
tramite Solofra-Napoli, perché il loro pensiero rispondeva alle aspirazioni che
nessuno fino ad allora aveva ascoltato, in una
corrispondenza che anche se solo ideale già appariva reale.
Però,
per una sorta di inveterato senso di sfiducia, si
presentava alla coscienza comune il muro dell’immutabilità delle cose, gravava
la paura per le novità e per i cambiamenti troppo repentini, cui si
aggiungevano i pericoli dai quali si doveva difendere l’ambiente economico, che
è il "nervo scoperto" di una società debole, situazioni che favorivano
il moderatismo largamente diffuso negli strati più avanzati della società
solofrana. Una tendenza moderatamente attenta alle novità, che guardava senza
preclusione alle idee nuove ma rigettava un’adesione tout
court senza il vaglio del "tempo", in sintonia con la lotta tesa
alla soppressione dei diritti feudali e col bisogno di liberare le energie
economiche che il grosso ceto medio solofrano sentiva di avere. L’essere aperti
al nuovo era colorato da un fondo di diffidenza, formatasi per i fallimenti
della lunga lotta contro i pesi feudali - anche di semplicemente modificarli - , che erano un freno per le forze produttive. E ciò, da una
parte faceva sperare di cambiare le cose dal di
dentro, come si era sperato, nonostante i fallimenti o i piccoli passi di
talune riforme, e dall’altra faceva restare attaccati al
"particolare", che è la peculiarità di una comunità economica
condizionata da quel nervo scoperto, punto debole di un sistema debole. In
tutto questo, che non aveva quella l’idealità che pone in secondo piano ogni
altro movente e che sarebbe diventata giacobina, c’era in fondo, e restava ben
saldo, il movente dell’interesse economico da salvare, di quel
"tempo" che una rivoluzione moderata deve
tenere presente.
Se gli intellettuali solofrani che agirono nella Napoli
settecentesca aderirono pienamente a quel riformismo, lo fecero perché non
erano lontani dalla società mercantile che li aveva espressi, vi facevano
parte, vivevano tutti i suoi problemi, soprattutto avevano forte lo spirito "essenziale"
che la mercatura aveva stampato nel loro codice genetico. Essi furono
illuministi, come si vedrà, perché vedevano nelle
"idee nuove" dei benefici per le attività economiche, e perché il
rinnovamento significava sviluppo economico e ammodernamento. L’ispirazione di fondo fu, dunque, essenzialmente "pragmatica",
determinata da condizionamenti oggettivi, e con questo spirito si addentrarono
nei problemi della economia, sottolinearono "l’importanza dell’iniziativa
e della volontà politica" nel promuovere il progresso civile, la necessità
di rompere con la tradizione o operarono per l’avanzamento
matematico-scientifico. Una materialità ideale la loro, che prevaleva
nettamente sulla idealità astratta, e che era la
caratteristica preminente dell’illuminismo napoletano34.
33. La maggior parte di questa
società, direttamente o indirettamente, subiva più di tutto il dispotismo e la
corruzione che si irradiava da Montefusco dove tutto,
anche la giustizia, era mercato, sopportava il peso della milizia provinciale e
soprattutto quello dei banditi che rendevano insicure le strade del commercio.
34. Cfr. G. Galasso, op. cit., pp. 264 e sgg. Questo aspetto dell’illuminismo
napoletano, sottolineato dal Galasso, si trova in modo chiaro nelle espressioni
di pensiero della società solofrana.
Coloro
che, come si vedrà, furono animati dal bisogno di comprendere la realtà, di
capirla, pur se sfociarono in una superiore tensione morale, che superava il
terreno di quei condizionamenti, non si allontanarono dal "pensiero concreto",
e se furono impegnati civilmente li diresse sempre un principio non
sovvertitore, e se videro la loro attività come compito storico per la
rigenerazione del Mezzogiorno furono sempre convinti di poter modificare le
cose dall’interno.
In
questo senso anche nell’esperienza illuministica solofrana si può cogliere un
aspetto della definizione cuochiana di "rivoluzione passiva",
determinata cioè dall’impronta economica della società
in un sistema debole che permise di sfociare in un moderatismo pauroso e di
rifuggire da più radicali trasformazioni che avrebbero dovuto eliminare le
strutture esistenti, per cui, appena ci si rese conto che si stava imboccando
questa seconda strada, ci si fece indietro. Improntata ad un passivo distacco
fu anche l’atteggiamento di quella parte della società che avrebbe dovuto
essere rivoluzionaria, come si vedrà.
Capitolo secondo
Nel
delineare la partecipazione degli intellettuali solofrani al movimento
illuministico napoletano bisogna cominciare coll’individuare quelli che si
trovarono, e non in posizione secondaria, tra gli "incunaboli della nuova
cultura", di cui parla Croce, quella improntata
alla "ragione galileiana" e alla vita delle Accademie35. Ne avevano avuto un’opportunità per merito di Pier Francesco Orsini (1640-1730), il futuro papa
Benedetto XIII, che da feudatario36 stimolò nella sua seconda
patria, come chiamava Solofra, una nuova sensibilità letteraria con l’apertura,
nei saloni del suo palazzo solofrano, di un’Accademia di "amene
lettere"37, che affrontò questioni linguistiche e fece
conoscere tutta la poesia italiana, specie quella marinista e dell’Arcadia38.
Ad essa parteciparono il giureconsulto e poeta Nicola
Tura (senior)39, il medico e filosofo Traiano Maffei40, che fu promotore di cultura
nell’accademia dell’Orsini e in altre a Salerno e a Napoli, unendo a questa attività
anche una prettamente politica quando partecipò ad un tentativo di dar vita ad
un moto antispagnolo al tempo del vicerè Onatte; per suo tramite allora
penetrarono a Napoli, provenienti da Roma, "lettere scritti e
manifesti" contro gli Spagnoli41.
35. B. Croce, Storia del Regno di
Napoli, Napoli, 1958, pp. 171 e sgg. Vale la pena sottolineare
che anche nel Cinquecento ci furono solofrani che emersero nel campo culturale
come il filosofo, medico ed astronomo Camillo Maffei, un vero scienziato dell’epoca,
che, nell’opera Scala naturale overo Fantasia dolcissima, edita a
Venezia quattro volte, seguì l’aristotelismo della scuola padovana e che
sperimentò l’uso della musica nella cura di alcune malattie (cfr. M. De Maio, I
Maffei di Solofra, Solofra, 1997, pp. 17-20).
36. Pier Francesco Orsini era nato a
Gravina e fu feudatario di Solofra prima di rifiutare il titolo in favore del
fratello Domenico quando abbracciò l’ordine dei
domenicani.
37. Cfr. C. Minieri Riccio, Notizie
delle Accademie del Regno di Napoli, in ASPN, II,
p. 310. L’Accademia, che fu istituita prima che l’Orsini vestisse l’abito
talare (1669), è una di quelle diffusesi nell’Italia meridionale per assorbire
il razionalismo dominante.
38. Un documento notarile del 1751 dà notizia dei libri contenuti nella biblioteca solofrana di
casa Vigilante, uno dei ceppi più sostanziosi della società solofrana che
svolse un ruolo di primo piano nella politica culturale locale anche nella
partecipazione all’Accademia orsiniana. Essi permettono di cogliere gli
argomenti trattati nell’Accademia che, in linea con i suoi scopi, erano di
natura preminentemente linguistica. Si inquadrano
nella querelle des anciens et des modernes, tesi a sottolineare
la "virilità dell’italiano" degno di poggiarsi alla lingua latina (da
testi di oratoria e di poesia greca e latina si va al Bembo, al Berni, ai
dialoghi dello Speroni a tutto il petrarchismo), ma anche a dare gli strumenti
per scrivere in versi e per parlare (dal Calepino alle Eleganze toscane e
latine, al Ruscelli, a testi di retorica, al Cannocchiale del
Tesauro, a rimari ed elucidari poetici); mentre coronano tali intenti le opere
di tutta la poesia italiana da Dante e Petrarca al Valla, al Boiardo e
Sannazzaro, alla poesia pastorale (il Guarini), ai marinisti (lo stesso Marini,
l’Achillini, il Micheli, il Fontanella, il Preti) ed agli antimarinisti, alla
poesia dialettale (il Cortese) e satirica (l’Abati, il Caporeale, l’Adimari),
al Tasso, all’Arcadia (il Metastasio, il Vacalerio), al Melosio.
39. Era nato nel 1612,
pubblicò a Napoli nel 1665 Aborti poetici (cfr. G. Didonato, Solofra nella tradizione e nella storia, III,
Messina, 1923, p. 209). Sostenitore dell’accademia dovette essere anche
Niccolò Tura (iunior), che fu maestro a Solofra
dell’Orsini.
40. Cfr. O Beltrano, op. cit., pp. 55-56.
41.Cfr. I. Fuidoro, Successi del
conte d’Onatte (1648-1653), Napoli, 1932, pp. 35-36.
Qui
si distinse Onofrio Giliberti (nato nel 1618) nella cui produzione,
che risente dell’influsso dell’Accademia, c’è un dramma Il vinto inferno da
Maria, dedicato nel 1660 proprio all’Orsini42, e c’è Il
convitato di pietra, che si inquadra nei
tentativi di rifacimento della drammatica spagnola di intonazione dongiovannesca
e che fu letto dal Goldoni, come lo stesso dice nella prefazione al suo Don
Giovanni43; mentre sull’astrologia e sull’astronomia, e
precedente a questa produzione, si ha un’altra sua opera, Le ruote
dell’Universo44.
Uno
studioso aperto alle novità, amico di quel Tommaso Cornelio attraverso cui entrarono a Napoli gli scritti di Cartesio, le idee di
Gassendi, quelle di Bacone e di Boyle, fu Gabriele Fasano (1645-1689)45 che,
erudito e fine letterato, frequentava il Valletta e il D’Andrea partecipando al
moto napoletano di stimolo verso "studi che davano la precedenza alle
scienze legate alla natura e la prevalenza alle cose pratiche"46.
Quando il D’Andrea sottolineava l’importanza del commercio
nello sviluppo della ricchezza aveva sotto gli occhi l’amico Fasano, la cui
famiglia a Napoli e nella natia Solofra aveva coniugato questo binomio
legandolo alla cultura, che il giurista non voleva più relegata nelle aule
scolastiche ma posta al vaglio della realtà. La stessa operazione letteraria
del Fasano - la traduzione in dialetto napoletano della Gerusalemme Liberata
- , che fu apprezzata dal Valletta e seguita dai
suoi amici toscani Francesco Redi e Lorenzo Magalotti47 e che si
muoveva nell’ampio filone della letteratura dialettale del Seicento, nasceva
dal bisogno culturale di considerare il dialetto come indicatore di una nuova
via, non in opposizione alla lingua e alla letteratura nazionale, il quale
vivrà "un’epoca d’oro" anticipando e preparando "la rinascita
dell’età dei Borboni"48. Nella sua opera il Fasano, che era
guidato dall’interesse storico di rappresentare nella parola dialettale costumi
e modi di sentire che non si sarebbero potuti esprimere altrimenti, mise in evidenza il valore e la capacità del vernacolo
napoletano di contendere col Tasso49.
42. Di questa produzione, sei volumi dati a stampa ma altri inediti, Benedetto Croce (Intorno
a Giacinto Andrea Cicognini e al Convitato di Pietra, estratto di
"Homenatge a Antoni Rubiò i lluch" miscellanea di studi letterari,
Barcellona, 1936, pp. 429-432) dice di aver letto il romanzo Il Cavalier
della rosa (v. Biblioteca Nazionale di Napoli, Catalogo dei libri
antichi e rari a cura di G. Dura, Napoli, 1857, p. 321), che è la
continuazione delle Gare de’ disperati di
Giovanni Ambrogio Marini, e Il vinto Inferno da Maria (Trani, Valeri,
1644), dedicato a Francesco Guarini, dandone un giudizio sostanzialmente
negativo. Altre sue opere sono una tragicommedia, Le stravaganze d’Amore e
d’Amicizia, Napoli, Beltrano, 1643 e una rappresentazione sacra Le meraviglie del S. Angelo custode, ovvero
Lo Schiavo del Demonio, Napoli, Savio (poi Bonis), 1662.
43. Cfr. B. Croce, Intorno..., cit., pp.
429-430. Croce, che ricercò invano l’opera "nelle biblioteche locali della
provincia d’Avellino e nella città natale del Giliberto",
dove per altro aveva "un parente", riferisce che il Quadrio nella sua
Storia e ragione di ogni poesia (III, I, 315) dice che fu stampato
"in Bologna, molte volte" e che "l’Allacci nota che la
rappresentazione era ‘in prosa’".
44. L’opera fu pubblicata per i tipi
di Savio nel 1646. Sulla scia di questi studi dice il Graziani (op. cit., pp. 17-18) osservò la cometa del dicembre del 1664.
Parlano di lui: N. Toppi, Sala Parrasio, Biblioteca Nazionale di Napoli,
XIV, A, 40-41; G. Didonato, op. cit., p. 147.
Enciclopedia Treccani, 13, p. 142.
45. Cfr. E. Malato, La
poesia dialettale napoletana, Napoli, 1960; C. Celano, Notizie del bello
dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1859; O. Caputo, Sacerdoti
salernitani, Salerno, 1981, pp. 96-97; G. Didonato, op. cit., pp. 127-128; Enciclopedia Treccani, 24, p. 253. Il
Fasano, nato a Solofra da Alessandro e Livia Murena nel
luglio del 1645 risiedette tra Napoli, dove fece parte di diverse
accademie tra cui quella degli Investiganti, e Vietri, dove la famiglia godeva
le rendite e la gestione della chiesa di S. Maria e dove morì.
46. Cfr. B. Croce, Storia ..., cit., p. 189;
N. Cortese, F. D’Andrea e la rinascenza filosofica
in Napoli nella seconda metà del sec XVII, Napoli, 1923; S. Mastellone, Francesco
D’Andrea politico e giurista, Firenze, 1969. .
47. Cfr. B. Croce, Noterelle e
appunti di Storia civile letteraria napoletana del seicento in ASPN, 1925,
pp.. 23 e sgg. Il Redi, che tra i suoi interessi aveva
anche studi sul dialetto, parlerà dell’opera del Fasano in due lettere al
Magalotti in cui espresse il suo apprezzamento per l’opera che, ancora in
minuta, il Fasano gli aveva inviato affermando "senza di lui non sarò
arrivato alla più profonda cognizione di molte finezze e proprietà [della
lingua napoletana]". Lo stesso citerà poi nel suo Bacco in Toscana
l’amico napoletano-solofrano.
48. Cfr. A. Quondam, Dal manierismo
al barocco in Storia di Napoli, Napoli, 1970, pp. 337 e sgg.; D. Scarfoglio, Nazione e popolo
nella questione del dialetto a Napoli nel secondo settecento in L. Serio, Risposta
al Dialetto Nnapoletano dell’Abate Galiani, Napoli, 1982, pp.
26-28.
49. L’opera, che è impreziosita da
note in cui è spiegata l’origine di diversi e particolari termini napoletani,
ha per titolo Lo Tasso napoletano e fu
pubblicata nel 1689 per i tipi del Raillard ed ebbe molte riedizioni tra cui
l’ultima nel 1983. Un’ampia analisi dell’opera è in M. De Maio, Gabriele Fasano
e Lo Tasso napoletano, in "Riscontri",
n. 3-4, 1999, pp. 31-51.
Ed
ancora bisogna citare il pittore Francesco Guarini (1611-1654)50, che
lavorò a Napoli nella bottega del Ribera e dello Stanzione - quindi subì
l’influsso del Caravaggio - proprio per uscire dalle pastoie della scuola ed
indirizzarsi verso una più esatta osservazione naturalistica -
"naturalismo di vena popolare" il suo - , e
che nelle sue tele pose la medesima rivoluzione operata da quegli artisti. Il
Guarini a Napoli non era uno sprovveduto, già suo padre Tommaso, autore del
cassettonato della Collegiata di San Michele
Arcangelo, aveva manifestato "stimoli e influssi toscani" prendendo
ad esempio un tipo di soffittatura che da Firenze si era diffuso in tutti gli
edifici religiosi del meridione dal tardo Cinquecento in poi51.
50. Cfr. M.
Grieco, Francesco Guarini da Solofra nella pittura napoletana del ’600, Avellino, 1963; L. Landolfi, Dei dipinti e
della vita di Francesco Guarini da Solofra in Scritti vari, I,
Napoli, 1886; D. De Dominici, Vita dei pittori scultori ed architetti
napoletani, Napoli, 1742-1745; R. Causa, La madonna nella pittura del ’600 a Napoli, Napoli, 1954.
51. La soffittatura di Solofra rievoca
"maggiormente il tipo vasariano di Palazzo vecchio" e al Vasari, che fu a Napoli, Tommaso si ispirò pure nelle
"lunghe figure serpentinate" e nella visione dello sfondo (cfr. C.
Volontieri, Giotommaso Guarino, il Vasari del sud,
"Il Campanile", nov. 1982, p. 3).
A
Solofra giungevano non pochi echi della scuola napoletana, figlia
del razionalismo cartesiano, anche nella forma dell’opposizione o in quella di
una moderata equidistanza, non immune dalla mentalità che Cartesio aveva
portato a Napoli, e che dette inizio ai tempi nuovi dell’Illuminismo
napoletano.
Tra
coloro che respirarono questa nuova aria e che riuscirono ad immergere la
mentalità cartesiana in quella napoletana ci fu Giuseppe Maffei (1728-1812)52,
appartenente ad una di quelle famiglie che avevano contribuito a tenere stretti
i legami con Solofra, e che nella Napoli del Settecento ricopriva un ruolo
importante nei gangli della nuova aristocrazia. Frequentatore dell’Accademia
degli Oziosi nella casa napoletana del suo amico
Niccolò Maria Salerno53, si era formato alla scuola di Pasquale
Cirillo e del Vico. Seguendo il filosofo napoletano il Maffei trovò nel
cartesianesimo uno stimolo alla riflessione e al superamento di quel metodo,
nella conquista del mondo della storia. Col rigoroso processo proprio della
ragione, che era la ricchezza del cartesianesimo che neanche il Vico
disprezzava, il Maffei, nell’applicare l’insegnamento vichiano, si volse al
passato, correggendo il pessimismo in cui la nuova filosofia lo avvolgeva. Attraverso il percorso delle istituzioni civili del Meridione,
indagate nella sua opera maggiore54, il Maffei scese nelle pieghe
più genuine del vivere alla ricerca, nei "fatti", della
ragione delle leggi, una "ratio" dell’ordine sociale. La sua fu
un’indagine nelle stratificazioni del comportamento umano e nelle articolazioni
del costume, avendo ben chiaro il senso della complessità e della dinamicità
dei fenomeni umani, per individuare elementi comuni e strutturali utili a spiegare
gli istituti giuridici della società, e a dare un contributo ad una
rifondazione giuridica e teorica dell’"auctoritas". Con lui la
"giurisprudenza storica", divenuta investigatrice, da una parte
evitava il pericolo di travisare, con la perdita della prospettiva storica, le
istituzioni del passato, dall’altra era tesa ad individuare modalità di interpretazione della realtà napoletana da cui dedurre i
mezzi per l’azione riformatrice. Uno spirito "riformatore", dunque,
il suo, improntato al concetto che l’uomo, nel cambiamento, deve agire, non
spinto da irrazionali mode innovative ma aderendo alla
realtà in cui si trova. Questo, tradotto in termini contingenti, significava
che, date le peculiarità del Regno di Napoli, che non erano
quelle francesi, non era "congeniale" al napoletano chiedere la
caduta della monarchia. L’analisi del Maffei sull’origine dei feudi55
portava avanti, da una parte, la polemica antibaronale, sostenendo di risolvere
il problema feudale per gradi, perché i baroni del suo tempo non erano il
baronaggio che aveva procurato i danni del passato, dall’altra, indagava il
fondamento storico della sovranità feudale di Roma su Napoli, affrontando il
complicato problema del rapporto con la sede pontificia.
Era
uomo del suo tempo anche quando sceglieva il latino per la sua dissertazione,
perché questo esprimeva quel bisogno, da più parti sentito, e proprio del
riformismo napoletano, di andare alle "migliori fonti" della lingua
di Roma, e perché evidenziava quell’amore per la pagina scritta che non
conosceva "la giurisprudenza pratica" del suo tempo. Il Maffei - colui che "disimpegna[va] gli affari collo scrivere
piuttosto che coll’arringa"56 - sentì infatti, come magistrato
e insegnante, tutto lo spessore politico e civile del suo impegno, teso ad
incidere sulla realtà del suo tempo. Come professore all’Università57
e di una scuola privata58, partecipò al processo di rinnovamento,
che si era innescato a Napoli, in una posizione riformista, che mise in evidenza, soprattutto quando fu Censore dei libri,
dando la possibilità a molti studi che venivano dalla Francia rivoluzionaria di
avere accesso in Napoli; poi quando collaborò alla riforma dell’Università, di
cui fu rettore59; e quando aderì al fervore di studi e di idee che
precedette il ’99. Per questo subì la carcerazione, durante l’opera repressiva
dopo la scoperta della prima congiura giacobina nel 1794, e la chiusura della
scuola privata, prima della fuga del re60.
52. Cfr. L. Giustiniani, Memorie
istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli, 1787, pp.
201-202; M. De Maio, I Maffei..., cit., pp. 24-33.
53. Cfr. L.
Giustiniani, Breve contezza delle Accademie del Regno di Napoli, Napoli,
1801, p. 62.
54. L’opera, che raccoglie il frutto
degli studi del Maffei, è Istitutionis Juris civilis Neapolitanorum, Napoli,
edita nel 1784 (poi nel 1792) presso Bisogno, di cui disse il "Giornale
Enciclopedico" nel 1785: "un eccellente
lavoro di giureconsulto che professa la vera e non simulata filosofia" (p.
79).
55. Per questo aspetto
indagato dal Maffei v. A. Rinaldi, Dei primi feudi nell’Italia meridionale,
Napoli, 1886, cap. 1.
56. Cfr. L. Giustiniani, Memorie..., cit.
57. Cominciò ad insegnare
all’Università nella cattedra di "Istituzioni civili seconda"
(1761-1776), poi di "Istituzioni civili
prima" (1776-1777), quindi di "Diritto del Regno di Napoli"
(1777-1782) e di "Primaria mattutina o Codice e Novelle" (1782-1785),
infine di "Diritto civile o Pandette" (1785-1811) (cfr. R. Trifone, L’Università degli Studi di Napoli dalla fondazione
ai giorni nostri, Napoli, 1956, pp. 87-89).
58. Tutti gli autori che parlano di
lui sono concordi nel sottolineare la fama della sua scuola privata.
59. Cfr. A. Amoddeo,
L’Università degli studi di Napoli, Napoli, 1972, p. 23. Fu
rettore dal 1792.
60. Cfr. T. Pedio, La
congiura giacobina del 1794 nel regno di Napoli. Il Maffei risulta nell’elenco dei congiurati del 1794. Dice l’autore:
"Questo elenco in ordine alfabetico ricavato dal
citato Indice dei processi dell'inquisizione dei rei di stato dal
Non
meno importante è la figura di Massimiliano Murena (1728-1781), che fu tra coloro che
si riconoscevano nelle strutture esistenti della corona e della religione,
pensando di trasformarle con una mediazione tra le istanze
tradizionali e quelle modernizzanti61. Come "offiziale della
real segreteria di Stato di Giustizia e Grazia di Ferdinando IV", scrisse
una Vita di Roberto re di Napoli, un libro storico che risentiva dei
tempi nuovi, in cui vichianamente affermava di aver scelto un argomento
esemplare, utile "pel governamento comune della
vita civile" per toglierla dall’oscurità "de’ fatti passati", e
di volerla scrivere "scevra da ogni riguardo", secondo "la
felice franchezza de’ nostri giorni e i chiarissimi lumi della moderna
letteratura"; e perché in quel "tempo prosperoso" la figura del
re angioino richiamava il "re nazionale" che "ci
signoreggia e governa con santa mano"62. Nell’opera però anche sottolineava, non dimenticando lo stato in cui versava il
meridione, che i principi devono "sacrificare le proprie passioni
all’utile dello Stato"63. Fu amico del
Genovesi con il quale condivise l’opposizione all’atteggiamento
antireligioso degli illuministi e la convinzione che la ragione non è contraria
alla religione, come pensavano tanti altri illuministi, avvertendo, dunque, il
problema del loro accordo, che affrontò in uno scritto in cui affermava che la
ragione è "ancella della divinità", creata da Dio nell’uomo che è
"animale ragionevole"64. Da giurista si pose il problema
dell’origine della legge che regola gli atti umani, indice
dell’aspirazione ad uno stato di diritto, affrontandolo in due scritti65,
in cui sostenne l’esistenza di un diritto naturale, razionale ed anteriore ad ogni
organizzazione politico-giuridica. L’impostazione meramente giusnaturalistica
era inquadrata in una visione religiosa, infatti, diceva il
Murena, la legge naturale è creata da Dio e dipende solo dalla ragione,
che è in grado di conoscerla e di seguirla. Il diritto naturale è, dunque, una
questione di ragione; la giustizia è "legge" della ragione e
"basta che sia palesata" da essa "per
obbligare l’uomo"66. Dipendendo solo dal suo creatore la
ragione umana è "libera" e "autonoma", e libertà e
autonomia sono condizioni indispensabili per ogni progresso umano. Tale
problema lo portò a cimentarsi con il padre del giusnaturalismo, Ugo Grozio -
uno degli autori del Vico - di cui condivise la proposizione che il diritto
naturale è legge vitale e primordiale dell’uomo,
scolpita nel suo cuore, ma non la tendenza del pensatore fiammingo a separare i
due elementi: "legge di natura" e "legge divina"; e con
l’illuminista tedesco Samuel Pufendorf del De jure naturae et gentium (1672),
di cui recepì il concetto che le società civili poggiano su convenzioni, che
non possono essere in opposizione col diritto naturale. Non fu d’accordo,
invece, con gli estremi esponenti di questa corrente, quando affermavano il
distacco dalla religione, perché, diceva il Murena,
tenendo presente Leibniz nel suo tentativo di fondare la giustizia nella natura
immutabile delle cose, che il diritto naturale è voluto da Dio, che è "il
Legislatore", ed è posto nell’uomo, che ne è l’oggetto, con la
ragione"67. Dunque dalla volontà di Dio nasce la legge, e
"con essa il buono, e l’uomo ha solo questa
volontà da seguire ed è in grado di farlo col solo strumento della
ragione"68. Sulla strada di un accesso a Dio per via di ragione
("della cui esistenza l’Uomo non è affatto in
dubbio, parte colla ragione del principio, e tutto colla relazione delle
cause" [...] "non solo la ragione ma li
sensi stessi convincono" della esistenza di Dio69), il Murena
affermava che "il dominio che ha Dio sopra dell’Uomo [...] nasce dalla ragione della sua origine", per cui l’ateo,
che "non conosce Dio, non si toglie dal suo dominio essendo legge
intrinseca che ve l’obbliga"; che "l’errore della sconoscenza di
Dio è volontario", infatti "ogni uomo di sana mente abbastanza lo
conosce co’ lumi naturali per mezzo della ragione"; che "chi non si
serve della ragione, pecca nella legge naturale e il peccato è
d’ingiustizia"; che "negare Dio" è "peccato contra
61.Apparteneva alla citata
famiglia impiantata a Solofra fin dal XV secolo, quando un ramo si stabilì a
Napoli dove svolse compiti a favore della Universitas (cfr. Archivium Montis
Verginis, CXI, 152). La famiglia solofrana fu dalla parte del feudatario,
perché suo erario, nella lotta di questi contro la comunità e fu amico e
protetto del marchese Faggianni. Scrisse un’orazione su Ferdinando IV e Maria
Carolina.
62. Op. cit.,
"L’autore al leggitore". L’opera fu pubblicata presso Giovanni
Gravier nel 1770, ricevendo l’autorizzazione regia e non quella dell’autorità
religiosa perché improntato alle idee del Giansenio.
63. Op. cit., p. 33.
64. Lo scritto del 1776 è Panegirico
della santissima religione cristiana cattolica pubblicato a Napoli nella
stamperia Raimondiana, in cui il Murena attacca
l’ateismo moderno.
65. La prima opera è La giustizia
naturale pubblicata nel 1761 nella "stamperia simoniana", che
ricevette, per gli argomenti affrontati, la "licenza de’
superiori" e l’"imprimatur" ecclesiale (v. Censure del
libro, pagine finali) ed in cui, nelle note "al leggitore"
(v. prime pagine), afferma che è stato spinto a riflettere su un argomento in
cui "antichi pagani o moderni eretici" "si sono discostati dalla
nostra religione". L’altra opera è Trattato
delle leggi dell’onore, pubblicata nel 1769 dal Raimondi. In entrambe il Murena conduce la sua argomentazione cercando nel
pensiero e negli eventi del passato una conferma al fondamento naturale
dell’ordine sociale.
66. La giustizia..., cit., pp. 20-21.
67. Ibidem, pp. 18-19. Il Murena è per taluni versi anche sulla linea di Samuel e
di Enrico Coccejo
68. Ibidem, p. 47.
69. Ibidem, p. 18.
70. Ibidem, pp. 34-35.
71. Ibidem, pp. 141-143, 147.
72. Ibidem, p. 8.
73. Ibidem, pp. 30 e sgg.
74. Ibidem, pp. 25-26.
75. Ibidem, p. 8.
76. Ibidem, pp. 235-236.
77. Ibidem, p. 37.
78. Ibidem, pp.149-172.
79. Trattato... cit., p. 8.
80. Ibidem, pp. 42-44, 48-51,
54. Significativamente il Murena si domanda: "Un
ministro di Stato, per un’ora appoggiato col gomito al suo tavolino, ben
meditando, e poscia conducendo un grand’affare; non s’acquista egli allora
molto più d’onore, che molti altri agitati per anni a specular casi volgari, e
a masticar prammatiche?" (p. 56).
81.Ibidem, pp. 62 e
66-69.
82. L’opera fu pubblicata a Napoli dai
fratelli Simoni nel 1766.
83. L’opera Dissertazione de’ doveri del Giudice fu pubblicata a Napoli dai
fratelli Simoni nel 1764.
Nella
Napoli delle riforme di Carlo III si trovò ad operare Costantino Vigilante (1685-1754) la cui formazione,
improntata ai tempi nuovi, si coglie nei libri della
sua biblioteca solofrana84 che lo mostrano uno spirito aperto ai
problemi del tempo, attento alle dispute, che vedevano la chiesa impegnata nei
problemi posti dai progressi della scienza85, e che, nel rapporto
tra ragione e religione, non accetta la chiusura dogmatica, apprezzando la
prima, che molto può sovvenire la seconda, per esempio quando l’aiuta a non
essere strumento di oppressione86. Egli riuscì, come tutta la non
minuta schiera del clero "illuminato", a
immettere linfa nuova nel ceto più potente della Napoli settecentesca, era,
infatti, confessore del re e della regina e faceva parte del gruppo che
circondava il Tanucci. Si mosse pertanto nell’equilibrio conservatore
instaurato dal Borbone, e dette il suo contributo a tutte le riforme attuate
nel campo ecclesiastico, convinto della necessità di porre un freno alla
potenza economica e politica del clero. Era conscio del nesso negativo tra
privilegio ecclesiastico e sviluppo economico e sociale, e della necessità di
un atteggiamento misurato, che, gradatamente, riducesse
l’eccessivo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e del numero dei
chierici, che da quel privilegio derivavano. Conosceva bene questo problema,
perché lo viveva nella sua terra d’origine dove si era prodotto un’elefantiasi
nel numero dei preti, non sempre legata a motivi vocazionali e religiosi87,
e sapeva la pericolosità di chi entrava nello stato ecclesiale senza
un’adeguata preparazione, e, ancor peggio, senza vocazione, impegnandosi in
questo senso.
Attraversò
la lotta anticlericale della Napoli del suo tempo - in un momento di ripresa di
quel movimento - , operando per sostenere il clima di
rinnovamento, teso ad eliminare la secolare dipendenza di Napoli dalla Chiesa
di Roma, comprendendo che la questione era un nodo essenziale per lo sviluppo
del Mezzogiorno, e sostenendo la necessità di una regolamentazione delle
materie ecclesiastiche da parte dello Stato. Aderiva dunque al clima di affermazione della nazione napoletana, ispirata al
principio dell’autonomia laica dello Stato. Non portò però mai il contrasto con
Roma e con il clero oltre un limite, e, quando questo si fece più forte per la
questione dell’Inquisizione, mise in atto una non facile opera di mediazione
tra il cardinale Spinelli, di cui era vicario, e il
re, riuscendo ad evitare, più volte, la sommossa popolare e la restaurazione di
quel Tribunale, ed operando per ridurre i rigori della censura sui libri.
Come
sacerdote e vescovo di Caiazzo si pose il problema dell’ignoranza delle
popolazioni, che le rendeva più facilmente oggetto
delle prevaricazioni e dei soprusi, e che faceva sì che il loro lavoro fosse
meno proficuo, operando nel senso di un’educazione della coscienza dei
contadini. Sottolineava i pericoli della povertà, come
causa di degrado morale e sociale e come conseguenza dell’appropriazione dei
frutti del lavoro da parte dei privilegiati. Affrontò anche la non facile
questione, che sentiva come storica e sociale, della necessità di dare un
sostegno all’attiva borghesia rurale della fertile terra di lavoro, dove si
avvertiva il problema dei beni feudali e la necessità di annullare gli
impedimenti alla libera espansione delle forze produttive, adoperandosi in
questo senso e ricorrendo persino all’arma della scomunica contro gli
oppositori delle sue riforme.
Lavorò,
inoltre, aiutato dal clima di generale rinnovamento, per liberare la religione
dalle forme di bigottismo esteriore e di cieco dommatismo, specie negli
ambienti di corte, dove predominava la superstizione, convinto che bisognava
combattere contro la religione che diventa dogma o sfocia nella magia. L’opera
di rinnovamento religioso e di riscoperta della genuinità del messaggio
cristiano non poteva, però, essere portata a termine se permaneva l’ignoranza
di una parte del clero, si adoperò, pertanto, per l’educazione di
"nuovi" sacerdoti, capaci di mettere in atto una nuova azione di evangelizzazione delle masse88.
Costantino
Vigilante portava a Solofra, nelle frequenti visite, questo suo aprirsi alle istanze dei tempi nuovi e questo suo immergerle nella
realtà, e portava la fiducia nell’autorità monarchica, che aveva acquistato
spessore con l’avvento di re Carlo.
Se
di rilievo furono questi tre rappresentanti dello spirito di rinnovamento del
Settecento napoletano, che facevano parte di quella aristocrazia
cittadina che si distingueva da quella baronale, e che sosteneva quel complesso
movimento di svolta di tutta la situazione napoletana, delineando un albeggiare
di nuovi ideali sul piano etico, politico e sociale, non meno importanti devono
considerarsi altri rappresentanti della società solofrana, che da varie
angolazioni e in diversi modi, parteciparono ai tempi nuovi, e che, pur se non
ben conosciuti, dettero un contributo nell’alimentare l’atmosfera di
rinnovamento che visse
84. Il Vigilante apparteneva
al citato ceppo solofrano, una vera forza della società locale. Laureato
in utroque jure, ebbe un’ampia educazione classica, si
interessò in modo preminente della Francia, nazione di cui studiò la
lingua e la storia, specie quella delle lotte religiose, approfondì i problemi
del Regno di Napoli, studiò medicina e geografia. Queste notizie e altre di
seguito sono dedotte dallo studio dei libri della sua biblioteca di Solofra, di cui fu redatto un inventario, lui vivente
(ASA, B6844, 147v-166r).
85. Seguì la polemica tra il cardinale
Bellarminio e il Foscari.
86. Seguì la vicenda
dell’abbazia di Portoreale, conobbe la filosofia del Seicento e Giordano
Bruno. Per queste ed altre notizie v. O. Caputo, I vescovi nati nella
diocesi di Salerno e Acerno, Salerno, 1982, pp. 353 e sgg.;
R. Ritzler-P. Sofrin, Hierarchia Catholica, V, p. 135; G. Didonato, op.
cit., pp.
209-211; Archivio Segreto Vaticano, Relazione ad limina, 1732; Id, Proc.
Dat., v.
87. Il catasto onciario (cit.)
denunzia una pronunciata presenza ecclesiale a Solofra di oltre cento
sacerdoti, 5 monasteri, 15 chiese, 21 benefici, 11 confraternite, 8 cappelle,
una mensa arcipretale ed una parrocchiale, due masse,
7 monti laici.
88. Mise in atto questa
opera insieme ad Alfonso Maria dei Liguori, che fu suo amico ed anche
suo ospite a Solofra, con la creazione dell’ordine dei Redentoristi (cfr. A.
Barthe, Sant’Alfonso de’ Liguori, Pagani, 1933;
A. Capecelatro, La vita di S. Alfonso Maria de Liguori, Roma, 1893).
Un
posto di prim’ordine occupò Felice Giannattasio (1759-1849)89, sacerdote
e studioso delle scienze matematiche. A Napoli frequentò l’Ignarra, e il Conforti, come lui giansenista per gli ideali di riforma
dello Stato. Fu allievo di Luca Giordano con cui approfondì vari problemi di
geometria, sostituendolo poi nella sua scuola. Ebbe modo di operare, sia
all’Università che in una scuola privata che gli dava
maggiore libertà, dove portò l’esperienza dei suoi viaggi in tutta Italia e
della sua amicizia col naturalista francese Daniel Daubenton, e dove, insieme
al Fregola, dette inizio ad un’ampia azione di diffusione della conoscenza di
Newton con la spiegazione dell’opera fondamentale della fisica classica Philosophiae
naturalis principia mathematica sia nella metodologia, che nella
descrizione della grande macchina del mondo. Legato agli approfondimenti da lui
condotti su Newton, nacque il suo studio sulle Sezioni coniche, che
indagava "la cagione del mirabile fenomeno delle curve della natura, le
orbite delle comete e le ellittiche traettorie", e che fu scritto "a
pro’ de’ giovinetti"90. Aveva quaranta
anni quando Napoli visse l’esperienza rivoluzionaria,
durante la quale subì i danni del sospetto e dell’isolamento vedendo anche la
chiusura della sua scuola.
89. Nacque in una famiglia di
commercianti e possidenti solofrani residenti a Napoli. Prima della rivoluzione
pubblicò Riflessioni sulla quadratura dell’iperbole e un Trattato
sulle Sezioni coniche (1791) e dei libri a servizio della sua scuola: Opuscoli
di nostra scuola e Tactionum per la soluzione
di problemi. Contribuì alla pubblicazione delle opere del Forte seguendo
una via diversa da quella percorsa dal Fontana, quella dell’Analisi elementare.
Ebbe i maggiori impegni nel periodo napoleonico quando
fu professore al Liceo del Salvatore (1806) ed ebbe la cattedra di
"Astronomia e di Sintesi sublime" (1812) e quella di "Meccanica
celeste" (cfr. G. Didonato, op. cit., pp.
137-141; V. Flauti, Elogio dell’abate Felice Giannattasio letto alla Reale
Accademia delle Scienze, Napoli, 1850).
90. Introduzione a Trattato... cit.
che risultò "il più completo trattato su
Newton", giungendo nel 1836 alla decima edizione.
Altro
cultore delle scienze precise fu il sacerdote Matteo Barbieri (1743-1789)91, che da
insegnante potette improntare i giovani alle nuove idee, specie quelle di
Giansenio, di cui fu seguace nella lotta antigesuitica che a Napoli ebbe
particolare virulenza, e nell’avversione all’uso della ragione nelle questioni
di fede, per le quali, diceva, vale la "memoria
della tradizione". Coerentemente a questo suo credo si impegnò
soprattutto nel far conoscere coloro che avevano partecipato allo sviluppo
delle scienze matematiche e filosofiche nel meridione, perché "chi sta al
buio va cercando luce", e per "produrre buon governo", diceva
nella prefazione.
Anche
gli studi di Marianna Vigilante - le scienze naturali, la fisica e
l’astronomia - dimostrano quanto fosse diffuso
l’interesse per le scienze nuove e quanto fosse importante l’impegno per la
loro conoscenza.
Tra
gli uomini nuovi del Settecento deve porsi Leonardo Santoro (1764-1853)93, che operò
nel campo della medicina come innovatore coraggioso delle tecniche della
chirurgia. Insieme a Bruno Amantea e ad Angelo Boccanera mise in atto una vera
rivoluzione, che dava dignità di scienza alla chirurgia spazzando completamente
l’alone di sospetto e di volgarità che l’avvolgeva tanto che ne
era stato abbandonato perfino l’insegnamento94. Contribuì col
suo operato al periodo più riformatore della seconda
metà del ’700 educando la generazione della rivoluzione alle nuove tecniche.
Vichianamente sentì il bisogno di dare un’impostazione storica alla sua opera e
lo fece mediante gli studi sugli strumenti chirurgici scoperti a Pompei e
l’interpretazione dei testi antichi. Ciò fece sì che le sue novità, non prive
del senso ottimistico proprio delle riforme, ebbero il sostegno della
disciplina e della operosità scientifica oltre ad
essere aperte alle esperienze che venivano da fuori, e naturalmente dalla
Francia. Proficuo fu il travaso di esperienze che da
quel paese venne a Napoli, specie tramite il medico Depuytren, di cui fu amico
e corrispondente. Nell’anno in cui scoppiò la rivoluzione pubblicò le Lezioni
di chirurgia del medico piemontese Bertrandi con note così estese da
costituire, esse sole, un vero trattato, operazione che legò la chirurgia
napoletana a quella piemontese. Anche se l’opera non fu portata a termine per
la rivoluzione, fu per molto tempo una guida insostituibile per tanti studenti,
che impararono a liberare gli antichi precetti dalla erudizione.
91. Fu professore alla Real Piaggeria e
autore di Notizie storiche dei matematici e filosofi del Regno di Napoli pubblicato
nel 1778 alla tipografia Mazzola (cfr. O. Caputo, Sacerdoti..., cit., pp. 26-27; F. Soria, Memorie
storico-critiche degli storici napoletani, tomo I, Napoli,
1781, pp. 60-61; P. Napoli-Signorelli, Vicende della cultura, Napoli,
1810; F. Scandone, Giacobini e sanfedisti in Irpinia, Avellino, 1956, p.
20 e n 4).
92. Cfr. G. Didonato, op. cit., p. 211. La
traduzione, arricchita con note, fu pubblicata per i tipi di Gaetano Raimondi a
Napoli.
93. Cfr. S. De Renzi, Elogio
Storico di Lionardo Santoro, Napoli, 1853; C. Conte, Gli stabilimenti di
beneficenza di Napoli, Napoli, 1884, p. 209; E. Sabatier, Medicina
operatoria, Napoli, 1822, tomo II, p. 169; F. Scandone, Giacobini..., cit., p. 21
n.3 ; R. Combes, Della medicina in Francia e in
Italia, Napoli, 1843, Appendice del traduttore napoletano, p.
94. Basti pensare che si arrivava a quei tempi all’eccesso che il medico dirigeva e
il cerusico procedeva manualmente.
Sulla
scia del Maffei e suo allievo fu Gaetano Giannattasio (1777-1842)95, che
divenne esperto di diritto amministrativo nella ricerca di uno strumento per coloro che devono governare tanto che i napoleonici lo
vorranno tra i loro collaboratori; dello stesso ceppo si ricorda l’avvocato
Francesco, che affrontò il problema della riforma del "lusso" del
secolo in un memoriale inviato a Carlo III, in cui si coglie la mentalità
retrograda, che divideva le persone per "ordini", e che attribuiva al
principe la felicità dei sudditi, ma si avverte anche un bisogno di cambiamento
di taluni comportamenti sentiti nella loro sproporzione96. Altri
giovani che vissero gli eventi rivoluzionari furono due rampolli di casa
Ronchi: il matematico Giovan Battista (1770-1840), che fu architetto ed
autore di varie invenzioni tecniche97, e il medico e chimico Maria
Salvatore, insegnante all’Università proprio nel decennio che va dalla
rivoluzione francese a quella napoletana98; e, del ceppo dei Fasano,
il fisico Tommaso, professore all’Università dal 1759 al 179799.
95. Cfr. G. Didonato, op. cit., pp.141-143; M.
Iannacchini, op. cit., pp. 279-281; F.
Scandone, Giacobini..., cit., p. 21 n 3.
96. Di questo solofrano si è
rintracciato solo uno scritto e cioè Memoriale a Sua
Maestà intorno alla riforma dello Stato o sia lusso del presente secolo, di
cui è supplicata
97. Cfr. G. Didonato, op. cit., pp. 189-205. Tra le invenzioni citate dal Didonato ci
sono un organetto che una ruota faceva entrare in funzione e un cronometro.
98. Era nato nel 1773. All’università
insegnò Medicina forense (1789-1799) e Chimica (1799-1805) (cfr. R. Trifone, op.
cit., p. 89).
99. Cfr. R. Trifone, op. cit., p. 89. Insegnava "Fisica sperimentale".
Non
mancano i sacerdoti - quel clero che fu una classe importante a Solofra - tra
cui vale la pena citare alcuni appartenenti all’antico ceppo dei Garzilli, che parteciparono direttamente o
indirettamente agli eventi di fine secolo, visto che uno di loro, Serafino, di
cui si dirà, fu tra i "rei di stato"100.
Abate era Niccolò Giliberti, del quale si ha
un’orazione recitata all’Accademia degli Oziosi, nella casa di quel Nicola
Maria Salerno frequentata da diversi solofrani, in cui fece una pungente satira
contro i "modi del secolo", quelli contro cui si muovevano i novatori101.
100. Da citare Taddeo
(1699-1761) che, mentre era vicario di Benevento, intervenne nel dissidio tra
Napoli e Roma (cfr. F. Garzilli, Vite religiose nella famiglia
Garzilli, Napoli, 1941, p. 23; O. Caputo, Sacerdoti..., cit., pp. 117-118); Nunziante
(1704-1731), filosofo e poeta (cfr. G. Didonato, op. cit., p.137); Carmine Filippo
(1727-1815), che durante i fatti rivoltosi era rettore a Napoli di S. Antonio
viennese (cfr. F. Garzilli, Vite..., cit., p.
40; O. Caputo, Sacerdoti..., cit., p. 113-114); Marco Pasquale (1728-1812), uomo di scienza e poeta,
autore di due drammi, Il Gaudio dei Pastori (Napoli, 1760) e Passione
di Gesù Cristo (Roma, 1766), e della traduzione del Telemaco
(cfr. G. Didonato, op. cit., p.131); un altro
Taddeo (1774-1848), matematico e allievo del Fregola, che come vescovo
partecipò ad una vertenza tra il re e la santa sede circa le limitazioni delle
ordinazioni sacerdotali, mentre nel ’99 fu nei moti insieme al cugino Serafino
(cfr. F. Garzilli, Vite..., cit., p. 122; M. De Bartolomeis, Storia di Salerno, sua archidiocesi e
Provincia di Principato Citeriore, Salerno, 1894, p. 94).
101. La satira,
intitolata Cerimonie moderne e pubblicata nel 1734, mette alla
berlina, le acconciature, gli inchini, i titoli e tutte le minute facezie del
vivere vuoto che il secolo combatteva.
Accanto
a questi solofrani bisogna citare i tanti che andavano a studiare a Napoli
frequentando le scuole, in cui "si leggevano e si commentavano le opere
più significative dell’Illuminismo napoletano e degli
scrittori dei tempi nuovi", che si scuotevano da tutto ciò che era
passivamente accolto e che venivano a contatto, spesso insieme alle loro
famiglie, col movimento giacobino, non ancora rivoluzionario e messo
all’indice, e in cui trovavano riscontri col moto antifeudale solofrano
soprattutto nel desiderio di abbattere le vecchie strutture. Colsero costoro,
in questo fervore, la collaborazione tra la monarchia e i riformatori,
soprattutto seguirono, perché interessati dalla realtà che avevano nella loro
terra, le innovazioni della regina Carolina, tese a svecchiare l’economia,
trovandosi concordi con tutto ciò che significava
trasformazione dell’antico regime. Parteciparono, insomma, al moto riformatore,
alcuni accettando la monarchia illuminata, altri sentendo l’insofferenza verso
ogni forma di sudditanza. È tutta una classe intellettuale che, se non ha
lasciato scritti, pure prese parte e visse questo
nuovo modo di sentire, comunque ebbe sentimenti riformatori, creando quella che
Croce chiama la "prima e fondamentale riforma" di "aver formato
se stessa"102, riforma che esportava nel paese natio dove aveva
ruoli dominanti.
102. Cfr. B. Croce, Storia..., cit., p. 198.
Capitolo terzo
La
realtà solofrana ebbe, dunque, tutta la possibilità di venire a contatto o di
accompagnare il focolaio di idee dell’Illuminismo
napoletano, che si sviluppava in un felice accordo tra istanze innovatrici e
realtà esistente, e che però si ruppe quando a Parigi scoppiò la rivoluzione,
perché anche a Napoli i reali, come tutti i principi illuminati, ebbero paura.
La regina Carolina, che aveva accolto a corte le logge massoniche, cambiò
atteggiamento, sia verso i riformisti che verso la
massoneria, lasciandosi trasportare da manifestazioni antifrancofone, e giunse
a perseguitare tutti coloro che avrebbero potuto introdurre in Napoli le novità
francesi, avviando una nuova politica che aggravò la situazione economica.
Si
diffuse una forte delusione che fece nascere, anche negli ambienti più
ossequienti, un atteggiamento ostile verso la monarchia, e fece colorare di
democrazia le idee riformatrici fino ad allora vissute
all’ombra della corona. Si cominciò ad avvertire il peso delle grettezze della
religione, si discussero i principi politici della Francia rivoluzionaria, si
aspirò all’uguaglianza e alla libertà, e naturalmente si affrontarono problemi
economici e sociali. La corrente riformista della massoneria si aprì a un numero maggiore di studenti e ad elementi
dell’artigianato, cui si aggiunsero anche alcuni feudatari103,
evoluzione favorita dal fatto che a Napoli molti erano in contatto con il
fervore proveniente sia dalle altre parti d’Italia che dalla Francia. I circoli
massonici si trasformarono in centri di diffusione di idee
più libertarie, in cui si delineava la realizzazione di una società più giusta
in opposizione alla monarchia.
La
rottura con la situazione precedente avvenne nei salotti napoletani - tra essi c’erano quelli di Giuseppe Maffei e di Leonardo Santoro
- dove si lavorò nell’illusione che la realizzazione di ciò che già era avvenuto
in Francia avrebbe potuto evitare a Napoli un bagno di sangue. Tra questi
salotti e l’Università il passo fu breve, qui infatti
si formarono gruppi di studenti con programmi di divulgazione giacobina, uno
dei quali, cui apparteneva il montorese Vincenzo Galiani104,
contribuì alla diffusione del giacobinismo in tutta l’area
montoro-sanseverinese105; e qui scoppiarono i primi tumulti che
provocarono una forte azione repressiva, che pose sotto controllo i professori,
e che giunse anche a diversi arresti tra cui quello di Giuseppe Maffei106.
103. Furono attente a questi eventi
due baronesse di Solofra, due Caracciolo, Maria Teresa, figlia di Marino
Francesco, principe di Avellino, e sposa di Filippo
Bernardo Orsini II, e Faustina, figlia di Giuseppe di Torella, sposa del loro
figlio Domenico, premorto al padre, e tutrice di Domenico IV Orsini, delle
quali la seconda venne denunziata per reità di stato nel 1795 (cfr. F. Scandone, Cronache del giacobinismo irpino, in "Atti
della Società Storica del Sannio", a. X, f. III, sett.-dic. 1932, pp. 114,
116).
104. Cfr. V.
Cannaviello, Giuseppe Cammarota e i martiri irpini, Avellino, 1900, p.
11.
105. Cfr. F.
Scandone, Il primo pioniere dell’idea liberale nel Mezzogiorno e i più
antichi patrioti calabresi, Napoli, 1924, p. 17. Quando fu scoperta
la congiura del ’94 furono trovate delle carte
compromettenti proprio a S. Severino.
106. Cfr. F.
Scandone, L’Università degli studi in Napoli nel’700, Santa Maria Capua
Vetere, 1927, p. 52. Il Maffei aveva sostenuto varie richieste di
professori e di studenti (p. 48).
Tra
i novatori che si convertirono alla rivoluzione, impegnandosi a fare nuovi
proseliti, ci furono - i documenti sono in questo caso avari107 -
alcuni solofrani che avevano anche dimora a Napoli: il
sacerdote Alessio Ardolino, coi fratelli artigiani e mercanti Gaetano e
Michele, e il figlio di quest’ultimo Biagio108; l’artigiano del
battiloro Nunzio Giannattasio, Carlo Grasso, un negoziante di pelli con
rapporti commerciali con
107. Diverse fonti forniscono i nomi
di queste persone con scarse notizie (cfr. "Rassegna
storica napoletana", 1935, III, pp. 60, 73, 75, 81, 87; Filiazioni dei
rei di Stato, p. 76). Altre notizie sono prese da documenti notarili
del periodo in esame alcuni dei quali sono posti in appendice.
108. La famiglia Ardolino svolgeva a
Solofra attività artigianali (sartore e scalpellino) e commerciava con Napoli
in pelli e generi vari.
109. La famiglia
Grasso, presente a Solofra fin dal XV secolo con proprietà e attività
artigiano-mercantili e membri impegnati nella gestione dell’Universitas, ebbe
nel XVIII secolo uomini di legge ed ecclesiastici.
110. La famiglia Trombone, di non
antico innesto, apparteneva al medio ceto solofrano.
111. Era un pugliese trasferitosi a
Solofra, dove si era imparentato con la famiglia Guarino.
112. Cfr. A.
Simioni, La congiura giacobina del
113. Era cugino del vescovo di
Marsiconovo, Paolo, e di Francesco, che nel 1790 si era imparentato con i
Santamaria-Amato di Napoli (cfr. F. Garzilli, Vite...,
cit., pp. 105 e sgg.).
114. Fu tra quelli che subito
abbracciarono la fede giacobina (cfr. Appendice, n. 30).
A
Solofra non mancavano elementi che davano sicuri segni di giacobinismo - era
stato inviato un corpo di fucilieri per controllare la zona115 - che
non era di recente formazione come alcuni frati del convento di S. Agostino116. Una cellula giacobina si era
formata a S. Agata117, che aveva più diretti rapporti con Montoro
per i molti legami anche parentali con famiglie di
quella zona118. Il collegamento più riguardevole fu con la cellula
giacobina solofrana, attraverso uno dei giacobini montoresi più convinti,
Vincenzo Galiani, la cui famiglia era imparentata con i Landolfi di Solofra tramite la di lui madre Saveria
Pepe119.
115. Era comandato da Gregorio
Trentacapilli (cfr. ASA, B7043, 143).
116. I padri agostiniani, tra cui il
solofrano Gio Francesco Ronca, all’atto della
costituzione della repubblica, dichiararono che essi erano "patrioti"
"già da sette anni addietro" (cfr. Appendice, n. 30).
117. S. Agata era un centro a forte
caratterizzazione artigiana con ferriere e concerie e con una situazione
sociale dominata da un ceto bracciantile e piccolo artigiano da cui si era
staccato un ramo accedendo al ceto civile, forte
economicamente anche rispetto al patriziato solofrano (dal catasto del 1754
risulta - Gennaro - avere un impegno in partite di mercanzie di 6000 ducati,
mentre a Solofra la cifra più alta si fermava a 2500 ducati). Proprio il nipote
di Gennaro, Nicolantonio, entrò nel ceto nobiliare non con la compera del
titolo ma sposando, nel 1761, la principessa Maddalena Orsini e creando un
nuovo ramo che si chiamò Maiorsini (cfr. ASA, B 6920, 437).
118. Dei rapporti parentali tra le
famiglie santagatine, ma anche solofrane, e quelle montoresi si trovano molte
tracce negli atti notarili.
119. Il Landolfi, che apparteneva ad
un ceppo importante del patriziato solofrano, di cui si è
detto, sposò Maddalena Pepe, figlia di un cugino di Saveria, Pasquale
(cfr. ASA, B4498, 46v), marito di Anna Garzilli di
Solofra (cfr. ASA, B7043, 143v).
Forte
fu la paura seguita ai primi arresti, e poi alla notizia che nelle repressioni
era incappato il Galiani, per cui molte persone furono
costrette ad allontanarsi - i Landolfi per esempio nel sanseverinese120
- , e si mise in azione una banda di briganti121, protetta da sicuri
rifugi sulle montagne di Solofra - tra il Pergola e il monte Garofalo - ,
comunque si diffuse o per lo meno si conobbe più ampiamente il movimento
giacobino.
120. Cfr. ASA, B4465, 104v. Anche i Galiani di Montoro fuggirono (cfr. ASA B 4499, 77v).
121. La comitiva di Solofra, guidata
da Carmine e Nicola Caraviello, era costituita da diversi disertori come i solofrani Nicola Santoro e Luca di Girolamo (cfr. F.
Scandone, Cronache...., cit., pp.115, 117).
Date
le già analizzate caratteristiche di questa società è facile individuare il
settore sociale in cui si propagarono le speranze giacobine e cioè tra quegli elementi del basso ceto artigiano che
attribuivano il loro stato a chi era riuscito ad emergere e che erano aperti a
qualsiasi cosa che avrebbe potuto portare al cambiamento. Ma c’erano anche i
"bracciali", che soffrivano l’oppressione delle prepotenze baronali e
borghesi, e che si adagiavano in una forma di acquiescenza,
aspettando l’ora della resa dei conti, e che quindi istintivamente sostennero
chi faceva prevedere che fosse venuta l’ora del riscatto, già manifestando
atteggiamenti proletari. È utile sottolineare questa
tendenza che si individua tra le masse lavoratrici di Solofra, che colorano la
loro partecipazione di un significato tutto legato alla lotta contro il
padrone. Si può cogliere infatti una larvata coscienza
della propria classe, che però non era ancora accompagnata dall’idea di lottare
per essa, nell’affermazione: "nui avimmo le braccia", di un operaio
nei riguardi del padrone, che, paventando gli esiti della repubblica, diceva
"ca se no (altrimenti) voi [operai] site muorti e noi [padroni] jammo
pezzenno". Si coglie qui però anche un certo passivo distacco, che
caratterizzò l’atteggiamento di parte del braccialarato, di chi non ha niente
da perdere e per questo si sente forte nei riguardi del padrone, contro la cui
rovina egli oppone le sue "braccia", offrendole magari ad un altro
padrone, che però ha il merito di averla fatta pagare
al primo122. Vale la pena a tal proposito considerare che l’area
solofrano-santagatina esprimerà in modo autonomo e forte, un secolo dopo, un
ben radicato movimento socialista123.
122. Cfr. Appendice, n. 29.
123. Introduzione
ad A. Famiglietti, I miei ricordi, a cura di Mimma De Maio, Solofra,
1989.
Diversa
fu la situazione degli appartenenti al ceto colto. Il dibattito che si era
svolto nella seconda metà del ’700 mostra la
consapevolezza di questo ceto circa la improrogabilità di più o meno radicali
cambiamenti, ma questi dovevano tendere a rafforzare l’autorità del re e a
colpire la feudalità con l’abolizione di alcuni privilegi, cosa che era in
linea con l’atteggiamento rivendicativo solofrano. La situazione, già allora
incerta su "come" si doveva "rinnovare" per i forti
interessi economici di questo ceto, divenne confusa quando
il re deluse le aspettative. Delusi furono proprio quei progressisti, come il
Maffei, che erano stati incoraggiati dalla corte sulla via delle proposte
riformatrici ed ora venivano incarcerati e guardati
con sospetto, o come il Giannattasio e il Santoro che videro bloccate innocue
attività di progresso scientifico. Questo ceto, per il fatto che la situazione
era stata presa in mano da elementi del ceto inferiore, colorandosi di
rivendicazioni di classe, fu subito antirivoluzionario. Pur tuttavia molti suoi
elementi si schierarono, senza preclusioni, affianco
dei novatori solofrano-napoletani, alcuni dei quali per altro appartenevano a
questo ceto.
Da
Napoli intanto giungevano le notizie delle misure preventive, poste in essere da re Ferdinando, e che ponevano in
difficoltà le persone più esposte, molte delle quali furono costrette a
ritirarsi nella terra di origine. Lo stesso Leonardo Santoro, che, come si è
visto, aveva rapporti di studio con un medico francese, fu costretto a
ritirarsi nella sua casa solofrana in attesa di tempi
migliori124, mentre il Giannattasio, che aveva un fratello vicario
vescovile a Bari, si ritirò presso il congiunto, e fu negli anni
prerivoluzionari lettore di geometria a Bari125. Solofra comunque fu tra quelle terre verso cui si volsero le
attenzioni della corona per via dell’attività mercantile, che diventava
pericolosa in un simile frangente, perciò stretta fu la vigilanza su coloro che
avevano più diretti contatti con Napoli, soprattutto i mercanti e i viaticali
che formavano l’anello di unione tra la capitale e questa zona dell’interno126.
124. Si coglie dalla lettura degli
atti notarili la presenza a Solofra di diversi solofrani-napoletani come, oltre
al Santoro, il Maffei, il Giannattasio ed altri.
125. Cfr. ASA, B6921, 78.
126. Ci sono dichiarazioni notarili
che parlano esplicitamente di "lunga amicizia" e di
"frequentazione mercantile" tra mercati napoletani e solofrani, per
distogliere il sospetto che questi contatti potessero essere di
altra origine (cfr. ASA, B7043, 5).
A
diffondere in questa situazione confusione e sconcerto fu la campagna di
propaganda antifrancese, messa in atto dal clero, che dagli altari tuonava
contro l’ateismo della rivoluzione francese in veglie di preghiera per il re e
per la sua opera in difesa della patria e di Dio. In tale clima fu facile, da
una parte aizzare gli animi, dall’altra abbandonarsi ad azioni vandaliche e di
ritorsione contro chi aveva avuto una qualche
dimestichezza con
La
lotta civile, che aveva - non meno di un secolo addietro - creato forti
contrasti nella società solofrana, ebbe una recrudescenza, e presto si formarono
due partiti: quello borbonico e quello repubblicano, quest’ultimo perseguitato
anche tra i non aderenti o semplicemente sospettati. L’azione di repressione fu
così capillare e diffusa che bastava un semplice sospetto per andare in galera
tanto che le carceri locali si riempirono di prigionieri128. Di questa ondata di arresti fu vittima il citato Ferdinando
Landolfi, che fu sospettato di complotto ("per alcune sue pretese
inquisizioni") con la famiglia Galiani di Montoro; sicuramente egli aveva
stipulato un contratto di matrimonio con Maddalena Pepe, parente del
giustiziato Vincenzo Galiani, per cui subì la reclusione nelle carceri del
castello di Solofra129, ed insieme a lui Donato Maffei, un montorese
di origine solofrana130.
A
Napoli Giuseppe Maffei, per lo spessore della sua personalità, riuscì ad essere
scarcerato, subì però, per il fatto che tutte le attività erano diventate
precarie specie quelle culturali, la chiusura della sua scuola privata131,
come si bloccarono sia l’impegno divulgativo di Leonardo Santoro che l’opera
didattica di Felice Giannattasio.
127. Cfr. ASA, B7029, 3.
128. Nell’agosto del 1798 risultavano rinchiusi nei castelli di Solofra, Montoro e San
Severino oltre un centinaio di sospettati (cfr. F. Scandone. Cronache..., pp. 110-119).
129. Cfr. ASA, B7043, 143v. Con lui
c’erano diversi mercanti e disertori solofrani.
130. Fin dal
XVI secolo un ramo dei Maffei di Solofra si era trasferito a Montoro,
mantenendo rapporti con il ceppo solofrano, che d’altra parte era abbastanza circoscritto.
131. Cfr. Raccolta di Disposizioni,
Ms.
In
questa situazione giunse, nel settembre del 1798, la leva "forzosa",
per difendere il napoletano dalle armi francesi, che vi si dirigevano dallo
Stato pontificio. Solofra vi partecipò con 50 "miliziotti", che
furono arruolati in pochi giorni132, che, pur se chiamati
"volontari", misero in atto diversi tentativi di evasione
o renitenza dando molto lavoro al governatore incaricato delle operazioni133.
Essi andarono a far parte dell’esercito col quale Ferdinando si avviò alla
volta di Roma.
132. Cfr. Appendice, n. 1. Il dispaccio arrivò a
Solofra il 2 settembre e fu letto dinanzi alla Collegiata dal governatore
Giacomo Imbellone alla presenza delle autorità amministrative e religiose, e
della popolazione, radunata al suono delle campane.
133. Cfr. ASA, B4486, 46r; B6941, 273v. Sia a Solofra che a Montoro ci furono
episodi di renitenza.
La notizia della sconfitta, unita all’indignazione per aver
visto le chiese "saccheggiate", per far fronte alle spese di guerra,
degli arredi sacri, dette voce alla politica antifrancese, che aveva inculcato
il timore verso le truppe dell’anticristo, che ora apparivano nella luce bieca
del demonio.
Da Napoli giungevano le notizie, quasi di prima mano, che non facevano che
aumentare il timore e l’insicurezza, che si tramutò in caos, sullo sfondo di
un’aperta delusione, quando si seppe della partenza del re verso
134. Il cambio durante il periodo
repubblicano arrivò anche al 70%. Vale la pena considerare che a Solofra era molto diffusa la fede di credito come dimostra una
tabella dell’Archivio storico del Banco di Napoli (D. De Marco, La vita
sociale a Napoli nel 700 nei documenti dell’Archivio Storico del Banco di
Napoli in "Giornale degli Economisti e Annali di Economia"
maggio-giugno, 1982, pp. 298-299).
Con
questo spirito fu accolta l’entrata dell’esercito francese
nel napoletano - gennaio 1799 - che portò alla diretta occupazione di
tutta la pianura napoletana con un raggio che non escludeva l’area
sanseverino-montorese, e che determinò la liberazione dai castelli della zona dei
prigionieri politici.
Accompagnata
da contrastanti sentimenti, iniziò l’opera di "democratizzazione"
delle province, che vide Solofra occupata
dall’esercito francese, ora chiamato "napoletano". Se
da una parte qui ci fu una focosa adesione alla prospettiva degli auspicati
cambiamenti, colorita di un forte senso di rivalsa, dall’altra fu nutrita una
moderata speranza, che ancora una volta ciò non sfociasse in un clamoroso e
dannoso fallimento. Quando la truppa, guidata da Eleuterio Ruggiero, giunse da Turci,
e "vi sostò alcuni giorni, prendendo possesso del palazzo
Orsini", e impiantando - il 26 gennaio - l’albero della libertà nella
piazza centrale, ci fu l’attivo concorso dei gruppi giacobini della
popolazione, guidati dal citato medico Antonio Garzilli135, alla
presenza di una folla in parte partecipe ed in parte attenta osservatrice in
attesa. La paura di rappresaglie e di violenze prese
soprattutto quelli che per il loro ufficio potevano configurarsi dalla parte
della corona, mentre ci furono coloro che, venuti meno i razionali steccati,
dettero sfogo ai sentimenti più contrastanti. Senza dubbio in questo
clima devono intendersi le "gesta" dei frati agostiniani che
"accolsero nelle loro sale il Ruggiero e i suoi
comandanti", abbandonandosi a comportamenti inconsulti136, e
"i brindisi non decenti" fatti durante un banchetto seguito alla
presa di possesso della municipalità solofrana137.
135. Cfr. Appendice, n.
136. Cfr. Appendice, n. 30.
137. Cfr. ASA, B6942, 187. Il
banchetto fu fatto nella casa degli eredi di Fabrizio
Grimaldi alla presenza del maggiore Iannuzzi.
In
questo clima a Solofra, che era entrata a far parte del Cantone del Volturno il
cui capoluogo era Avellino, si erano formate le "truppe della
municipalità", che, nella maggior parte, furono
costituite da elementi giacobini locali, che destituettero i precedenti
amministratori, formando la "municipalità" repubblicana, a dirigere
la quale furono messe persone di sicura fede giacobina, con una diffidenza ben
comprensibile, vista la presenza, nella vecchia amministrazione, dell’alto
patriziato locale di sicura fede monarchica138.
A
S. Agata, che fin dall’anno prima aveva ottenuto il distacco dall’Università di
Serino con un governo a sé, si formò spontaneamente una municipalità e fu
alzato l’albero della libertà. Qui non ci fu, come a Solofra, la
defenestrazione di un’amministrazione, che rappresentava il vecchio, ma una
sorta di continuità - lo stesso sindaco precedente fu uno della municipalità - , mettendo in evidenza la cellula rivoluzionaria che si era
formata in questo casale139.
138. È sintomatico il fatto che
all’atto della costituzione della municipalità i repubblicani vollero una
dichiarazione dell’antica fede giacobina di Antonio
Garzilli e di altri repubblicani (cfr. Appendice, n. 30). Nei documenti si individuano altri due cittadini appartenenti alla
municipalità solofrana, i mercanti Giuseppe Rossi e Saverio Barbieri (ibidem,
n. 2.).
139. Cfr. Appendice, nn. 7, 17, 35.
Le
notizie provenienti da Napoli, circa gli atti di clemenza dello
Championnet, e circa altri interventi negli ambienti di chiesa, che non furono
chiuse come si era detto nella campagna antifrancese, dettero inizio alla
ricerca, tra i preti nelle chiese, di qualche conciliazione tra le idee
francesi, che prima avevano combattuto, e quelle della tradizione, con
l’intento di calmare gli animi. Non mancavano però timori e diffidenze,
soprattutto perché i "democratizzatori", spesso
gente non capace, non facevano discorsi pacati, e spesso l’esaltazione
della libertà sfociava nell’esaltazione del più sfrenato arbitrio.
Intanto
la rivoluzione cominciò a mostrare il suo volto, mentre i cambiamenti sperati erano disordine, violenza e sopraffazione. Bastò poco per
far apparire le cose in una luce diversa, nella quale i francesi si mostravano
veri conquistatori, come quando, per esempio, si videro le distruzioni
arrecate, se pure al palazzo dell’Orsini, durante l’occupazione140.
Emersero tutte le contraddizioni di un modo di pensare che non era il napoletano, quando, per esempio, si videro i frati di
S. Agostino accogliere con feste e banchetti l’esercito dei
"liberatori" ed uno di essi gridare nelle strade che "voleva
ammogliarsi e voleva non una moglie ma due"141. Era un pensare
lontano ed estraneo, che non poteva far breccia in situazioni che conoscevano
la solidità dalla tradizione, un pensare che non aveva forza e che sapeva tanto
di un’altra sottomissione. Lo spirito conservatore della società solofrana
trovò modo di consolidarsi, soprattutto nel timore di diventare
"pezzenti"142.
Tra
le carenze subito avvertite ci fu quella di un
esercito non organizzato, come infatti era quello che da Solofra scese a
Montoro per "democratizzare" quelle contrade, e soprattutto che non
era finito il regime di gravami insopportabili, che invece aumentarono rendendo
ancora più pesante la siccità di cui soffrì tutta la zona, a cui si aggiunsero
gli atti di violenza e le predazioni nelle chiese, nelle case e nei campi,
fatti dalle stesse truppe e da briganti allo sbando, ma anche da "varie
persone di ogni età e condizione"143. Nei discorsi della gente
tali danni furono collegati alle notizie che giungevano da Pompei e da
Ercolano, dove i francesi avevano cominciato ad asportare tutto
indiscriminatamente, le cui rimostranze venivano
portate a Leonardo Santoro, che aveva studiato i pezzi rari della medicina
romana144.
140. Ibidem, n. 2.
141. Ibidem, n. 30.
142.
Ibidem, n. 29 dice un padrone: "se avimmo
un carlino, o c’è levato o ce lo mangiammo", mettendo in evidenza la paura
che dominava la parte più abbiente.
143.
Ibidem, n. 16.
144.
Cfr. S. De Renzi, op. cit.
Per
questi motivi, quando, a pochi giorni dalla costituzione della repubblica,
cominciarono ad arrivare notizie di insurrezioni, come
per esempio quella di Forino del 3 febbraio, il fermento fu forte; e mentre a
Solofra sembra che la situazione fosse saldamente in mano ai municipalisti,
anche perché la feudataria aveva permesso l’arruolamento di reclute per
l’esercito repubblicano145, a S. Agata si ebbe l’abbattimento
dell’albero della libertà146, a cui risposero vari centri del
montorese dove fu diffusa, proveniente da Montella, financo una lettera del re147.
Per
far fronte a questa situazione, di forte fermento e contrapposizione in una
zona di grande importanza per essere di raccordo con
Fu
in questa occasione che Saveria Pepe, madre del
Galiani, "partito il Carafa", scrisse da Napoli al fratello Giosuè,
che stava a Montoro, "che i liberali siano all’erta poiché se vi fosse
stato bisogno le truppe sarebbero tornate", lettera che, intercettata dai
realisti, portò all’uccisione di Giosuè insieme ai nipoti Gennaro e Tommaso150.
Questo
episodio sottolinea la situazione da guerra civile che
si viveva nelle campagne, dove si erano formate bande armate, che scorrazzavano
per le campagne, e che si nascondevano bene negli anfratti dei monti, e dove in
diversi paesi varie volte furono abbattuti gli alberi della libertà e poi
ripiantati. A S. Agata questo avvenne ancora una volta, a Solofra invece la
situazione fu più stabile, mentre all’imbocco della conca con la pianura
montorese, in località "chiusa" - nel marzo - si ebbe ancora uno
scontro con le truppe del Duca d’Andria, che fu a favore delle forze della
controrivoluzione, mettendo in moto naturalmente azioni di ritorsione151.
145. Cfr. F. Scandone, Cronache..., cit., p. 114.
146. Cfr. Appendice, n. 6. Dalle dichiarazioni notarili
si evince a S. Agata una maggiore animosità e più forti contrasti, infatti in esse si fecero i nomi dei giacobini e precise
accuse di "municipalismo".
147. Cfr. ASA, B4486, 56v-58r. La
dichiarazione riporta un testo, in cui il re afferma "che il dolore per la
partenza è stato grande", che è stato "tradito dalle truppe", e
aggiunge: "non credete che v’abbia
abbandonati"; e ancora che è "rinato più forte con poderosa armata
per mare e per terra con il soccorso dell’Imperatore", anche quello
"ottomano e altri sovrani", chiedendo "ai cari vassalli di
essere fedeli, di vivere cristianamente" e promettendo: "non sarete
più oppressi", "non vi sarà chi possa frangere le leggi".
148. Cfr. "Il Monitore", n.
11. Il Carafa nello scontro ebbe 2 morti e 4 feriti, mentre più pesanti furono
le perdite dei realisti, 24 caduti (cfr. F. Scandone, Cronache..., p. 118 e sgg.)
149. Cfr. F. Scandone, Cronache..., e Appendice,
n. 8.
150. Cfr. A. Colombo, Memorie di
Montoro, Napoli, 1882.
151. Cfr. ASA, B4465, 54v e B4499,
96v. Le dichiarazioni notarili parlano di "prime insorgenze" avvenute
ai primi di marzo, durante le quali Chiancarola divenne
una postazione utile per controllare la zona (cfr. ASA, B6942, 77).
Intanto
la notizia che il cardinale Ruffo con l’esercito borbonico saliva dalle
Calabrie mise in fermento i due schieramenti. Per prima entrarono in azione i
repubblicani, che si prepararono ad un’offensiva contro le truppe di realisti
per liberare la via delle Puglie, di questi fecero parte i
"municipalisti" santagatini, che disarmarono il paese requisendo
"80 fucili, armi bianche", e si diressero verso Avellino152,
altri, specie solofrani, andarono a Salerno, dove c’era un vascello inglese, a
sostenere l’attacco dei francesi153. Altri dell’opposto schieramento
seguirono il serinese Costantino de Filippis, ufficiale borbonico, che aiutato
dall’assenza degli elementi rivoluzionari più agguerriti potette dar vita al comando di mille uomini all’insurrezione
realista nei paesi della zona - dal 20 aprile - con l’abbattimento degli alberi
della libertà e la conseguente caduta di diverse municipalità. A S. Agata per
la quarta volta e definitivamente fu abbattuto l’albero nella notte del 28
aprile e il giorno seguente furono suonate le campane
a gloria154; non diversamente accadde a Solofra155.
Le
truppe realiste - dette di "massa cristiana" - erano distribuite tra
Serino e Montoro con varie postazioni e col grosso a Piazza di Pandola di
Montoro: a S. Agata c’era quella comandata da Mariano d’Arienzo, a Solofra, su
Turci, c’era il comandante Pasquale Ronca, a Montoro il colonnello Pasquale
Grimaldi, tutte persone del posto156.
Questa
era la situazione quando giunse la notizia
dell’avanzata di una colonna repubblicana ("una forte truppa di Francesi e
Patrioti") - quella guidata dal generale Matera - proveniente da Nocera.
Da Montoro fu richiesta - il primo maggio - tanto a Solofra che a S. Agata,
gente armata, per cui "furono suonate le campane
all’armi, si armò la popolazione: sacerdoti secolari e regolari, galantuomini e
plebei". Nella zona si ebbe sicuramente un primo scontro a Montoro, prima
della battaglia di S. Angelo di S. Severino (detta
anche di Forino), dove furono respinti "Francesi e Patrioti"
Forte
di questa presenza da Solofra partì - il 16 maggio - un gruppo di realisti,
agghindati con "nocche realiste ai cappelli", per abbattere gli
alberi della libertà nei casali di Serino, arrestare i municipalisti della
guardia civica, ed organizzare "compagni suonatori per servire la banda
della truppa realista"160.
152. Cfr. Appendice, n.
153. Cfr. ibidem, nn. 15, 24.
154. Cfr. ibidem, n. 9.
155. Ibidem, nn. 6, 37. Si pone in calce all’Appendice un raro
documento della "Repubblica Napoletana", datato 24 aprile, da cui si desume
che in quella data
156. ASA, B4499, 15r. La truppa
cristiana, schierata in diversi punti, aveva la base a Piazza di Pandola dove
confluivano i volontari e venivano requisiti i cavalli
per le truppe (cfr. B4499, 172r). V. anche Appendice, n. 14, 37. Un altro
comandante fu Gaetano Magnacervo.
157. Appendice, n. 19 e 14.
158. Ibidem, n. 3.
159. Cfr. P. Maresca, Il cavaliere Micheraux, ASPN, XXIX, p. 277. Furono lasciati
nelle mani degli avversari 4 cannoni 400 fucili e molte munizioni. Rimase a
Montoro un sergente Giovanni Pinanti appartenente al Real Reggimento borbonico
ed in contatto col generale borbonico Micheroux per
mezzo di un messaggero un certo Pousset.
160. Appendice, nn. 15, 38.
Questa
situazione mantenne il clima di terrore di tutte le guerre civili. Vale la pena
sottolineare la descrizione del "macello"
fatto negli scontri - sia quello di S. Angelo che quello di Monteforte - e
riportata in una dichiarazione notarile, in cui si parla di "decapitazione
di cadaveri", di "trasporto dei teschi" nel campo di Montoro a
dimostrazione dell’avvenuta strage, e di un "orecchio di un ufficiale
francese ucciso attaccato al cappello di un realista"161, che,
pure nell’esagerazione di questo tipo di dichiarazioni - sono esse stesse un
dato da considerare - , mettono in risalto il marasma che determinavano questi
scontri da guerra civile, che da entrambe le parti provocavano saccheggi e
distruzioni.
Le
municipalità del solofrano-montorese erano dunque cadute prima dell’arrivo del Ruffo: era bastata la notizia che delle "truppe
reali" stavano salendo verso la capitale per dare vita ad un movimento
controrivoluzionario, che, in effetti, era esistito fin dall’inizio. La ragione
è da ricercare nel fatto che i ceti artigiano-contadini
erano impauriti dei saccheggi e delle devastazioni delle truppe francesi e dei
vari repubblicani di turno162. La partecipazione massiva
alla controrivoluzione si inquadra benissimo nelle caratteristiche dei ceti
solofrani attenti agli interessi preminenti. Essi avrebbero accolto la
rivoluzione se questa si fosse mantenuta su binari moderati, ma ciò non poteva avvenire per un moto che aveva preso le
caratteristiche francesi. Nella empisse di una
rivoluzione non voluta, ma in parte accettata, si spiegano anche i cambi di
bandiera; nella confusione che la disorganizzazione generò si spiegano
l’esplodere degli odi e dei contrasti locali, il ricorso a rivalse, il sorgere
di piccoli interessi. Mentre gli errori della gestione
della rivoluzione e il passivo distacco con cui il movimento giacobino locale
fu accolto anche da quelli che avrebbero dovuto sostenerlo, se non altro per
comuni interessi, spiegano il suo isolamento.
Intanto
le azioni si spostarono verso Nocera e poi verso Napoli alle cui porte si
ebbero diversi scontri, a cui partecipò anche la truppa realista solofrana163.
La capitolazione di Napoli, che avvenne con un accordo che salvava sia i
francesi che i napoletani che avevano appoggiato la
repubblica, dette inizio ad una serie di arresti perché sia il Nelson che il
re, che nel frattempo era ritornato, non lo accettarono. Quelli
che non riuscirono e perdersi nelle maglie dei controlli o quelli che
credettero nella clemenza del re riempirono i Granili - la grossa costruzione
trasformata in carcere della repressione borbonica con detenuti in condizioni
disastrose - che furono conosciuti anche da alcuni solofrani. I
documenti danno un elenco di diverse persone164, mentre a Castel
Capuano e poi a Castel dell’Ovo fu carcerato il figlio del Maffei, Giacinto,
studente appena diciassettenne, trasferito poi a Gaeta165, e
"nella Real Fabrica nuova del Ponte della Maddalena" fu ristretto
Michele di Agnello166.
Anche
161. Ibidem, n. 11; ASA, B4499,
87r.
162. Ibidem, n.
163. Ibidem, n. 5. Tra i
solofrani c’era il capitano della truppa di massa Pasquale
Ronca col fratello sacerdote Francesco, morto nell’attacco della notte
tra il 13 e il 14. Nelle vicinanze di Napoli, "proprio nel fortino detto
Viglieja", morì anche Giuseppe Graziano (ibidem, n. 9).
164. Cfr. "Rassegna
storica napoletana", 1935, III, pp. 80, 73, 75, 81, 85, 87. Sono
alcuni dei giacobini solofrani di Napoli, di cui si è detto, e cioè Salvatore Papa, Michele d’Andri, Gaetano Trombone [o
Tribulone], Giuseppe Vigilante, Alessio Arduino e un negoziante di S. Agata,
Mizio De Maio.
165. Su questo arresto
Gaetano Rodinò, allievo del Maffei e anche lui arrestato, racconta un toccante
episodio, che mette in risalto la venerazione verso il professore, quando,
"in attesa del trasferimento a Gaeta", si trovò accanto al giovane,
legati "a due a due ad un’unica corda, il braccio sinistro dell’uno col
braccio destro dell’altro", riuscendo ad allentare il nodo troppo stretto
della corda del giovinetto, "grato al suo genitore" (cfr. G. Rodinò, Racconti storici narrati al figlio Aristide, in
ASPN, VI, 1881, p. 642).
166. Non era solofrano
ma sposato con Fortunata Ronca ed abitante a Solofra (cfr. Appendice, n.
12).
167. Cfr. C. De Nicola, Diario
napoletano, Napoli, 1854, pp. 380e segg.
168. Furono condannati dalla sentenza
n.16 in cui del Garzilli si dice: "figlio di
Massenzio ed Orsola Pandolfelli, 28 anni, statura piedi 5, polgate 6, giusta
corporatura, faccia lunga e bianca, alcuni segni di vaiolo, giusta barba e
negra, naso alquanto grosso, capelli, occhio e ciglio negri" (Filiazioni,
76).
169. Il 26 dicembre il Trombone chiese
che il sussidio per gli alimenti, concesso dal re ai rei di stato, decorresse
dal settembre e non dal dicembre, e nell’aprile del 1800 non ebbe
l’indulto (cfr. F. Scandone, Cronache..., cit.,
p. 117).
170. Di Gaetano si dice: "età 29, capello castagno, fronte grande, ciglio castagno,
occhio cervone, naso grosso, faccia tonda, altezza piedi 5, pulgate 2" (Filiazioni,
p. 11); di Michele: ha "43 anni ed è residente a Napoli da 9 anni" (Filiazione,
p. 22).
171. Cfr. "Amministrazione dei
beni dei rei di Stato", fascio 127, rubrica degli
indiziati di reità. V. pure ASA, B4465, 43v.
172. Cfr. F. Scandone, Cronache..., cit., p. 117.
Nelle
province la repressione avvenne ad opera dei
cosiddetti "visitatori di Stato", che nelle idee del Ruffo avrebbero
dovuto tentare una difficile opera di ricucitura e mettere tranquillità tra le
popolazioni, invece svolsero il compito di scovare i giacobini - "i nemici
del trono e dell’altare", come si diceva, - , e, poiché costoro erano
scappati o erano morti, essi furono, con il forte potere di disporre senza
appello della vita, dei beni e della libertà, il centro di vendette private, o
furono essi stessi soggetti di repressione, e potettero farlo perché aiutati in
genere da persone del posto, come dimostra l’episodio di due operai solofrani
che "durante l’inquisizione di stato, condotta da Carlo de Franchis",
si ribellarono ad un tentativo di estorsione da parte di uno scrivano locale173.
I collaboratori del visitatore Ludovici, a Solofra esiliarono o, come si
diceva, "sfrattarono" "dai reali confini" i già citati
Carlo Grasso e Antonio Garzilli174 e in alcuni casi furono così
severi da non concedere neanche l’indagine175.
173. Cfr. Appendice, n. 29.
174. Filiazioni, p. 3. Il
Grasso venne così descritto, quando il 1° agosto subì
l’esilio: "figlio di Felice e Angela Guarino, dell’età di anni 50 circa,
statura alta, corporatura robusta, capelli mischi bianchi e negri, barba
simile, cigli ed occhi castagni, barba rotonda, volto bianco e colorito".
Del Garzilli si dice: "figlio del fu Gabriele,
d’età anni
175. È il caso del sacerdote Basilio
Fasano che, essendo stato giudice di pace nel periodo repubblicano, fu
considerato "incapace di beneficio" (cfr. F. Scandone, Giacobini..., p. 117-118).
Non
si deve pensare che solo questo fu il contributo della
popolazione solofrana alla rivoluzione, perché molti furono coloro che persero
la vita negli scontri, altri "miliziotti" non ritornarono, inoltre
bisogna tenere presente i considerevoli danni, perché i beni delle persone
compromesse subirono saccheggi e incendi e le famiglie feroci persecuzioni
anche senza processi; spesso ci si faceva giustizia da sé, come successe ai fratelli
Carmine e Nicola Caraviello che subirono l’incendio della loro casa nel
novembre del ’99 da alcuni venuti al seguito della compagnia del Venuti176.
Diversi
documenti notarili, contenenti le dichiarazioni dei cittadini - l’atto serviva
di base per iniziare il processo che aveva una rapida procedura - che tentavano
di scagionare i sospettati o di accusare i nemici, mettono in risalto il clima di intimazione e di sorda guerra, fatta di atti legali, che
si respirò nei mesi immediatamente successivi la fine dell’esperienza
repubblicana. In essi si individuano chiaramente le
modalità, l’intimidazione, il ricatto, usati dai visitatori verso gli impauriti
plebei. Queste dichiarazioni sono però anche formidabili documenti di come fu vissuto il periodo postrivoluzionario. Si parlò di
"maledetta" o "pessima nazione", per
176. Cfr. Appendice, nn. 28, 31.
177. Cfr. tutti
gli atti notarili citati in questo tratto.
Quando
il 30 maggio del 1800 re Ferdinando, in seguito alla pace di Firenze, sospese i
giudizi dei "rei di Stato", permettendo agli esiliati ed agli
emigrati di tornare in patria, e le prigioni furono aperte, la situazione sociale
era profondamente compromessa; né la scomparsa dei documenti portò qualche
sollievo perché, se con tale pratica si vollero cancellare i fatti, essa
provocò altre sofferenze, poiché si impedì a chi aveva
sofferto il danno del sequestro dei beni di riaverli - successe al solofrano
Giuseppe Trombone - , e perché si potettero perpetrare altre ingiustizie,
soprusi e indebite appropriazioni.
Nel
marasma generale, sia del periodo repubblicano che di
quello della reazione, si fece piazza pulita delle risorse economiche di
Solofra - "il più ricco paese della provincia" si disse - che uscì
gravemente colpito avendo avuto il danno più alto. I finanziatori subirono
forti perdite, non solo per la distruzione delle loro fedi di credito nei
Banchi napoletani, quanto per la effettiva perdita di
intere partite di arrendamenti - "oltre cinquecentomila ducati" - che
furono letteralmente cancellate178.
Un
danno considerevole fu quello prodotto all’artigianato
del battiloro solofrano, che non potette più lavorare questo metallo perché da
Napoli, che aveva la privativa di questa arte, fu imposto - e questo da parte
degli stessi battiloro napoletani tra cui molti solofrani che formavano una
forte corporazione - che si lavorasse nelle botteghe solofrane solo l’argento179.
Fu la rovina dei battiloro solofrani che furono
costretti a chiudere le botteghe, a trasferirsi a Napoli o a Benevento. Questa
che era stata, dopo la concia, l’arte più rappresentativa solofrana, decadde
definitivamente, tanto che nel 1816 un membro solofrano della Società Economica
del Principato Ultra propose un progetto per risollevarne le sorti e che non
ebbe esito. A metà ottocento c’erano a Solofra poche botteghe che battevano
solo l’argento180.
Ancora
si perdette la lavorazione della pergamena, che prima della rivoluzione era
tanto fiorente da meritare la segnalazione del Galanti,
che indicava questa produzione come "più qualificante" della stessa
concia solofrana"181. Restava la concia, pur essa fortemente
ridotta, tanto che a metà Ottocento le botteghe che praticavano tale attività
erano solo una trentina rispetto alle oltre sessanta di un secolo prima182.
Ancora
un segno della situazione di stallo e di arretratezza,
che si visse dopo la rivoluzione, fu quella delle strade. Tra tutte basta
citare la vicenda della strada di Turci - quella che permetteva il fiorente
commercio con
Infine
bisogna citare il "prestito forzoso" che l’Universitas fu costretta a
contrarre nel settembre del 1799, con mutuo ad interesse scalare, per riparare
alle spese fatte per "sostenere le milizie di Ferdinando IV nella
riconquista del regno", un debito estinto soltanto nel 1834184.
Si
spiega così perché a Solofra lo spirito rivoluzionario covò sotto la cenere,
accogliendo le istanze rivendicative che provenivano
dalle zone più sensibili, tanto che in loco si formarono ben quattro vendite
carbonare che daranno un contributo non indifferente ai giorni della
rivoluzione carbonara185.
178. Cfr. V. Cannaviello, op. cit., p. 325. Gli atti notarili mettono
chiaramente in evidenza l’ampio mercato degli arrendamenti a cui
partecipavano i solofrani che riguardavano varie Universitas non solo delle provincie
del Principato Ultra e Citra ma anche del pugliese, del catanzarese e del
napoletano.
179. Appendice, nn. 25-26. Nei due atti i battiloro
solofrani-napoletani dichiararono che nelle botteghe solofrane da sempre si era
battuto oro ed argento. In ASA, B6834, 25r si ha notizia che i battiloro
solofrani-napoletani avevano il Monte delle "Centenare" [erano i
fogli di oro battuto] poggiato sulla Cappella di
Battiloro.
180. ASA, Reale Società Economica,
B1, f. 26. Nel progetto, dove si parla di una convenzione stipulata nel 1805
tra battitori di oro di Napoli e di Solofra ma non
messa mai in pratica, fino a che, con decreto del 1813, fu cancellata, e dove
si denunziano lotte ed ingordigie personali, viene proposta una convenzione per
far lavorare a Napoli l’oro e a Solofra l’argento. Si pensi che il Catasto
onciario solo cinquant’anni prima denunziava a Solofra
la presenza di 348 battiloro e battargento.
182. Il catasto onciario denunziava
solo a Solofra 600 conciatori e 65 concerie, oltre a 570 mercanti.
183. Cfr. ASA, Intendenza, nn.
3570-3594.
184 Cfr. ASA, B7029, 32r.
185. Cfr. V.
Cannaviello, Gli irpini nella Rivoluzione del 1820 e nella reazione,
Avellino, 1941. Le vendite furono "Filadelfi", "Figli di
Bradamante", "Oppressi e non vinti", "I difensori della
libertà", della quali uno degli organizzatori più accesi fu il figlio del
fisico Modestino Piemonte, rivoluzionario santagatino, Giosuè, un farmacista,
ed altri giacobini. Furono coinvolti nei moti 35 carbonari tra solofrani e
santagatini.
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Questo studio è pubblicato negli Atti del Convegno sulla Repubblica
napoletana tenutosi ad Avellino nel Novembre del 1999.
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Documenti
notarili riguardanti i fatti del 1799
1.
1798, settembre 2. Solofra. (ASA,
B
Lettura ed esecuzione del dispaccio reale per il
reclutamento di 50 "miliziotti".
[...]
A richiesta del sig. Giacomo Imbellone, attuale governatore e giudice della
Principale Corte di questo Stato unitamente con infraddetto Regio Giudice a
contratti e testimoni nel largo sistente avanti della Venerabile Collegiata S. Michele
Arcangelo abbiamo ritrovata radunata precedente il
solito suono delle campane quasi tutta la popolazione di questo Stato e tra
essa il sig. Sindaco Gennaro Pandolfelli e i suoi compagni eletti gli Decurioni
di questa Università componentino pubblico parlamento il rev. Capitolo della
detta Collegiata Chiesa di S. Michele arcangelo; gli Parrochi di S. Giuliano di
S. Andrea Apostolo; gli Priori delli Conventi di S.
Domenico di S. Agostino, il Guardiano delli Padri del Co0nvento di S. Francesco
di detto Stato ed esso don sig. Giacomo Imbellone asceso sopra di un pulpito
tenendo nelle sue mani un Dispaccio di Sua Maestà, Dio guardi, quale nel punto
dell’ora undici di detto giorno, avendo a me esibito in presenza di detta
Populazione per osservarlo se vi si conosceva apertura, viziatura, dolo o
inganno, ed avendolo visto, e rivisto e maturamente considerato, si è ritrovato
il Dispaccio suddetto intero, senz’apertura, dato vizio, o inganno, e dopo
d’essersi da me pubblicamente dimostrato alla populazione suddetta e
riconosciutosi benanche dalla medesima d’essersi dal detto sig. Governatore, e
Giudice fedelmente conversato, si è da me al suddetto sig. Governatore, e
Giudice restituito e dal medesimo dal pulpito stesso, e con ogni diligenza, ed
esattezza si è proceduto all’apertura del medesimo Regio Dispaccio, e con alta
sonora ed intelligibile voce alla lettura e pubblicazione del medesimo ordinata
di doversi procedere alla reclutazione di 50 miliziotti per doversi subito
conferire avanti al generale Gamby. A vista dunque di un tal venerato supremo
ordino di Sua Maestà, Dio guardi, dalli suddetti sig, Governatore, e Sindaco
con tutta la premura, vigilanza zelo si è dato
principio alla reclutazione delli cennati 50 miliziotti, giusta il prescritto
nel predetto Regio Dispaccio [...]. Presenti: Michele Scarano, giudice a
contratti; Giuseppe Tura, Basilio Landolfi, Soccorso Landolfi, testimoni.
2.
1799, marzo 12. (ASA, B 6941,
ff. 46 r e sgg).
Sopralluogo al Palazzo del duca Orsini per la
ricognizione dei danni arrecati e dei beni mobili asportati dalle truppe
municipaliste durante l’occupazione del Palazzo.
[...] A richiesta di Nicola
Grimaldi e Felice Antonio Fasano, erario di Filippo Orsini nostro Duca di
Gravina ci siamo conferiti nel Palazzo di detto Felice
Orsini e nelle case della Corte poste davanti al largo di S. Michele Arcangelo
giusta notori confini, dove gionti essi sig. Grimaldi e Felice Antonio Fasano
hanno spontaneamente asserito alla nostra presenza d’avere in detto Palazzo per
molti giorni abitati li passati Monicipalisti e Presidente di detto Stato di
Solofra colla di loro truppa di soldati, e volendo essi badare all’interesse di
detto Orsini hanno determinato di fare un notamento di tutto il che di mobile
da esso Palazzo è stato tolto, con che da noi, coll’assistenza e presenza di
Giuseppe Rossi, e Saverio Barbieri due dell’attuale Monicipalità di detto
Stato, essendosi dilingenziato il Palazzo suddetto stanza per stanza, tenendo
nelle mani, e sotto gli occhi il generale inventario di tutti gli mobili del
Palazzo suddetto fatto a 14 di marzo dell’anno 1790; al Palazzo istesso si sono
ritrovati mancantino mobili, cioè:
All’anticamera del quarto della Figlia Tiglia: la mascatura, e
la chiave, e si vede mezza porta schiodata con violenza.
Alla prima camera dopo il Teatro: la
mascatura, e chiave, sette specchi e quattro quadri.
Alla cappella: la chiave.
Alla seconda anticamera: due ovati di frutti di mare, e di pesci
con cornici indorate, ed intagliate di palmi due, e
mezzo.
Alla terza anticamera del quarto nobile: la mascatura della
porta, un zoccolo di ferro, il quadro di S. Maria
Maddalena di palmi tre, e quattro, con cornice negra sdragallata d’oro.
Al gabinetto: la mascatura.
Alla camera del letto: un quadro di Maria orante con cornice
negra quadro ovato della SS. Concezione con cornice indorata di palmi due, e
tre, ed un quadro di Maria Maddalena con cornice indorata, ed intagliata di
palmo uno, e mezzo.
Alla gallaria: la mascatura, e chiave, un
zoccolo di ferro, la vetrata del Palcone grande.
Alla camera prima dopo il passetto appresso alla gallaria: otto
scoppette di varia lunghezza con fucili, e guarnimenti di ottone
una di esse senza ponte.
Al secondo passetto: una cassetta di legno col suo vaso.
Al terzo passetto dopo la galleria: un
zoccolo di ferro, la chiave dello stipo, e la chiave della porta di pioppo.
Alla cucina delle donne: un
licchetto di ferro, che stava situato nella porticella, che introduce alla
loggia del giardino.
Alla detta loggia del giardino: due pietre alla cantarella:
la chiave d’ottone e due anelle di ferro.
Al primo camerino: la mascatura dello stipo.
Al terzo camerino: la baffettella.
Al quarto camerino: la baffettella, e la di lei porta rotta, e
caduta a terra.
Al camerino interno del quinto camerino:
una baffetta, e la chiave.
Al suppigno sopra al quarto nobile: il licchetto alla monachina,
che esisteva nella porta.
Al camerino di detto suppigno: la chiave e la porta scassata.
All’altro camerino dello stesso suppigno: la mascatura e la
chiave.
Alla seconda camera del quartino nuovo: il letto compito come sta descritto in detto generale inventario.
Alla porta della sala del quarto
dell’agente: la chiave, e il lampiere di legno.
Nell’anticamera della sala di detto
quarto: la grata di ferro alla porta, dopo essersi aperta con violenza e due
sfelze di damasco rosso.
Alla stanza di letto di detto
quarto: il candeliere d’ottone, e sua bendarda.
Alla stanza della cucina di detto
quarto: la chiave della porta e la chiave dello stipo.
Alla camera della guardiola: un lampiere,
un barile, la chiave dello stipo. Alla stanza a mano dritta di detta sala il lampiere di ferro.
Alla camera dove sta il caporale: la chiave, e la mascatura
della porta aperta con violenza, quattro tavole, e due scanni di legno di
letto, una veste di pagliaccio, una veste di cossino,
un lenzuolo di tela nuova, ed un altro lenzuolo di tela usata.
Al camerino interno: due lampieri di ferro.
Nella prima camera del guardaroba:
un involto di piombo, ed alcune strisce di piombo trafilato.
Nella quarta camera di detto
guardaroba: la sorbettiera di stagno, trombone di rame col suo sovro, due
cassarole ed un coverchio di rame, una frissola di rame, una cioccolattiera di rame, un
coppino di rame, tre coverchi di rame, due scumaroli di ferro ed uno di rame,
una lucerna di ferro, una grattuggia, una paletta di ferro, il coppino di rame
bianco, una saliera della lanterna di Genua.
Alla quinta stanza di detto guardaroba: aperta la porta piccola
con violenza dalla parte della scala segreta del quarto mobile, undici
bacchette di ferro grandi, e piccole, un ferro lungo per portiere d’arcuovo,
una bilancia con tastiera di rame usata, un lambicco rotto di rame vecchia, un
caccavo con la sua cocchiara, e maniche di ferro, due secchie per pozzo con
loro catene, e maniche di ferro, due conche di rame vecchia
inservibili, quattro langellotti di rame vecchio, un caldaio di rame
vecchia, una frissola di rame, un caldarotto col manico di ferro rotto, quattro
marmitte di rame vecchio, un forno di campagna di rame con ferri, una tiela di
rame col manico di ferro rotto, una caldaia di rame vecchia, quattro buccagli
di rame inservibili, uno mortarello di bronzo senza pistello, un gran capifuoco
di ferro, due altri ferri, due spiedi di ferro, una padella di ferro col suo
pomo di ottone, due marchi di ferro piccoli, tre fiori di ferro per palcone,
sei spade, sette pugnali, fucili di ferro ariata n. 4, fucili all’apruzzese n.
8, sei candelieri piccoli d’ottone. E croce d’ottone per
l’altare, scatola coverta di pelle rossa con maniglia e mascatura, scatola con
scettro di diaspro, un passavolante rotto e segato, una sega, ed uno
scalpello, uno spiedo grande, due scoppette vecchie, due carabini con tenieri e
fucili guagli, dieci canne di scoppette, due pistoli per avanti cavallo con
fucili alla spagnola alcuni granellini antichi inservibili, una scialba
vecchia.
E da detto Palazzo successivamente
siamo passati alla casa della Corte, e propriamente al quartiere di soldati seu
armieri, ed alle carceri, ed ivi abbiamo ritrovate le seguenti cosse
mancantino: Alle carceri: la catena di ferro di maglia 56 con due canali anche
di ferro.
Al suddetto quartiere dei soldati una lettiera con i scanni di legno, quattro lenzuola, due pagliacci, e due
mante d lana cardata.
Quibus omnibus sic peractis prefati Nicolai Grimalddi et Felix
Antonius Fasano recoiunt nos [...]
Presenti Giuseppe di Donato giudice a contratti, testimoni:
Basilio Landolfi, Soccorso Landolfi, Giuseppe Barbaro.
3.
1799, maggio 20. (ASA, B
Alcune
persone di Solofra dichiarano che Felice Antonio Garzilli ha fatto varie
collette per sostenere le truppe comandate dal Capitano Raffaele Grimaldi di
Solofra che in Montoro erano insorte "contro i ribelli della Religione e
del Trono".
[...].
Si sono costituiti i signori don Giuseppe e Nicola Pandolfelli, don Francesco
Garzilli di Vito, don Luigi e Donato Giannattasio, don Michele Garzilli, don
Antonsanto Giliberti, don Vincenzo de Santis, don Giovanni Giliberti, il diacono don Luigi Russo e il diacono don Taddeo Garzilli
tutti di questo Stato di Solofra, li quali fanno piena e indubitata fede, ed
attestano con giuramenti avanti di noi, qualmente a loro ben consta, che a
causa dell’insurrezione del convicino Stato di Montoro contro i ribelli della
Religione e del Trono, attrovandosi il signor don Nicola Gervasio di detto
Regio Stato qui in Solofra in casa del di lui genero don Felice Antonio
Garzillo, il medesimo per dimostrare cogli effetti il piacere che nutriva per
la sussistenza delle suddette insorgenze in difesa della Real Corona, ed
affinché le numerose truppe che la componevano sotto la direzione del Capitano
Comandante don Raffaele Grimaldi di detto Regio Stato non si fossero disarmate
o desistito avessero dall’incominciata impresa per mancanza di vitto e di
danaro per loro mantenimento giornale; perciò lo stesso signor don Nicola si è
cooperato con tutte le sue forze, e maniere di poter raccogliere somme in
questo suddetto Stato di Solofra per somministrarle alle dette Truppe di
Montoro; per cui si è veduto giornalmente e ad ore anche incompatte andare in
giro per le case così degli Amministratori di questo pubblico che dei
particolari galantuomini benestanti di questo suddetto Stato per poter riunir
danaro per il detto bisogno; siccome infatti mercè la sua grande efficacia, e zelo
li è riuscito di raccogliere, e conforme neo univa qualche somma la rimetteva
per corrieri e per posta scortati da persone armate a detto signor Comandante
delle Truppe signor Grimaldi; anzi l’altro ieri verso l’ora di mezzogiorno
avendo aumentata anche buona somma col Regio Notaio don Giustiniano Giliberti
calarono dette persone in detto Regio Stato di Montoro a portare detto danaro. E questo è tutto si attesta da loro per la verità [...].
Presenti il giudice a contratti Giuseppe di Donato e i
testimoni Francesco Nicola Maffei, Soccorso di Donato e Soccorso Ciccarelli di
Solofra.
4.
1799, maggio 21. Serino. (ASA,
B
Atto
pubblico a favore del sacerdote secolare Domenico Anzuoni fatto da Domenico di Aiello, economo e curato di Rivottoli (Serino) ed da
altri dello stesso casale di Serino che attestano che l’Anzuoni era
"sacerdote morigerato e di esemplari costumi e dacchè seguì la rotta in
Monteforte per timore dei Francesi si ritirò per sua sicurezza nel Monastero
dei PP. dei Cappuccini dello Stato di Solofra".
5.
1799, giugno 18. (ASA. B
Dichiarazione
di alcuni soldati della Truppa di Solofra, che, al
comando del capitano Pasquale Ronca, il giorno 23 giugno attaccò "i
ribelli del Trono" nei dintorni di Napoli subendo tra le perdite quella
del fratello del Comandante, sacerdote Francesco Ronca.
[...]
In nostra presenza si sono costituiti Pasquale D’Urso,
Michele Rosalia, Giuseppe Antonio Guarino, Domenico Di Girolamo, Rocco
Esposito, Domenico Ronca, Michele Grimaldi, Vincenzo Antinolfi, Serafino
Russo, Pasquale Vicedomini. Michele Forte, Michele Iasimone, Vitantonio
Ianuale, Pasquale Ruocco e Carmine Troisi, soldati a massa della Truppa di
questo Stato di Solofra in difesa della Maestà del nostro Re (Dio guardi)
addetti al comando del signor don Pasquale Ronca
Capitano Comandante della medesima, li quali attestano con giuramento avanti di
noi come essendosi portati col detto di loro Comandante e di lui fratello
sacerdote secolare don Francesco Ronca nell’attorno di Napoli per discacciare i
ribelli del Trono, allora di giovedì 13 corrente giugno verso le ore 23 avendo
attaccato il fortino situato sotto la fabbrica nuova per comando di un generale
inglese essendosi ricusata la resa di quello colle vittuaglie colà delle
guardie delle Truppe regaliste fra gli altri vi era il suddetto reverendo detto
Francesco fratello del Comandante il quale fra lo strepitoso attacco si
distinse nel valore; quando poi furono circa le ore ventiquattro, e mezzo
essendosi dato fuoco ad una mina di polvere o artatamente o a caso allo
scoppiar di quella vi restarono molti estinti e fra gli altri morti vi perì il
cennato quondam don Francesco il quale nella mattina seguente del venerdì fu da
essi testificati riconosciuto, e veduto con li di loro propri occhi morto e
bruggiato a terra disteso [...]. Presenti il giudice a
contratti Giuseppe di Donato e i testimoni rev. Francesco Saverio
Grassi, Giovanni Giliberti e Soccorso Ciccarelli.
6.
1799, luglio 1. Solofra. (ASA,
B7029, f. 26v).
Attestato
del sac. Giuseppe Antonio Grassi, del novizio Filippo Grassi e dei sigg.
Francesco Giannattasio, Giovanni Pacileo, Consolato Cuoci,
Pasquale D’Urso, abitanti di Solofra sugli avvenimenti del primo maggio,
giurando i sacerdoti "col tatto del petto" e gli altri "col
tatto della carta".
[...]
nel giorno 1° del mese di maggio prossimo passato
verso le ore 16 il Commissario del Regio Stato di Montoro Sig. don Pasquale
Grimaldi mandò a chiedere aiuto di gente armata in questo Stato di Solofra non
meno che in S. Agata casale dello Stato di Serino dicendo che s’approssimava ad
essi loro una grossa truppa di Francesi, e Patriotti, che veniva dalla parte di
Nocera de’ Pagani, ed altri luoghi per piantare l’infame albore, detto della
Libertà in questi nostri paesi, che doi vote già si era reciso ed incenerito;
per la qual cosa, tanto in questo suddetto Stato di Solofra che nel detto
casale di S. Agata di Serino si sonarono le campane all’Armi, e si armò la
maggiorparte di questa popolazione composta di sacerdoti secolari, e regolari,
galantuomini e plebei, e s’incamminarono verso il Regio Stato di Montoro, e per
strada s’incontrarono coll’arme del detto casale di S. Agata di Serino tra’
quali ei ravvisarono, non solo il rev. Parroco di quel casale don Giuseppe di
Maio, armato di fucile, ma benanche l’Accolito don Nicola d’Arienzo e suo
fratello don Marcantonio e don Remigio di Maio ed altri, e per essere di loro
amici e conoscenti di uniti ad essi giunsero in detto Regio Stato di Montoro e
portandosi dal suddetto Commissario Grimaldi dal quale ricevuti gli ordini, si
portarono, sino al luogo detto S. Angiolo, da dove di già erano stati rispinti
e posti in fuga, i suddetti Francesi e Patriotti, per cui dal detto Sig.
Grimaldi licenziati, ringraziati dicendoli, che in ogni occorrenza chiamati l’avrebbero
[...].
7.
1799, luglio 2. S. Agata di Serino. (ASA,
B 6941, ff. 134r-137v).
Dichiarazione
di alcuni realisti di S. Agata di Serino sull’azione
dei municipalisti locali nello stesso casale, ad Avellino e a Napoli.
[...]
Nella nostra presenza si sono costituiti Simone Buonanno, Gennaro Perreca,
Gennaro De Maio di Vincenzo, Sabato De Maio del quondam Francesco, Nicola De
Maio di Vincenzo, Felice Antonio Guarino, Vincenzo De Maio di Pasquale quondam
Michele, Carmine Filippo De Maio quondam Domenico, Andrea Gaeta, Domenico
D’Urso, Michele De Stefano, Antonio Giannattasio, Luigi Savarisi, Francesco Di
Maio quondam Gabriele, Giuseppe di Andrea De Maio,
Andrea del quondam Antonio Guarino, Luigi Moretto, Felice Moretto, Nicola
Cotone, Vincenzo Famiglietti, Pasquale Moretto, Gio Antonio De Maio, Nicola
D’Arienzo, Domenico De Maio di Basilio, Angelo Antonio De Maio, Carmine Filippo
De Maio quondam Giuseppe, Giovanni Giannattasio, Francesco Moretto, Rocco De
Maio, Giuseppe De Maio, Francesco Cotone, Pietro De Maio, mag. Domenico di Maio
quondam Crescenzio, Crescenzio De Maio di Giuseppe, Pasquale del quondam
Domenico De Maio, Mario De Maio, Filippo De Maio di Mario, Sabato quondam
Ciriaco De Maio, Carmine Antonio Spiniello, Antopnio Di Maio quondam Gio Battista,
Nicola Giella tutti di S. Agata di Serino [...] davanti
al giudice a contratti e a testimoni dichiarano [...] che
ritrovandosi in detto casale Monicipalisti della sedicente e caduta Repubblica
il fisico Modestino Piemonte, Remigio De Maio, Nobile Salvatore De Maio,
Samuele De Maio, Matteo De Maio, Nicola d’Arienzo quondam Filippo, e Nicola
Guarino i quali, non solamente piantarono in detto casale quattro volte
l’infame albore detto della libertà, il quale fu rotto, e franto dalla gente
armata del Popolo basso di detto casale e per di loro capo, il primo tenente
sig. Donato Nigro dello stesso casale, ma benanche li medesimi Monicipalisti,
precedente ordine dalli medesimi emanato, colla pena d’immediata fucilazione
disarmarono l’intero suddetto casale di S. Agata di Serino, e si presero circa
80 fucili, armi bianche, e monizioni; ciò fatto, gli stessi monicipalistri
armata mano si portarono in Avellino, ed ivi fecero fuoco contro gli fedeli
Realisti, da dove se ne passarono nella città di Napoli uniti coll’armata delli
ribelli francesi ed ivi hanno mantenuto il fuoco sino che dalli fedeli Realisti
si prese il possesso di detta città di Napoli, ciò vedutosi dal sopraddetto
primo tenente sig. Donato Nigro, il medesimo armato di zelo in favore del Regio
Maestoso trono di Sua Maestà, che Iddio sempre feliciti, unito con altra gente
Realista armata, ed egli in capo, non solamente ha dissipati molti inimici del
detto Regio Trono in vari attacchi di fuoco tenuti in molte parti di quest
Regno ma benanche arrestè, e rattrovansi ditenuti nelle carceri gli suddetti
Nobile Salvatore De Maio, Matteo di Maio, Modestino Piemonte. Finalmente gli suddetti municipalisti nell’ultima piantare di detto
infame albore, si vestirono, non solo essi di funi, e pennacchiera, ma benanche
ebbero l’ardire di situare la pennacchiera, e nona francese alla testa del
nostro amabilissimo sig. Gesù Cristo cantando il Te Deum; come altresì i
suddetti Municipalisti, preceduta ancora di loro ordine di fucilazione in
dispregio della nostra Sacrosanta Religione, fecero trasportare in vari giorni
di domenica, dalla gente di detto casale una gran quantità di pietre. Dicendo servire le medesime per accomodo della strada per vantaggi
della suddetta caduta Repubblica et sic iuraverunt [...]. Presenti: Mag.
Michele D’Urso regio giudice a contratti dello Stato
di Solofra. Antonio Guarino, Michele De Stefano e don Basilio
Landolfi di detto Stato, testimoni.
8.
1799, luglio 18. Solofra. (ASA,
B
Dichiarazione di Giacinto De Maio, Stefano Guarino, Francesco
Cotone, Giovanni Caruso, Giuseppe Nigro, Michele Guarino, Carmine Filippo De Maio, Beniamino Guarino, Tommaso
Guarino, Giuseppe D’Urso, Nicola Vincenzo D’Urso, Domenico e Antonio Gaita,
Vincenzo Di Maio, Domenico Grasso, Michele di Stefano, Giovanni Di Maio tutti
"naturali abitanti", capi di famiglia, maestri di bottega, e coloni
di S. Agata di Solofra e di Serino.
[...]
Donato Nigro fu Domenico, di loro compaesano, e conoscente sia stato sempre
attaccato alla Regia Corona, per aver sempre preso le
armi in difesa della medesima tanto vero che
9.
1799, luglio 24. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 38v-r). Dichiarazione di Marcantonio
D’Arienzo, Donato Di Maio fu Crescenzo, Vitoantonio Di Majo di Pietro, Saverio
D’Urso di Andrea, Sabatantonio Di Maio fu Andrea,
Michele Di Maio di Vincenzo, Biasi D’Urso fu Michele di S. Agata di Serino sui
fatti del 28 aprile e del primo maggio.
[...]
nel giorno primo del mese di maggio prossimo scorso
verso le ore 16 al suon delle campane all’Armi si radunò buona parte di questo
casale, facendo allora da Capitano Comandante il costituito Marcantonio
D’Arienzo per essere stato creato Tenente Colonello il Sig. don Costantino de
Filippis con patentiglia come si dice e fra questi non solo accorse il Rev.
Parroco di questo casale don Giuseppe Di Maio, anche armato di fucile ma benanche
i suddetti costituti e il sig. Remigio Di Maio, don Nicola D’Arienzo ed altri
di loro paesani e conoscenti, che non si ricordano, e s’avviarono verso la
strada del Regio Stato di Montoro per dove si unirono tanto colla gente armata
di Solofra, che andavano in soccorso dei Montoresi che l’avevano richiesto
andando sempre avanti ad gente armata il suddetto sig. don Remigio di modo che
incoraggiava i suoi compagni per la pronta difesa del Trono, che al ritorno poi
a tutta detta gente armata si diede una famosa colazione a sue proprie spese,
come pure asseriscono i primi quattro testatori cioè don Marcoantonio, sig.
Donato, Vitantonio e Saverio che nella sera del 28 aprile di questo corrente
anno, verso le ore due della notte il suddetto don Remigio con una scura, o sia
accetta alle mani, fu il primo a dare dei colpi nell’infame albore per cui si
fe da’ suoi, che d’altri colpi restò reciso e la mattina del ventinove di detto
mese si sonaron le suddette campane a gloria per la seguita recisione del detto
albore [...].
10.
Idem. Solofra. (ASA, B7029, f. 40). Giuseppe Graziano
di Nicola il giorno 13 giugno del 1799 "passò da questa a miglior vita
nelle vicinanze di Napoli e proprio nel fortino detto Viglieja, dove morì
gloriosamente colle armi in mano in difesa del Nostro Piissimo Monarca (Dio
guardi) non meno che della cattolica legge".
11.
1799, luglio 25. Figlioli di Montoro. (ASA, B4542, f. 65). Attestato sui fatti di Forino ed Avellino.
[...]
che insieme ad altri dello stesso casale nelle passate
invasioni dei Francesi non hanno mai mancato di dimostrare la loro generosità
nei continui assalti colla maledetta nazione e nel primo attacco avuto nel
ristretto di questo Regio Stato con malvaggi e naturali della convicina terra
di Solofra e quelli riuniti ne furono col divino aiuto vincitori che vi restò
estinto il numero di più ribelli e i pochi rimasti dati in fuga. Nel gran fuoco
fatto in Forino ed Avellino detti insieme ad altri
dopo aver fatto macello recisero alla fine più teschi di quelli e li
trasportarono per prova della fatta preda nel campo che allora esisteva in
queste predetto Regio Stato [...].
12.
1799, luglio 27. (ASA, B7029,
f. 53r). Fortunata Ronca moglie di Michele di Agnello
dichiara che il marito è "ritenuto nella Real Fabrica nuova del Ponte
della Maddalena di Sua Maestà (Dio guardi) al Ponte della Maddalena della
fedelissima città di Napoli per causa delle presenti insurrezioni di questo
Stato di Solofra".
13.
1799, luglio 28. Solofra. (ASA,
B7029, f. 63r). Dichiarazione di Soccorso Di Maio, Vitoantonio Di Maio di
Pietro, Francesco Di Maio, Pasquale Di Maio, Biase Del Vacchio, Giuseppe Di
Maio fu Salvatore, Pasquale Di Maio fu Domenico, Tommaso
Guarino, Domenico Di Maio fu Carminantonio, Giovanni Faggiano, Giuseppe
Antonio Guarino, Saverio D’Urso, Nicola Guarino, Luigi Savarisi tutti
"naturali del convicino Stato di S. Agata di Serino e al presente in
questo Stato di Solofra".
[...]
il loro paesano Notaio don Salvatore De Maio per tutto
il tempo passato non solamente è stato uomo probo, onesto e di morigerati
costumi, ma enziadio have avuto sempre attaccamento alla religione cattolica, e
alla Sovranità avendo sempre ciecamente ubbidito alle leggi del nostro Augusto
Re Ferdinando IV (che Iddio sempre feliciti) e maggiormente nel suo ufficio di
pubblico e Regio Notaro che fedelmente e con ogni decoro have esercitato ed
esercita ; né mai ha tenuto sentimenti di giacobinismo, o fatto
dimostrazioni favorevoli alla passata Republica ; tanto vero che fu
incluso nella passata municipalità a causa che per necessità del Suo ufficio ,
perché si rattrovava in quel tempo Cancelliere di quell’Università, e per
conseguenza fu astretto di fare da segretario, e per la causa ancora che non vi
era colà altra persona, che poteva detto ufficio disimpegnare e non per altro fine".
14.
1799, agosto 4. Solofra. (ASA,
B7029, f. 64). Dichiarazione del fisico Nicola De Maio, di. Vitoantonio De Maio
di Pietro, Michelangelo D’Urso fu Angelandrea e
Carmine Troisi di S. Agata sul primo maggio.
[...]
il di loro paesano fisico Modestino Piemonte sia stato
più tosto attaccato al Trono che alla Repubblica tanto vero che nel giorno
primo del mese di Maggio prossimo passato di questo corrente anno 1799
rattrovandosi il medesimo capitano della Truppa di detto casale per essere
stato creato dal Comandante Mariano D’Arienzo di detto casale; il quale nel
sentire il suono delle campane all’Armi tanto di questo suddetto Stato di
Solofra che nel predetto di loro casale che preso avessero le armi in difesa
della Religione e del Nostro Sovrano (Dio Guardi) a causa che gli era pervenuta
notizia dal convicino Regio Stato di Montoro che s’approssimava loro una grossa
truppa di Francesi e di Patriotti per ripiantare l’albore che già reciso
avevano da più giorni, e nel tempo stesso per saccheggiare e devastare questi
luoghi siccome ad altri luoghi fatti avevano per cui armata che fu buona parte
di questi naturali si unirono a massa e s’incamminarono verso il suddetto Regio
Stato di Montoro e giunsero sino allo Stato di S. Severino e propriamente nel
casale detto S. Angiolo in dove rittrovarono che erano stati respinti i
suddetti Francesi e Patriotti.
15.
1799, agosto 7. Serino casale di S. Biaso. (ASA,
[...]
come essendo stati chiamati in Serino nella fine di
aprile 1799 di unità ad altri loro compagni suonatori per servire da banda
nella truppa Regalista in massa dello Stato di Serino ed altri luoghi vicini si
ritrovavano che tutta la suddetta truppa rattrovava comandata dal Sig.
Costantino dei Filippi ora colonnello dei Reali eserciti e da D. Gaetano
Magnacervo e venì tutti e due conoscenti da loro dello
Stato di Serino i quali andavano realizzando molti luoghi come Solofra di loro
patria., Atripalda, Aiello, Civitale ed Avellino, ed avendo inteso si trovava
verso Monteforte la truppa Francese essi Sig. Colonnello Costantino e Gaetano
si avviarono colla loro truppa per resistere lì. Infatti
nella vicinanza di Monteforte seguirono replicati fatti di armi ed attacchi,
nelle quali esso Gaetano fu sempre alla testa istigando essi sottostanti e
tutta la truppa a resistere e espellere il nemico. [...].
16.
1799, agosto 12. (ASA, B7029,
ff. 66-67). Dichiarazione del saccheggio di una vigna sita in
località al Sambuco ossia alle Selvetelle.
[...]
Agostino Giannattasio del quondam Consolato, Vincenzo Gaita, Nicola Gaeta,
Michelangelo Di Stefano, coloni abitanti a costo alla Vigna di don Vito Vigilante
posta in queste pertinenze nel luogo sotto al Sambuco
ossia alle Selvetelle che attualmente si tiene in affitto da Vito Del Vacchio
da Francesco De Maio di detto Stato [...] dichiarano
che varie persone di ogni età, e condizione si sono portati in questo corrente
anno in detta vigna di detto don Vito Vigilante ed ivi a guisa di Padroni, e
non ostante la resistenza fattali da detti fittuari Vito del Vacchio e
Francesco Di Maio si hanno raccolto le cerase, fichi, mela e prugne ed il detto
Michele de Stefano testificando soggiunge d’aver veduto coi suoi propri occhi
dette persone, che si hanno raccolta la robba indebitamente et sic
iuraverunt.[...] Presenti: Giuseppe di Donato giudice a contratti, Agostino
Guarino, Soccorso Landolfi, Donato Petrone, testimoni.
17.
1799, agosto 18. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 66-67). Il sindaco di S. Agata di Serino e
gli eletti prendono possesso dei corpi della Università.
[...]
A richiesta fattaci per parte ed istanza del Magnifico
Signor Domenico Antonio De Maio del detto casale di S. Agata di Serino, ci
siamo di persona portati nel medesimo casale e propriamente avanti la
parrocchiale Chiesa dove giunti abbiamo rattrovato pur anche il sig. don
Mariantonio D’Arienzo odierno Sindaco di detta Università di S. Agata al di cui
arrivo il cennato don Antonio in presenza non meno nostra che del detto odierno
Sindaco ultimamente eletto ha richiesto il vero pacifico e corporale possesso
di detto Sindacato sul pretesto che ad esso spettava i Nuovi affitti dei corpi
di detta Università per l’annata di Sua Amministrazione principiando a 1°
settembre di questo corrente 1799 e terminando a tutto agosto
18.
1799, agosto 19. Piano di Montoro. (ASA,
B
19.
1799, settembre 2. Montoro. (ASA,
B
20.
1799, settembre 4. Solofra. (ASA,
B 7015 copia posta tra i ff. 97 e 98). Il Parlamento dell’Università di Solofra
delibera di contrarre un debito con mutuo ad interesse
scalare per riparare alle spese fatte dall’Università per sostenere le milizie
di Ferdinando IV nella riconquista del regno.
[...]
Ferdinando IV, per
21.
1799, settembre 14. Solofra. (ASA,
B7029, f. 76). Dichiarazione di Nicola Russo, Nicola Gioiella, Matteo Gioiella,
Angelo Galasso, Andrea Faggiano, Pasquale D’Urso, Pietro Russo,
Francesco Cotone, Gabriele D’Urso, Sabato D’Urso tutti di S. Agata di Solofra a
favore di Nicola D’Arienzo.
[...]che
la persona del Sig. Don Nicola D’Argenio di Banzano casale del Regio Stato di
Montoro da essi testatori molto conosciuto d’essere attaccato al Trono per le
molte prove che ne ha date in loro presenza per avere il magnifico D’Arienzo
negoziato nel passato anno 1798 e propriamente nel mese di agosto con Giuseppe
De Maio di S. Agata di Serino molto legname di castagno per uso di carboni per
le Reali Ferriere di Atripalda siccome si rileva da validi documenti e come che
in questo frattempo per nostra disgrazia entrarono in questo cristianissimo
Regno le armi francesi per cui lo stesso don Nicola esortava ad essi testatori
a stare di buon animo stante le suddette armi non avevano mota durata, come
infatti fin dalla prima revoluzione il cennato Sig. Nicola animando i suddetti
testificanti e ad altri nostri conoscenti a prendere le armi in difesa del
Nostro Piissimo Sovrano, dicendo che se mai a ciascuno di essi testificanti
mancato avessero le armi e munizioni il prelodato Nicola si offerse pronto a
dare ad essi non solo armi e munizioni ma benanche danaro per il di loro vitto
e mantenimento, animandoli a stare sempre pronti dove la necessità il
richiedeva colle suddette armi per difesa del prelodato Nostro Sovrano per il
recupero del suo Regno, come infatti vinti dal zelo si sono sempre col detto
Sig. Nicola signalati coll’armi in difesa del prelodato Nostro Sovrano [...].
22.
1799, settembre 28. Solofra. (ASA,
B
[...]
Vincenzo De Maio di Pasquale, Carmine Filippo De Maio q. Giuseppe, Giuseppe D’Arienzo q. Giuliano, Tommaso De Maio q. Basilio di S.
Agata di Serino, Vincenzo Giliberti q. Matteo, Stefano Celentano q. Saverio di
S. Agata di Solofra dichiarano [...] che Vito Caruso,
Nicola D’Urso, Francesco D’Urso, Giuseppe De Maio, Francesco De Maio di S.
Agata di Serino, Pasquale Troisi di S. Agata di Solofra che al presente
formalmente si rattrovano detenuti nel Regio Tribunale di Montefusco sono
Realisti, e per molto tempo coll’armi nelle mani in difesa del Regio Maestoso
Trono di Sua Maestà Ferdinando IV, che Dio feliciti per lunghissimi anni, e
sotto il comando del tenente Donato Nigro di detto casale di S. Agata di
Serino, si sono portati in vari attacchi di fuoco sortiti nel presente Regno,
ed han fatta
23.
1799, settembre 28. Solofra. (ASA,
B 6941, ff. 151v-154r). Dichiarazione di alcuni
particolari di Solofra circa l’impianto dell’albero della libertà nella Piazza di
Solofra e l’abbattimento delle Armi di Ferdinando IV poste sull’insegna della
Regia Doganella del sale di Solofra.
[...].
Nella nostra presenza si sono costituiti il sacerdote secolare don Giuseppe
Pandolfelli, don Nicola Vincenzo Grassi, don Filippo Fasano, Pasquale
Giannattasio, Giuseppe di Donato di Girolamo, Cipriano Giliberti, Felice
Antonio Petrone, Giuseppe Salvia, Consolato Cuoci,
Pietrantonio di Donato, Nicola Carfagna, Ciriaco Antinolfi, Michele Antonio di
questo suddetto Stato di Solofra, [...] come esistendo
in detto Stato di Solofra
24.
1799, ottobre 2. Serino. (ASA,
B
25.
1799, ottobre 31. Solofra. (ASA,
B6358 tra i ff. 298/299). Dichiarazione di alcuni
battiloro e battargento di Solofra circa la decadenza di questa arte.
[...].
Costituiti nella presenza nostra personalmente li magnifici don Andrea e don Antonio
Buongiorno, don Pasquale Grimaldi, don Giuseppe Scarano, don Donato Vigilante,
don Giovanni Battista Ciccarelli, don Nicola Vincenzo e don Luigi Maffei, don
Felice Antonio Grimaldi, don Tommaso Ferrante, don Matteo Nigro, don Luigi
Landolfi, don Pasquale Alfieri, maestri battitori e lavoratori di argento e oro in foglio in questo Stato di Solofra li
quali detti esempi di ordine della Principale Corte di questo predetto Stato di
Solofra alli medesimi imposto ad istanza del Magn. Vincenzo Galdi maestro
battitore di oro in foglio dimorante in Napoli che a
noi esibito nel presente atto originalmente si conserva, e il suo tenore
appresso s’inserisce attestano e con giuramento fanno fede colla promessa di
ratificarla sempre, e quante volte sarà di bisogno qualmente ad essi
testificanti ed a ciascuno di essi rispettivi consta, e lo sanno per causa di
scienza, che in questo medesimo Stato, nelli passati anni si è quasi sempre e
in ogni tempo forgiato battuto e lavorato oro in foglio per loro conto e per
incombenze datele dal magn. Pasquale Guarino li qq.
Giuseppe Giliberti, Salvatore Guarino, Orlando Pandolfelli, Giuseppe Maffei del
quondam Francesco, Michelangelo Tura, Gio Bernardo Garzillo, Emanuele Maffei,
Taddeo Forino, e Gaetano Ferrara, ed anche il magn.
Don Sebastiano Pandolfelli dopo la morte del detto quondam Orlando fu suo padre
avendoci anche lavorato essi testificanti maggior parte in fare d’oro in
foglio, con averlo il cennato Luigi Maffei forgiato ed il riferito Donato
Vigilante accapate le forte di detto magn. Don
Pasquale Guarino ed intanto presentamente non si lavora detto oro in questo
medesimo Stato, per causa di non essere stato incombensato. [...].
26.
1799, ottobre, 31. Solofra. (ASA,
B. 6358 tra i ff 298/299). Dichiarazione del battiloro solofrano abitante a
Napoli Vincenzo Galdi sul fatto che i battargento solofrani nelle loro botteghe
lavoravano anche l’oro.
Al
Sig. Luogotenente e giudice dello Stato di Solofra. Vincenzo Galdi del detto
Stato, maestro e lavoratore d’oro in foglio, dimorante in Napoli supplicando
espone ad usum come li bisogna fede di verità e con giuramento d’essersi nel
detto Stato nei passati anni ed in ogni tempo sempre lavorato oro in foglio da
naturali dello Stato medesimo nelle Botteghe dei battitori d’argento sistenti
nel cennato Stato il perché tutto ciò consta alli medesimi don Andrea e don
Antonio Buongiorno, Pasquale Grimaldi, Giuseppe Scarano, Donato Vigilante, Gio
Battista Ciccarelli, Nicola Vincenzo e Luigi Maffei, Felice Antonio Grimaldi,
Tommaso Ferrante, Matteo Nigro, Luigi Landolfi, Pasquale Alfieri ed altri li quali essendo stati richiesti ricusano fare detta
fede ; che perciò il supplicante ricorre ad V.S. e la supplica ordinarli,
che subbitro faccino detta fede di verità, con giuramento e l’avrà, ut Deus
est. 31 ottobre 1799. Fiat petite fides veritatis.
27. 1799, novembre 23. (ASA, B6358, f 299). Dichiarazione
del Sindaco dell’Università di Solofra don Gennaro Pandolfelli di aver ricevuto
dinanzi al Governatore e Giudice della Stessa da Massimiliano Murena
ducati 1850.
28.
1800, marzo 28. Solofra. (ASA,
B7029, ff. 19v-20v). Dichiarazione circa un atto della
"compagnia" di Filippo Venuti.
[...]
Angela Troisi moglie di Domenico Pirolo abitante in Turci nelle pertinenze
dello Stato di Serino in qualità di Taverniere e affittatrice dell’Ecc.
Principe di Avellino [...] dichiara
che rattrovandosi essa testimone col mestiere di Taverniera nella suddetta
Taverna denominata Turci in dove verso de 20 del passato mese di novembre 1799
nella sera del detto giorno presero ad alloggiare ne la di lei Taverna vari
viaticali Nuschesi i quali essendo usciti in discorso dell’omicidio sortito in
persona del di loro compaesano Luigi Ebreo che morì nella mattina degli 11 del
detto mese a colpo di scoppetta mentre andarono colla compagnia seu squadra di
Filippo Venuti ad assoldare ed arrestare il Carrafaro o sia Carmine e Nicola
Caraviello fratello di detto Stato di Solofra, atteso come si voleva che il
detto Luigi fusse morto per mano di uno di essi Caraviello, ma non era così,
perché essi viaticali sapevano per averlo inteso dire per bocca dei compagni
del detto Ebreo i quai compagni dicevano per in mezzo della di loro città le
seguenti parole :"è vero che i solofrani portano la nominata d’avere
ammazzato Luigi Ebreo ma noi ne abbiamo fatti stante che da più tempo gli era
stata promessa una tale morte s’aspettava l’occasione e così ha
testificato" Presenti il giudice a contratti Pasquale Petrone e i
testimoni Taddeo Giannattasio, Michele Angelastro e Matteo Ruocco.
29.
1800, aprile 4. Solofra. (ASA,
B7029, ff. 34v-35v). Dinanzi al notaio Vito Antonio Grassi, a testimoni e al
giudice a contratti dell’Università di Solofra, i bracciali Pasquale Vignola,
Gaetano D’Amore "per esonerazione di loro
coscienza" attestano quanto segue "rispetto alla deposizione da essi
fatta pel di loro paesano Sabino Pirolo" davanti allo scrivano Vincenzo
Guarino "in occasione dell’inquisizione di Stato presa ultimamente dal
Regio Uditore Sig. Carlo de Franchis".
[...]como
nel dì primo dello scorso mese di marzo corrente anno, essendosi stati chiamati
con ordine del detti Signor Visitatore de Franchis, andati alla di lui presenza
furono interrogati dal detto scrivano detto Vincenzo prima, quale fusse il nome
di essi costituiti, ed avendolo inteso rispose ‘giusto voi andava trovando:
ditemi avete voi mai fatigato nel giardino di detto Sabino Pirolo. Al che
risposero essi costituiti di sì, e propriamente nel principio di Aprile del decorso anno 1799. E bene ripigliò lo
scrivano, facesti qualche discorso allora col detto
Sabino, ed avendoli essi costituiti risposto di sì, ripigliò detto scrivano:
ditemi dunque, quale fu il discorso che fece il detto Sabino con voi: su di ciò
essi costituti risposero ‘Sissignore nel principio di aprile dello scorso 1799,
non ricordandoci il giorno con precisione, per lo elasso del tempo, vivendo
questo stato di Solofra soggetto al distrutto governo repubblicano, stando noi
a fatigare dentro il giardino del detto don Sabino, venne lo stesso don Sabino
in detto giardino per assistere al lavoro di essi costituti e nel giungere
disse loro: crepiti belli figliuoli. Al che disse in
secreto esso costituto Gaetano d’Amore, ad esso
costituto Pasquale Vignola suo compagno: compà Pascà, volimmo pirolià un poco
don Sabino? Al che rispose esso Pasquale, piroliamolo.
Allora cominciò esso Gaetano d’Amore: Don Sabino sienti l’inglese da mare, che
ti fa, perché tal fatto seguì in tempo che s sentivano delle cannonate, che si
tiravano in Salerno fra gli Inglesi, ed i Francesi, al che rispose detto Don
Sabino: Non hanno che fare, perché è da luongo queste botte non si sa se sono le nostre, o dei nemici’. A questo ripigliò esso
Pasquale: Oh come si dice, si ha bottata, o la porta di Salierno, o la fontana.
A questo disse don Sabino: Voi volite pregate Dio, che si va fare fottere sta repubblica, ca se no voi site muorti, e nui
jammo pezzenno. A ciò rispose esso Pasquale: e pecchè avimmo doj pezzenno, nui
avimmo le braccia. Ripigliò don Sabino: se avimmo un carlino, o c’è levato o ce lo mangiammo. Al che disse esso Pasquale, sti luoghi s’hanno da governà ? Rispose don
Sabino, s’abbandoneranno. A questo di nuovo esso Gaetano d’Amore disse
in secreto ad esso Pasquale: lo volimmo n’auto poco
pirolià ? Rispose esso Pasquale, piroliamolo. Allora ripigliò il discorso
esso Gaetano dicendo, don Sabino gran cose hai da
sentì. Al che rispose alterato don Sabino. Ah, cazzo
per bui, se volite fatigà, e vui fatgate, e se no andate a farvi fottere. A quessto ripiglioò esso Gaetano: don Sabino, che
sia pare po venì lo Re. A ciò rispose don Sabino:
pregammo Iddio che ce lo manda ampressa ca se no,
simmo ruinati. E questo fu il discorso, e non altro
dissero essi costituti al detto scrivano che fece don Sabino con noi. Quale
deposizione, come separatamente si era uniformemente fatta da
ogni costituiti così dal detto scrivano furono trattati villanamente, e
minacciati di farli morire in carcere, se non dicevano la verità, come aveva
detto il loro contesto; dicendoli c’erano andati cola lezione fatta. Al che
risposero essi costituiti allo scrivano, che se doveano pigliare il giuramento,
la verità era quella che aveano detto ad onta di
qualunque minaccia; se erano esenti dal giuramento diceano come esso volea. In
seguito di che, furono essi costituti novamente maltrattati, in parole dal
detto scrivano, e posti in arresto, dove furono detenuti
per sedici giorni continui, con continui trapazzi, facendoli dormire a nuda
terra, facendoli togliere anche il mangiare, che li veniva dalle loro case.
Venendo loro fatte in tempo dell’arresto delle continue parti, ora di minacce
di portarli in Montefusco da don Mariano Cappuccio, ora di lusinghe dal
cameriere dell’Uditore, purché avessero detto come pretendea
lo scrivano, specialmente quando dopo due giorni di arresto fu liberato il
magn. Michele Scarano di Francesco Maria in presenza
di essi costituti , che egli non avea voluto più patire, per cause degli altri.
Insinuando allora ad essi costituti detto cameriere di
fare, come avea fatto lo Scarano, e così sarebbero finiti li loro guai. Al che,
com’essi costituti non vollero mai fare per rimorso di loro coscienze, furono
seguitati a tenere in penoso arresto, fino a che vedendosi dallo scrivano la
loro fermezza per la verità, scrisse la loro deposizione come egli disse (giacché essi costituti non sanno leggere, né
scrivere) nel modo si era da loro rapportato il fatto, come di sopra si è
detto, e per tale ancora ne presero formalmente il giuramento, e così furono
messi in libertà.
30.
1800, aprile 16. Solofra. (ASA,
B 77029, ff. 39r-41v). Dichiarazione sulla partecipazione dei monaci di S.
Agostino alla Repubblica Napoletana.
[...]
Costantino, Domenico, Nicola Vincenzo Guarino, Liberio Grassi, Nicola Verità,
Giuseppe di Vita, naturali di questo Stato di Solofra[...]
qualmente sanno benissimo si per averlo inteso dire
come pure per essere ciascuno di essi testimoni di veduta che i RR. PP. Maestro Tommaso Cristatori e Baccellieri P. Agostino
Carrano e P. Gio Francesco Ronca monaci agostiniani di questo suddetto Stato o
sia Convento in tempo dell’abbattuta sedicente Repubblica, fecero un attestato
a favore del fisico Antonio Garzilli di questo Stato col quale dimostrarono che
il detto Garzilli erra un Patriotta sin da sette anni addietro e ciò da essi
costava in causa di scienza per essere anche egli Patriotti. Intanto vero che
sin dal principio c’entrarono l’infami armi Francesi i
suddetti RR. PP. Dimostrarono il di loro attaccamento
all Repubblica con somministrare, letti, armi, danaro, famosi cibi ed esquisiti
vini a Patriotti di questo tempo, che rifugiati si errano nel Palazzo Ducale di
S. Ecc. il Sig. Duca di Gravina che coll’armi alle mani si errano di detto
Palazzo impadroniti e i RR. PP. Di continuo andavano a fare dell’offerte
e cerimonie nel detto Palazzo a predetti Patriotti ; come pure sanno
benissimo che in tempo si portò in questo Stato, un comandante di nome
Eleuterio Ruggiero colla sua Truppa francese, non solo l’accolsero nel di loro
monastero ma benanche quel tempo si trattennero in questo Stato li
contribuirono laute mense e scelti divertimenti anche di donne di cattivo
valore e vizi che profanar fecero quei sacri chiostri, per cui dalle proprie
bocche, sì del detto Comandante Ruggiero che dei suoi capitani, altro non si
sentiva se non che le seguenti parole questi sono bravi Patriotti e veri
Repubblicani che per contrassegno del loro distentivo, nel parti che fece il
detto Ruggiero, gli lasciò tre fucili di munizione del disperso esercito,
ch’usurpati avevano in questa Provincia e specialmente in questo medesimo
Stato, animandoli a combattere per
31.
1800, aprile, 27. (ASA,
B7029, f. 17r). Attestato sull’attacco alla casa dei fratelli Carmine e Nicola
Caraviello.
[...]Giovanni
Fasano, Raffaele Giannattasio, Vito Savarisi, Sabatantonio Troisi, Giuseppe
Russo fu Antonio, Sigismondo Famiglietti, Antonio Russo fu Gabriele, Antonio
D’Urso fu Luca, Biagio Famiglietti, Giuseppe Vigilante, Carmine Gallo,
Carminantonio Mastrantuoni, Nicola D’Ambrogio tutti abitanti e convicini del
casale dei Balsami e propriamente del Cortile detto li Campi di questo Stato di
Solofra [...] dichiarano che nella mattina dell’11 del
prossimo caduto mese di novembre 1799 verso le nove in dieci di questo mattino
essi testatori intesero un gran rumore e voci all’Armi e fra queste voci
intesero vari colpi di fucili o siano scoppettate e varie voci interrotte che
cercavano aiuto ed essi testificanti mossi da curiosità non meno che da timore
si affacciarono dalle rispettive loro case e finestre e viddero le case dei
fratelli Carmine e Nicola Caraviello il primo Capitano e il secondo Tenente
della Truppa Cristiana a Massa, di loro vicini e conoscenti che se ne andava in
fiamme e fuoco e viddero pur anco la suddetta casa circondata d’aggente Armate
che minacciavano rovina a quelli che vi abitavano ; come infatti si
viddero che in una di dette Stanze vi erano rinchiuse la madre, sorelle e
moglie di tutti i fratelli Caraviello e che detta aggente armata voleva che in
detta casa fossero perite e bruggiate vive dette donne e se non era per in
benigno soldato che le fece calare con la scala di legno per la finestra di
detta stanza sarebbero senza dubbio rimaste vittime di queste fiamme ; ma
fattosi quasi giorno si vidde dai medesimi per la scalinata di detta casa un
cadavere di fresco morto anche Armato, che poi a giudizio non solo di essi
testificanti ma enziadio per averlo i medesimi inteso comunemente dire che il
suddetto cadavere era stato ammazzato dai propri compagni a causa che il colpo
dal medesimo ricevuto era dalla parte di dietro e per conseguenza da detti suoi
compagni fu barbaramente ammazzato perché ricevè un tal colpo al salire che il
medesimo volle fare per detta scalinata, come pure si vidde parte di detta
Truppa salire per la cennata scalinata coll’intromettersi nelle stanze
superiori di detta casa fingendo d’andar cercando detti fratelli Carmine e
Nicola, i quali con i favori del fuoco e del fumo per sopra i tetti di detta
loro casa se n’erano fuggiti all’ingnuda, per cui detta gente armata
profittando del tempo si presero e saccheggiarono quanto in detta casa vi stava
d’armi, biancheria, vestimenti, oro, argento lavorato d’orefici, ed ogni altro
che li riuscì pigliare, e se ne andiedero lasciando la suddetta casa nelle
fiamme e alla descrizione del fuoco, motivo per cui tanto il suddetto
Mastrantuoni, che il suddetto d’Ambrosio mossi da pietà s’accinsero a smorzarlo
che se non accorrevano a tempo sarebero le suddette cose rimaste incenerite, e
rovinate [...].
32.
1800, maggio 16. Solofra. (ASA,
B 6968, ff. 371v-372r). Dichiarazione sull’impianto dell’albero della libertà a
Solofra.
Dinanzi
al notaio Vito Antonio Grassi a testimoni e al giudice a contratti
dell’Università di Solofra i naturali Raffaele
Garzilli e Domenico Scarano attestano con giuramento [..] che
quanto si piantò la prima volta l’infame albore della sedicente Repubblica
abbattuta nella pubblica Piazza di questo suddetto Stato che fu appunto verso
il giorno 26 del mese di gennaio del passato anno 1799, tra la gente assistente
alla piantagione del detto infame albore non vi era il Sig. Vincenzo Pirolo di
questo medesimo Stato e ciò lo sanno cioè: esso detto Raffaello per essersi
rattrovato avanti al forno della pubblica panificazione nel mentre passava la
gente armata che portava detto infame arbore, e non vi era detto Vincenzo ed il
cennato Domenico per essersi rattrovato nella Bottega del commestibile della detta
pubblica Piazza, e vidde anche passare gente armata coll’infame arbore, e
questo piantare e fra detta gente, non vi era il medesimo detto Vincenzo
Pirolo. [...].
33.
1800, luglio 27. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 68v-69v). Testimonianza sull’autonomia di
S. Agata divenuta Università a sé.
[...]
Il fisico Nicola De Maio, Gaetano Vigilante, Nicola D’Arienzo, Rocco De Maio,
Nicola Guarino, Michele De Maio, Felice Antonio De Maio, Antonio Caiafa,
Giovanni Guarino, Carminatonio Spinelli, Carmine Filippo De Maio fu Domenico,
Soccorso De Maio, Carmine Filippo De Maio fu Giuseppe, Giovanni Antonio De Maio
di Gasparro, Vincenzo Guarino, Andrea Giaquinto, Giuseppe D’Arienzo
fu Nicola, Donato Caiafa, Giuseppe D’Arienzo, Pietro Angelo e Filippo De
Maio di Marino, notaio di S. Agata, dinanzi al notaio Giovanni Maria Garzilli
di Solofra e a testimoni dichiarano che "questo suddetto Stato di S. Agata
sin dall’anno 1798 si divise dall’Università generale di Serino facendo
Università a parte e separata, componente il Sindaco con due compagni
Eletti ; come pure attestano che in questo suddetto casale , non vi sono
stati emanati banni per parte dell’Affissione delle Reali Licenze di Caccia del
predetto Stato Generale di Serino, né il medesimo affittatore ha dispensato
dette licenze da Caccia a naturali di detto casale ; ma solo essi
testificanti sanno benissimo, che in questo suddetto Casale vi è affittatore a
parte di dette Reali Licenze e lo stesso subito che ricevè
34.
1800, settembre 8. Solofra. (ASA,
B
In
nostra presenza si sono presentati i testimoni Fabrizio
e Filippo Guarino, padre e figlio, i magnifici Pompeo Garzilli e Bartolomeo
Graziano i quali si ricordano benissimo come il magnifico Francesco Guarino del
quondam Alessio nonostante che sia negoziante di questo Stato da circa anni sei
non è uscito mai da questo tenimento e specialmente per i paesi di basso che
sono lo Stato di Montoro quello di San Severino e altri convicini eccetto che
nel mercato di Atripalda settimanalmente per la compra di pelli ed altro che da
lui si negozia anzi con ispecialità si raccordano che nel mese di gennaio 1799
detto Francesco Guarino di unità col quondam di lui fratello Giuseppe non sono
usciti affatto da Solofra né mai si portarono in detti Stati a far negozi o
contratto alcuno. [...] Presenti Giuseppe di Donato, giudice a contratti, e Vincenzo
de Santis, Filippo Guarino e Nicola Pepe, testimoni di Solofra.
35.
1800, settembre 24. (ASA,
B6967, f588r). Dichiarazione sulla municipalità di S. Agata di Serino.
[...]
Dinanzi al notaio Vito Antonio Grassi a testimoni e al giudice a contratti
alcuni del casale di S. Agata di Serino Donato De Maio fu Crescenzo, Felice
Antonio De Maio di Gaspare, Carmine Filippo De Maio fu Giuseppe, Carmine
Filippo De Maio fu Domenico, Filippo di Basilio De Maio, Giovanni di Vincenzo
Guarino, dichiarano che nell’anno
36.
1800, novembre 10. L’Università di Solofra per poter
pagare i debiti contratti in seguito alle circostanze rivoluzionarie aveva
contratto, in seguito a delibera del Parlamento, alcuni debiti forzosi con
benestanti locali per un ammontare di ducati 3400 e ne aveva
rilasciati regolari fedi di credito. Poiché però le
fedi di credito furono abolite l’Università è costretta a soddisfare i
creditori dai propri introiti annuali "restringendo al massimo le
spese". Con il maggiore creditore, Massimiliano Murena, si stipula un
credito strumentale con l’interesse scalare del 5%.
[...]
Gennaro Pandolfelli, sindaco, Michele Garzilli, Antonio Guarino, Tommaso
Guarino, Sabato Scarano, Eletti di questa Università
dichiarano che "rattrovandosi la prefata Università attente le passate
circostanze rivoluzionarie in molto sbilancio, ed attrasso di pagamenti così a
creditori Fiscalari, che Istromentari furono perciò nella necessità delli
signori non solamente di convocar pubblico Parlamento, col quale si propose
doversi le somme mancanti prendersi a mutuo da persone benestanti, per così
appianarsi il vuoto di detta Università, e soddisfarsi i creditori. Qual
parlamento approvandosi da Decurioni intervenuti in numero opportuno si diede
da essi loro con voti segreti riusciti nomine
discrepante la piena facoltà a detti signori Amministratori interini di poter
contrarre con chicchesia un debito corrispondente alle somme che si doveano o a
mutuo od altra natura in nome di detta Università per potersi pagare i detti
creditori attrassati per indi poi toglierselo il detto debito l’Università
medesima mano a mano colle somme che avanzerebbero dalle rendite annuale che
ella possiede; siccome il tutto da detto Parlamento si rileva; copia del quale
qui si conserva; anzi gli anzidetti signori Amministratori per maggiore loro
diluzione e cautela n’ebbero ricorso per tal causa al signor Visitatore
Economico per S. M. D. in questa Provincia di Principato Ulteriore don Stefano
Caporeale per ricevere dallo stesso qualche giusto sentimento ed oracolo su di
un tal debito contraendo; che fattosi carico delle circostanze suddette; per le
quali la detta Università si rattrattava in attrasso ordinò in seguito un
imprestito forzoso di tremila, e quattrocento di contanti effettivi da
sborzarsi dall’infradette persone, cioè dal detto don Mariano Murena, ducati
1850, dalli signori Giuseppe Vigilante, don Luigi Giannattasio e don Antonio
Garzilli quondam Massenzio ducati 1100 dal signor don Giuseppe di Tura ducati
350, e da don Alessio Giliberti ducati 100 tutti uniti formano la somma di
ducati 3400 ne ordinò l’esecuzione a questa pubblica Corte che sotto pena di
carcerazione in forza d’obbligo da essi formato avesse astrette le suddette
persone che fra il massimo di giorni 15 avessero sborsate le suddette
rispettive loro somme e passarle in mano del detto signor Sindaco interino don
Gennaro Pandolfelli per convertirle in fedi di credito, mediante l’ostaggio
corrente in qual tempo, e così ritrovarsi il d’attrasso; siccome in effetti dal
detto signor Pandolfelli ricevuto che si ebbe il denaro ordinato ne formò a
beneficio delle persone i corrispondenti ricivi per loro cautele, e le convertì
in fedi di credito, come sopra; e da lo principio ai pagamenti e creditori;
quando fu verso il mese di maggio corrente anno si vidale emanare reale editto,
col quale veniva ordinato l’abolizione delle fedi di credito, non avendo le
medesime più vigore in commercio, per cui restarono in potere di detto signor
Sindaco inpagate ed oziosi circa ducati 1500 di fedi, quali giuste il
prescritto nel Real Dispaccio le convenne impiegare sulla decima annuale, che
paga questa stessa Università; a qual oggetto non potè terminarsi l’intiera
soddisfazione, e saldo a detti creditori per detto loro imprestito fatto;
similmente il suddetto signor Visitatore fece ordini a predetti Amministratori,
che detto danaro sborsato dalle suddette persone per l’anzidetta ragione
d’imprestito forzoso l’avessero dovuto a medesimi soddisfare, e pagare mano a
mano dall’introito e rendita che la detta Università introitar dovea in questo
anno restringendo al più che potevano le spese, ed i pesi, e se non si avessero
potuto interamente in quest’anno soddisfare di somma del rimanente che
restavano a conseguire se li fusseleno rapinato , e restituito nell’annata
ventura. Siccome infatti in eseguimento di tali ordini
da predetti signori Amministratori verso il mese di aprile fattosi un conto tra
loro di qualche si potevano disporre, e pagare a conto del detto debito ed
imprestito distribuirono varie somme e detti crediti, giusta la qualità dei
loro crediti, e al detto signor don Mariano qual creditore di maggiore somma ne
ricevè per mezzo degli Affittatori della gabella della farina, e moline ducati
775 gr. 25; sicchè restò a conseguirsi d. 1174.35; da’ quali toltane d. 6.82.10
che la detta Università deve tenere per suo conto
all’esattore della decima per il 3° della decima di sua casa materna in agosto
1800, restò dunque il detto sig. don Mariano a conseguire per completamento di
detto suo imprestito d. 1167.92.2. Quali non potendosi da essi
Amministratori affatto soddisfare in quest’annata di loro amministrazione, perché
nel conto che hanno calcolato dell’introito ed esso si è veduto non avanzare
danaro; han fatto sentire al detto sig. Mariano che per detto suo credito, o
sia complimento di esso, o che si fosse contentato di aspettare la fine della
cominciata amministrazione per vedere se in quella vi fusse superato danaro per
poter quello pagarsi a lui e agli altri suddetti creditori; toltane i pesi
fiscali e forzosi, o pure non volendo aspettare sino a detto tempo l’avrebbero
fatta l’esibizione, attenta la facoltà loro conceduta nel citato Parlamento di
costituirsi in nome della suddetta Università debitori a pro di detto sig. don
Mariano ed formare a di lui beneficio un credito istromentario di detta somma
dovutali, mediante l’annualità, ed interesse corrispondente del 5%; siccome la
medesima Università ha pratticato per l’andato, e pratica attualmente
cogl’altri suoi creditori istrumentari; obbligando tutti i beni rendite ed
effetti che possiede; col patto però a favore della medesima di ricomprare
quandocumque, e in tutto, o in parte, senza darsi prese rispettive di tempo
alle quali proposte applicandosi essi sig. don Mariano alla seconda, e
contentandosi per detto suo credito di costituirsi creditore istrumentario
della medesima Università, ne sono perciò stati richiesti detti Amministratori
interini di venire alla stipola del dovuto istrumento, per poterci in seguela
della Regia Camera della Sommaria su tal debito contratto attenersi il
necessario assenso, ed approvazione, siccome i cennati amministratori nel nome
come sopra non potendo ripugnare perché da essi loro progettate, e giudicandola
pur troppo giusta si sono dimostrati pronti stipularne in suo favore le debite
cautele ad formam iuris [...] Fatta la suddetta assertiva volendo dette signore
parti [...] mandare in
effetti le cose suddette, e restarle con pubblico e solenne istrumento come si
conviene ch’oggi predetto giorno detti sig. Sindaco ed Eletti interini di
questa Università [...] si dichiarano e costituiscono
veri e liquidi debitori del suddetto sig. Mariano presente nella sopraddetta
somma di d. 1777 gr. 22.2 quelli stessi a lui dovuti [...] corrispondere
essi sig. Amministratori nel nome del suddetto interesse o sia annualità alla
ragione del 5% che importano ogn’anno d. 58.39; verum
conforme dall’Università si pagherà capitale; così devesi scalare l’interesse e
così seguitarsi fino all’ultima estinsione di detto capitale [...]. E
per maggior cautela i suddetti sig. Amministratori [...]
hanno obbligato tutte le rendite e beni della cennata
Università [...]. Presenti il giudice a contratti Francesco
Saverio Garzillo, testimoni il reverendo Giuseppe Guarino, Pasquale Murena e
Donato Giannattasio.
Postille a lato del protocollo notarile di avvenuta
estinzione del debito. "Si
nota che mediante istrumento stipulato avanti al notaio Saverio Giliberti fu
Antonio de 14 luglio 1824 e registrato in Solofra il 9 del detto mese
dell’introscritto credito di d. 1167 e gr 92 e 2 ne
sono stati dal Comune di Solofra pagati all’introscritto Mariano Murena d.
37.
1801, agosto. Serino, casale di S. Giacomo. (ASA, B
38.
1801, agosto, 8. Serino casale Sala. (ASA, B6352, f. 53). Dichiarazione a favore di alcuni realisti di Solofra.
[...]
Antonio di Zenzo, Gaetano Carrafiello, Girolamo De Maio di questa terra [...] affermano che il Galluccio si
spostò il sedici maggio del
Atto
stipulato sotto
Nella
nostra presenza si costituì il cittadino Michele Rubino di questo Stato di
Solofra [...] Ed il cittadino
Rev. Carmine Antonio Guarino sacerdote secolare [...]. Il suddetto cittadino
Michele spontaneamente in presenza nostra asserisce avere, tenere e
legittimamente possedere come vero padrone una metà di masseria vitata arborata
e fruttifera in forma ereditaria del fu Gennaro Rubino
di lui padre e divisa dall’altra metà spettante al cittadino Gio Santo suo
nipote sita in questo Stato di Solofra casale Volpi nel luogo detto muro bianco
[...]. E perché al detto cittadino Michele bisogna qualche
pare di danaro per avvalersene nelle sue presenti urgenze e necessità e
bisogni. Perciò ha pregato detto cittadino Rev. Carmine Antonio
a volersi comprare una porzione di detta metà massaria non ostante che la
medesima massaria stava soggetta a fedecommesso istituito dal quondam
Gennaro Rubino. Al presente di già si è abolito dalle
leggi emanate dalla Repubblica Napoletana, per cui è rimasta ogn’uno assoluto
Padrone di sua roba, e colla libertà di venderla, e donarla a suo piacere, alle
quali richieste e preghiere esso Rev. Carmine Antonio per farli piacere e cosa
grata e attenta di abolizione di fede [...] commesso,
si è esibito pronto alla detta compera applicare e conchiudere il contratto
[...].
(ASA,
B 7015 tra i ff. 125 e 126).
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