ILLUMINISTI E NOVANTANOVE A SOLOFRA

 

La Rivoluzione Napoletana del 1799, che Benedetto Croce ha considerato una "tra le più rilevanti della moderna storia d’Italia", e che fu preparata da quel movimento ricco di spinte evolutive che fu l’Illuminismo napoletano, ebbe una maggiore risonanza nelle aree più vive del sud. Ad una di queste appartiene la conca solofrana, la cui realtà socio-economica contribuì ad improntare le istanze illuministiche provenienti dalla capitale di quella "pragmaticità" che ne fu la caratterizzazione più saliente. Qui, al di là della dinamica degli eventi rivoluzionari, si ebbero forti contraccolpi economici che alimentarono le tendenze rivoluzionarie se riuscirono, pochi lustri dopo, ad esprimere ben quattro vendite carbonare e ad avere un ruolo in quei moti. Partendo dalla fecondità di questo bacino, si cercherà, in questo studio, di definirne il contributo al moto illuministico e la partecipazione a quello rivoluzionario.

 

Capitolo Primo

 

L’area solofrano-montorese, che attraverso il raccordo di S. Severino è in contatto sia con la valle dell’Irno che con l’agro sarnese-nocerino, appartiene a quell’enclave socio-economica della pianura campana in cui il rapporto montagna-pianura ha costituito l’asse della sua definizione, e che è stato il territorio di riferimento delle sue attività, e coagulo di forze e di spinte evolutive1. Quest’area quando Napoli, divenuta capitale, si trasformò in un enorme centro urbano-economico-amministrativo e culturale, pur continuando a ricevere linfa dalla mai venuta meno ricchezza di Salerno, del cui hinterland faceva direttamente parte2, entrò nella più ampia conurbazione gravitante intorno alla grande città.

 

1. In M. De Maio, Alle radici di Solofra. Dal tratturo transumantico all’autonomia territoriale, Avellino, 1997 e poi in Id., Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000 si è dimostrato, per l’area interessata, questo rapporto sottolineato anche dal Galasso (Motivi, permanenze e sviluppo della storia regionale in Campania, Napoli, 1972).

2. All’indomani delle distruzioni barbariche, quando nella conca solofrana si formarono due arroccamenti sostenuti dalla pieve di S. Angelo e S. Maria, si realizzò una diretta gravitazione della stessa su Salerno, del cui episcopato peraltro la chiesa rurale faceva parte, tanto da farla entrare in modo non secondario in quel vivo territorio che fu l’hinterland salernitano. I rapporti con Salerno furono di natura squisitamente economica, essendo le terre della pieve proprietà dell’episcopio salernitano, per cui ci fu un diretto contatto delle attività di concia, sviluppatesi lungo il corso d’acqua solofrano, con quelle che si svolgevano a Salerno per opera soprattutto degli Ebrei. Per questo motivo l’area fu interessata da una quasi costante corrente migratoria dal salernitano (cfr. M. De Maio, Alle radici..., e Solofra nel Mezzogiorno..., cit. infra).

 

Lo studio della società solofrana ha messo in evidenza, fin da questo periodo, una intensa sinergia con la capitale, che fu il punto di riferimento di tutta la sua storia, da quella socio-economica a quella culturale. La rete di rapporti commerciali ed insieme culturali iniziò con la famiglia solofrana dei Fasano, che, fin dalla fine del XIII secolo, fu tra quelle su cui i re angioini si poggiarono nel sostenere l’evoluzione del territorio e nel fare di Napoli un grande polo mercantile e culturale. Questi proprietari, allevatori e mercanti, con un raggio di azione che giungeva alla Puglia, furono protetti da privilegi che si estesero alle attività mercantili solofrane su tutte le piazze, contribuendo a dare una spinta alla specializzazione produttiva che si stava realizzando in loco, mentre dei tre medici - Riccardo, Niccolò ed Andrea - , tutti della corte angioina, il primo contribuì, sia con Carlo II che con re Roberto, allo sviluppo dello Studio di Napoli3. Se quella dei Fasano indica una via di sviluppo della società locale nella collaborazione con la corona, non mancò di formarsi a Solofra, per le opportunità che le attività artigianali offrivano, specie dopo l’introduzione di elementi della borghesia artigiana legata alla concia della pelle provenienti da Salerno e dalla sua zona produttiva, un ceto che maturò forme più autonome durante gli eventi che segnarono il passaggio dalla signoria dei Filangieri a quella degli Zurlo4. La comunità infatti potette rafforzare una tendenza che la portava a trovare in se stessa la forza per la difesa della propria realtà economica in funzione antifeudale, a cui contribuì, in modo non secondario, la formazione di un ceto notarile ed ecclesiale volto alla protezione e al sostegno delle attività mercantili5. Era stata proprio la realtà solofrana all’inizio dell’autonomia amministrativa e territoriale - a cavallo tra il XII e il XIII secolo - a dare l’avvio a questa tendenza con un atto di grande importanza - la richiesta di decadenza del feudatario6 - che inaugurò una linea rivendicativa che sarà perseguita da questa comunità con ostinata costanza.

Quando con gli Aragonesi Napoli, divenuta unico polo di smercio dei prodotti del regno e nodo di traffico multinazionale, fu fonte di stimolo e di sviluppo dei centri a suo più diretto contatto, il rapporto Solofra-Napoli, divenne più solido: quelli che intrecciarono a Napoli legami matrimoniali e patrimoniali, per usufruire dei conseguenti benefici economici, e che esercitavano anche attività liberali - inizialmente di tipo curiale - , crearono nella grande capitale importanti punti di appoggio per la realtà solofrana.

 

3. I Fasano, che, provenienti dalla distrutta Fasanella, si erano stabiliti tra Montoro e Solofra, ebbero da Carlo I d’Angiò l’incartamento su un fondo in territorio solofrano (cfr. O. Beltrano, Breve descrittione del Regno di Napoli, Napoli, 1644, p. 173).

4. Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 33-70. La comunità solofrana godette, alla morte di Giacomo Filangieri, un periodo di demanialità, seguito, per il difficile stabilizzarsi in loco della signoria degli Zurlo di Montoro, da uno di labile dominio feudale, che favorirono entrambi lo sviluppo di forme di autonomia.

5. Le attività mercantili ebbero bisogno della protezione notarile e dei diritti patronali delle chiese. Vale la pena sottolineare che il sentimento di autonomia, al di là dei bisogni concreti della mercatura, trovò un terreno favorevole nel fatto che Solofra non ebbe un luogo forte, che avrebbe potuto ostacolare tale maturazione come non fu il castello, sentito parte di quello di Serino a cui originariamente apparteneva, e che certamente non fu un punto di riferimento importante o la sede del feudatario; ed invece ebbe un centro religioso di origine popolare, che favorì lo sviluppo di un senso deciso della individualità locale, a cui dette forza anche il fatto che la chiesa era stata centro delle attività economiche.

6. Alla morte senza eredi di Giordano Tricarico, a cui il padre Ruggiero aveva assegnato il casale, l’Universitas chiese a Federico II la decadenza del dominio feudale e il conseguente passaggio al demanio imperiale (cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 68 e sgg.).

 

Il più intenso rapporto con Napoli, sostenuto dagli Zurlo - la feudalità cittadina penetrata nelle campagne col favore aragonese - , produsse un sostanziale sviluppo dell’ambiente economico: l’artigianato, incentrato sulla pelle, divenne più articolato e le conseguenti attività mercantili e finanziarie più mature. Vale la pena sottolineare il ruolo decisivo che nella vicenda solofrana acquistarono, fin da questo periodo, la proprietà ecclesiastica e il piccolo possesso, che ebbero un forte valore finanziario, e che impedirono alla feudalità di entrare in modo preminente nelle attività locali7. Ed ancora bisogna considerare che il ristretto territorio e la sua conformazione prevalentemente pedemontana tennero la comunità lontana dai danni del latifondo; che il commercio introdusse costantemente linfa nuova nella compagine sociale; che non vennero mai meno le attività artigianali legate all’industria armentizia; che la comunità fu sempre ben decisa a mantenere forme di autonomia e a difendere le prerogative acquisite.

La mercatura fu, in questo ambiente, un determinante elemento di maturazione. I viaticali e i mercanti, mai perdendo i contatti con i mercati locali - il polo di Giffoni-Sanseverino, la stessa Salerno, le cui due fiere furono un punto importante di riferimento - , ebbero un raggio di azione che alimentava, con fitti rapporti, i centri commerciali della Puglia, e che si allargava ai mercati abruzzesi e calabresi, dando la possibilità di una variegata esperienza aperta a nuove istanze e a molteplici interessi. Essi inoltre nel ricco mercato napoletano trovarono ulteriori stimoli per le attività locali che potettero subire uno sviluppo di tipo cittadino, sfociato nell’autonomia finanziaria, in cui Napoli ebbe un ruolo determinante.

Il solofrano, che veniva a contatto con l’ambiente napoletano, apparteneva ad una compagine sociale amalgamata da una fitta rete di intrecci familiari, che aveva coagulato forme di collaborazione sui generis, dove l’unione di persone e di attività teneva insieme la parcellizzazione dell’artigianato e la stessa attività mercantile e finanziaria in una simbiosi in cui l’una viveva dell’altra. Se in questa società l’operatore ed il finanziatore formavano un tutt’uno con una mancanza di autonomia propria della economia meridionale, fu questa caratteristica che, costituendo una peculiarità, contribuì a favorire quei "salti" che la partecipazione alla cultura permetteva e a creare la borghesia dell’artigianato e della mente che fu la parte più innovativa della società napoletana8.

Il Viceregno, che trovava Solofra in pieno sviluppo socio-economico, espresso in due significative opere - la costruzione della Collegiata e la stesura del secondo corpo statuario - , nell’esplosione delle attività artigianali e in un considerevole incremento demografico tutto volto su Napoli - divenuta "centro di consumo e di concentrazione della rendita delle campagne" e dipendente da esse9 - , favorì la continuazione della tradizione mercantile e culturale, e l’arricchì con altre attività tra cui l’artigianato di lusso del battiloro, che rispondeva alle esigenze della capitale e del suo mercato10.

Sintomatico è proprio il caso del battiloro napoletano che, per trovare un più diretto contatto con la materia prima, si spostò a Solofra dove acquistò una specificità che la stessa Napoli non ebbe11. Ma c’è il campo più ampio della concia, con forme fortemente specializzate - in particolare la pergamena - , quello della manifattura della pelle (vari tipi di calzature e cordami), della lana, della carne salata12, tutti prodotti il cui commercio dette luogo a intensi rapporti finanziari, che furono sempre arricchiti da quelli culturali intessuti dagli stessi ceppi artigiano-commerciali, poiché coloro che si stabilivano a Napoli appartenevano alle famiglie più forti economicamente da poter sostenere la residenza nella città13.

 7. Fin dal tempo del Filangieri la comunità era riuscita a limitare le prerogative feudali, specie negli usi civici, ed ancora nel XIV secolo il feudatario non aveva l’uso dell’acqua né dei prodotti delle selve, essenziali per la concia - ghiande e scorza di quercia ma anche di castagno, ricchi di tannino - e per l’allevamento dei maiali, voce non indifferente della produzione locale (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 33 e sgg).

8. Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 73 e sgg.

9. Cfr. P. Villari, Il sud nella storia d’Italia, Roma-Bari, 1984, p. 11.

10. Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno..., cit., pp. 151 e sgg. Per avere un’idea dello sviluppo solofrano basti considerare che nell’arco di un secolo si ebbe un’esplosione urbanistica di ben quattordici casali.

11. Questa attività, sulla quale nel Regno solo Napoli e Salerno avevano il jus prohibendi e che si impiantò a Solofra per soddisfare le esigenze della produzione sia salernitana che napoletana, come una loro diramazione, legò Solofra ai due centri, anche perché i suoi fonditori, insieme a quelli salernitani, furono alla Zecca di Napoli fin dall’inizio del XIV secolo. Tra le famiglie solofrane al centro di questa vicenda vale citare i Maffei che, già nella prima metà del cinquecento, ebbero un’importante bottega, anche di oreficeria, con un marchio proprio (cfr. Archivio di Stato di Avellino, Notai, B6528, 191-202, per altre citazioni ASA) e che abitarono a Napoli in strada degli orefici entrando a far parte di quella corporazione.

12. Cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit. pp. 178-179, 237-366. Gli atti notarili del primo cinquecento mettono in evidenza in modo chiaro la ricchezza produttiva locale sia dal punto di vista della qualità - basti pensare alla capacità di questo artigianato di produrre fogli sottilissimi di oro e di argento e pregiate pergamene - che della quantità. Si consideri che nel 1521-1522 su seicento rogiti notarili oltre trecento riguardano la compravendita di una notevole varietà di prodotti locali.

13. Le famiglie trasferite a Napoli all’inizio del cinquecento solofrano sono i Murena e i de Parisio (entrambi in questa città fin dal secolo precedente), i Maffei, i Giliberti, i Guarino (anch’essi con l’arte del battiloro), i Petrone (che avevano proprietà a Ponticelli), i Landolfi (che abitavano in via Fontana dei Serpi), i Troisi, i Vigilante, i Fasano (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit., pp. 181-194).

 

Anzi l’apporto culturale divenne più qualificato nel senso che non furono più gli avvocati o i notai solofrani a stabilirsi nella capitale per proteggere i rapporti commerciali o trattare i problemi della comunità, come era avvenuto prima, ma nel senso che ora le famiglie trasferitesi a Napoli manifestavano una più piena integrazione, dando un diretto apporto alla intellettualità cittadina ed interessandosi a problemi di più ampio raggio. La capitale, pur continuando ad essere prima di tutto centro e polo di attuazione e sostegno delle attività mercantili, divenne centro di cultura e stimolo per i giovani che vi trovavano sbocco per lo studio delle leggi, che Solofra viveva come una tradizione, e che portarono queste famiglie a far parte di quella borghesia napoletana - di uomini di legge e di artigiani-mercanti-finanziatori - che vivrà tutte le contraddizioni della società napoletana, compresa la sclerotizzazione del commercio e della produzione di cui soffrì Napoli14.

Questa parte attiva e aperta della società solofrana, nell’aria stimolante, che si respirava nella capitale, sentì più forte la ristrettezza della soggezione al barone, che toglieva linfa al commercio e che asfissiava la vita civile, anche se la tendenza antifeudale riuscì ad essere soddisfatta nel ventennio più ricco del cinquecento solofrano - 1535-1555 - quando la comunità si riscattò dalla condizione feudale e passò al demanio15. La brevità di questa esperienza, non sostenuta da alcun intervento vicereale, per la caratteristica di quella politica completamente carente verso le realtà che potevano diventare conduttrici di un autonomo processo economico, non fece altro che alimentare sordi sensi di insoddisfazione e di impotenza, a cui si aggiunsero le peculiarità del dominio feudale orsino.

La comunità fu costretta, nella seconda metà del cinquecento, a subire un feudatario che si insediò imponendo forti privilegi economici e giurisdizionali che fecero naufragare le prospettive economiche del primo cinquecento. Il dominio autoritario e rapace degli Orsini dette una spinta all’acutizzarsi della dialettica antifeudale, portando a maturazione, anche se non senza contraddizioni, nuove esigenze morali e civili, che interagivano con quelle che si attingevano nella capitale.

Dopo l’esperienza demaniale, infatti, si era creata nella società solofrana, in cui una viva immigrazione portava sempre nuova linfa, ed in cui all’inizio non erano sentite le differenze, essendo ancora aperta la possibilità di ascesa sociale dalle fasce più basse16, una differenziazione sociale che, nel secolo seguente, tese ad irrigidirsi, dando luogo a violenti contrasti. C’era un gruppo di finanziatori e speculatori nelle cui mani si concentrò il potere della Universitas, la gestione delle gabelle, il possesso degli arrendamenti di molte Universitas e della stessa Napoli, accanto a cui ce n’era un altro più ampio, sempre di proprietari, artigiani e piccoli finanziatori in posizione di inferiorità - spesso famiglie legate da vincoli di parentela con quelle del primo gruppo senz’altro da vincoli economici - , che aveva una comune caratterizzazione col primo: la presenza, in ogni nucleo, di almeno un membro che accedeva alla cultura, e di uno o più appartenenti al clero, con un’incidenza che andava di pari passo con la ricchezza.

La parte più bassa della società solofrana era formata da piccoli artigiani e mercanti, in posizione di dipendenza dalla prima di cui subiva la prepotenza, e che finiva per apparire tutt’uno con quella del feudatario, diventato come loro mercante e finanziatore17. In questa ampia fascia, che cominciò a non vedere più la possibilità di un’ascesa sociale, si evidenziò una tendenza ad attaccarsi, anche se non in modo sempre chiaro, a tutto ciò che avrebbe potuto cambiare quello stato di cose, producendo i germi di un sempre vivo radicalismo. Soprattutto questa fascia sentiva forte il dominio feudale, perché provava sulla propria pelle i danni che esso provocava alla produzione e al commercio con l’usurpazione degli usi civici, con le vessazioni e gli arbitri venali di quel tribunale, e vedeva nelle liti col barone tutta la forza di quella prepotenza. Infine avvertiva il peso della proprietà ecclesiale, di cui non faceva parte e che, servita a sostenere il commercio, aveva fatto accumulare i beni in poche mani.

Non in posizione molto distanziata c’erano i "bracciali"18, una fetta della società che soffriva tutti i contraccolpi di un’economia debole, e che viveva i problemi della classe con cui era a più diretto contatto con reazioni spesso incontrollate e facilmente condizionabili. 

 

14. G. M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Napoli, 1793, I, pp. 442-461.

15. Vale la pena sottolineare che questo passaggio, che comportò un peso non indifferente, avvenne mentre Solofra ne sopportava un altro non meno gravoso, quello della costruzione della Collegiata.

16. Questa caratteristica del periodo aragonese ma evidente fino al primo Viceregno, era dovuta ad un facile passaggio dalla condizione di "bracciale conciario" a quella di "artigiano della pelle" (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno...,cit., pp. 87 e sgg.).

17. Fin dalla fine del XVI secolo gli Orsini di Solofra si introdussero da speculatori ed in posizione di prepotenza nelle attività locali trasformandosi in feudatari-imprenditori.

18. In loco erano chiamati "bracciali" tutti coloro che lavoravano, in posizione dipendente, sia nei campi che nelle botteghe di conceria o in entrambi.

 

Per il patriziato solofrano la ormai consolidata dimora a Napoli, sempre legata con intensi rapporti economici al luogo di origine anche per quelli nati nella città, fu segno di distinzione e di successo sociale. Oltre al gruppo forense, queste famiglie produssero anche letterati, medici e studiosi, che costituirono la parte più aperta alle novità, quella che cominciava ad avere una più ampia coscienza della ricchezza della cultura e più chiari intendimenti politici. Da questa compagine emersero coloro che furono più propensi a sostenere il feudatario, da cui erano beneficiati e ai cui modi di vita si allinearono, interessati a mantenere lo statu quo e restando chiusi nei limiti di piccoli interessi comunali19. Essi apparvero come difensori dello stato di sfruttamento baronale la cui incidenza, anche per il trasferimento dell’Orsini a Napoli, ebbe un incremento sia sul versante dei tributi che su quello della giustizia.

Intorno al rapporto col feudatario si svilupparono, lungo tutto il Seicento, le divisioni familiari, che misero in risalto una ristretta visione della stessa dimensione economica, ma si sviluppò anche un processo di maturazione di elementi che resistettero alle tentazioni di accucciarsi comodamente sotto l’ala del feudatario e che tesero ad un ridimensionamento del potere orsino.

Questa realtà sociale seguì una parabola che si mosse in sintonia con la ricchezza dell’area di cui faceva parte, soffrì, pertanto, dell’involuzione dei rapporti di produzione derivanti dall’arresto dello sviluppo mercantile e manifatturiero del secondo periodo vicereale. In tali angustie la società solofrana visse il brivido dell’esperienza masanelliana, che vide la partecipazione dei "popolani che riuscirono a far approvare talune richieste", ma anche acuì il "moto di ribellione" rimasto latente che andò ad "alimentare una cellula di banditi" che trovava stanza tra le montagne circostanti20, fino ad affogare nella crisi della grande peste, ancora una volta ritrovando nel dominio baronale la fonte di una serie di contrasti21, che esplosero, poco dopo, proprio per il peso feudale divenuto insopportabile. Forse fu la vittoria, in quel moto, che rese l’Orsini più audace nel far valere con violenza i propri interessi, e forse la comunità solofrana, nonostante la sconfitta, volle continuare l’esperienza masanelliana, certo è che le rivendicazioni sfociarono in un violento contrasto antifeudale che coinvolse - tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII - tutta la popolazione in un clima di feroce guerra civile che fu l’episodio più significativo, e prettamente locale, di tutta la storia vicereale solofrana22.

L’episodio, che esprime una feudalità insofferente verso l’espansione di un ceto più autonomo e più capace di difendere i propri interessi, mostra una maturazione della tendenza antifeudale solofrana. Il dato più evidente dello scontro con l’Orsini è proprio quello di una società sensibile ai problemi dell’economia e pronta a far valere le proprie ragioni, non inattiva, che comprende che la strada delle rivendicazioni è sostenuta non solo da ragioni meramente pratiche ma lucidamente razionali, ed ora anche dalla riflessione dei suoi intellettuali23.

Esso però mise anche in risalto come fosse facile far presa su interessi personali e come questi potessero, in una società costretta a stare in trincea e comunque legata all’effettività pratica, valere su più ampi interessi sociali o estesi nel futuro. Il fatto poi che il patriziato delle finanze - una ristretta oligarchia - , ancor più arricchitosi con le riforme di Carlo III, riuscì a non perdere il controllo del governo della Universitas, mentre la parte più ampia della comunità non riuscì, nonostante i tentativi, a porre un freno a quella preponderanza, fece ancora una volta apparire un fallimento quello che era sembrata una vittoria e fece insinuare la convinzione che non si sarebbero potute cambiare facilmente situazioni di comodo incancrenitesi nel tempo. Ed ancora, il fatto che l’Orsini, sentito sempre più lontano, si circondasse di agenti provenienti da queste famiglie, acuì un sordo rancore nei suoi riguardi tanto che si giunse, nel 1782, persino ad un assalto al suo palazzo24.

Da una parte si avvertiva la forza delle proprie ragioni dall’altra un senso di fallimento, che però non sfociò in forme estreme. Che in questo terreno si sia insinuato il mito della "regalità" e della "legge protettrice", che dette inizio al "faticoso avvio di un nuovo e superiore equilibrio della vita politica e sociale" e che portò alla fine del "predominio monarchico-nobiliare", come dice il Galasso, questo avvenne anche tra gli intellettuali solofrani, che, finito il governo vicereale, sosterranno, come si vedrà, il riformismo borbonico nel quale era sottinteso lo scalzamento della feudalità25. D’altra parte, se questa scendeva a comportamenti come quelli tenuti dall’Orsini a Solofra, appariva in realtà fortemente scaduta: divenuta un "partito" che poteva poggiare sul sostegno di quelli "della sua parte", che metteva in atto comportamenti improntati ad una "logica tutta borghese" dove non c’era distinzione tra il barone e quei borghesi che erano riusciti ad avere un titolo nobiliare26.

19. Le analisi della politica vicereale mettono in risalto il rifugio dei ceti borghesi locali in uno stagnante statu quo, che favorì lo scadimento verso situazioni di comodo per la mancanza di sostegno ai tentativi delle comunità meridionali nella lotta antibaronale.

20. Ricca è questa esperienza conclusasi con stragi a carico di solofrani tra cui il "caporivoluzionario" Giuseppe Fusco, anche dopo la partecipazione ai fatti di Ariano (Partium Collaterale, v. 153, f 86t; A. Graziani, Memoria del primicerio don Giovan Sabato Juliani e di alcuni buoni cittadini, Avellino, 1889, pp. 16-17).

21. Dopo la rivolta masanelliana si formò a Solofra un’oligarchia di potere con la permanenza di alcune famiglie nel governo della Universitas, resa possibile dal fatto che gli Eletti e i Decurioni nominavano i loro successori in modo che i rappresentanti dei casali fossero sempre dello stesso ceppo. Su questa situazione dominò la figura infausta del feudatario, Domenico Orsini che si accaparrò una fetta non indifferente delle gabelle oltre a diversi diritti sulla vendita dei prodotti, rendendo impossibile ogni spinta di modernizzazione, mentre la presenza di governatori ed di agenti feudali esosi, una vera longa manus del feudatario sulle attività locali, fu ancora più perniciosa.

22. L’episodio vide schierato da una parte la maggioranza della comunità capeggiata dal primicerio Giovan Sabato Juliani (1651-1736) che subì prigionia ed esilio, dall’altra il feudatario sostenuto da quella parte del patriziato mercantile solofrano che aveva benefici dall’essere dalla parte del principe. La causa occasionale della rivolta fu il tentativo dell’Orsini di controllare ancora più direttamente le attività mercantili solofrane con lo spostamento del mercato nella piazza antistante il suo palazzo e la stessa Collegiata (cfr. A. Graziani, op. cit. ).

23. In questo gruppo c’è parte del ceto forense, che, bensì conservatore, aveva sostenuto contro l’Orsini, gli interessi della Universitas che poi erano i propri. Fu però tutta la società solofrana che avvertì, sia pure in modo non sempre cosciente, il conservatorismo di cui era espressione l’Orsini.

24. Cfr. A. Graziani, op. cit., p. 13.

25. G. Galasso, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze, 1984, pp. 197 e sgg.

26. Ibidem, pp. 209 e sgg. Le famiglie solofrane che nel XVIII secolo avevano un titolo nobiliare furono, oltre ai precedenti casi dei Fasano e dei Murena, un ramo dei Maffei, dei Giannattasio, dei Garzilli.

 

Lungo tutto il Settecento nella società solofrana si vide il ceto più attivo attingere linfa, per sostenere l’antica tendenza ad una vita più autonoma in opposizione alla feudalità, anche tra quelli che, come si diceva, "vivevano nobilmente" o "vivevano del suo" e che poggiavano questo vivere sulle attività mercantili e finanziarie, possedendo a Solofra concerie e botteghe27, accanto ai quali c’erano quelli che avevano spostato le loro attività artigianali nella capitale28. La maturazione era legata al fatto che a Napoli molti loro membri appartenevano a quel "ceto forense" che era diventato una forza autonoma più consapevole e di schieramento moderato. Un ceto che non tradiva le sue origini quando partecipava nella capitale alla lotta giurisdizionalistica, quando contribuiva al rinnovamento culturale e quando lottava per proteggere le energie economiche29.

Fin dalla seconda metà del Seicento erano aumentati i solofrani che, dopo aver avuto una iniziazione nelle scuole private locali - da tempo espressione della sensibilità verso la cultura utile a chi esercitava la mercatura30 - , si iscrivevano all’Università e che nel Settecento subirono un considerevole aumento31. Costoro, presenti, si è visto, in ogni famiglia che poteva mandare un figlio a scuola e non solo in quelle del ristretto patriziato, vivevano le esperienze napoletane, e soprattutto conoscevano i programmi illuminati che affrontavano proprio i problemi a loro vicini: quelli di una società tesa a far denari e ad assurgere economicamente, interessata alla liberazione dai vincoli feudali, alle questioni locali, alla libertà dei commerci, di una società che rifiutava eccessive idealizzazioni ed aveva un particolare senso della cosa pubblica, avendovi partecipato intensamente nel risolvere i problemi del "reggersi a gabella"32.

27. Si tengono presenti in questa parte i dati del Catasto onciario del 1754 (Archivio di Stato di Napoli, v. 4743-4746) che fotografa la società solofrana in senso sincronico e quelli degli atti notarili (ASA, B6825 e sgg.) che permettono un’analisi diacronica. Vale la pena considerare che a metà Settecento a Solofra erano censiti 509 membri di 77 fuochi esercitanti le attività liberali, tutti con impegni mercantili e finanziari e tutte famiglie più o meno direttamente impiantate a Napoli, che intrattenevano rapporti commerciali con la terra di origine, svolgendo in prima persona e concretamente tali attività. Si consideri che la famiglia del giurista Giuseppe Maffei dichiarava di impegnare nella mercatura una certa quantità di ducati, che il matematico e cattedratico Felice Giannattasio faceva a Napoli da base alle attività commerciali ed artigianali della sua famiglia di origine, e che in un "fuoco" del ceppo dei Guarino, un ramo facente capo al "battargento napoletano Orlando", c’erano quattro membri censiti con la dicitura di "privilegiato napoletano".

28. Che l’attività artigianale dei solofrani a Napoli fosse diffusa è dimostrata dal fatto che in questo periodo esisteva nella città una strada detta dei solofrani (cfr. N. D’Auria, Descrizione di Napoli, Napoli, 1956, s.v.).

29. Cfr. G. Galasso, op. cit., pp. 221 e sgg.

30. Fin dall’inizio del XVI secolo sono documentate a Solofra scuole private, tenute in genere dai notai locali, ed una vera e propria scuola, autofinanziata dalle famiglie che ne usufruivano, con programmi, orari e regole di comportamento e con un insegnante appositamente stipendiato (ASA, B7706, 22r e B6522, 255r).

31. Si contano nella seconda metà del XVII secolo 18 studenti universitari e nel secolo seguente oltre 60 (cfr. F. Scandone, Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Avellino, 1956, pp. 306 e sgg.).

32. Vale la pena sottolineare che questa modalità di pagamento fiscale, da tempo adottata dalla comunità solofrana, servì a creare un forte senso della partecipazione alla vita comunitaria.

 

Gli intellettuali solofrani a Napoli presero parte agli eventi culturali del Settecento napoletano nel modo in cui questi potevano risolvere i problemi economici, perché in essi fu sempre chiara la coscienza di una essenziale preminenza - in un meridione in cui le attività artigiano-mercantili boccheggiavano - di liberare cioè il commercio dai secolari vincoli, anche di corruzione33, e di svecchiare le attività artigianali con strumenti più efficienti.

Questa problematica, che permeava il pensiero di una dimensione "concreta", fece avvicinare molti solofrani-napoletani a Bartolomeo Intieri, che nel suo salotto rifletteva proprio sul progresso dell’economia, e all’insegnamento del salernitano Antonio Genovesi, che era sentito di casa per la familiarità dei rapporti con tanti studenti locali. Non è un caso che proprio a Napoli, dove questa problematica si faceva fortemente sentire, egli ebbe una cattedra di economia politica, e non è un caso che diversi solofrani furono molto vicini a lui quando discettava sulla necessità di regolare i rapporti economici con le leggi della ragione, che non erano quelle che fino ad allora avevano dominato l’economia meridionale. D’altra parte il Genovesi, che conosceva i problemi delle aree economicamente sensibili, come quella del salernitano, era troppo vicino al pensare solofrano, da sempre alimentato dalla tensione di un vivere migliore e più prospero, caratteristico delle società di questo tipo. Quando lo stesso parlava della cultura, che doveva innalzare il tono dei bisogni e favorire la produttività col miglioramento delle arti, non faceva altro che sottolineare una tendenza che da sempre aveva guidato la vicenda economica solofrana. Anche la sua "cultura delle cose" trovava riscontro in questa società che aveva teso sempre al "concreto", mentre le sue sottolineature sulla necessità di "curare" coloro che lavorano, le sue analisi sui problemi monetari, su quelli del denaro prestato ad interesse o della inflazione, tutto questo faceva guardare con fiducia a lui e a quelli che operavano ed auspicavano il miglioramento della parte più importante e, fino allora, più abbandonata della società. Era, come dire, un apostolo dei problemi solofrani, perciò fu amico di tanti che a Napoli lo frequentavano, non solo per averlo avuto come maestro o compagno di studi.

Anche in Gaetano Filangieri, pure lui collega ed amico di tanti solofrani, si trovavano idee comuni contro i privilegi e il dispotismo e contro la corruzione dei costumi, in favore di un governo basato sulle leggi; ed anche in Ferdinando Galiani, che portò l’interesse per le cose che venivano dalla Francia, i suoi amici solofrani vedevano colui che affrontava problemi vicini alla loro realtà.

Questi tre spiriti dell’Illuminismo napoletano erano dunque seguiti, sia attraverso il filtro degli intellettuali locali sia direttamente, da chi manteneva vivo il tramite Solofra-Napoli, perché il loro pensiero rispondeva alle aspirazioni che nessuno fino ad allora aveva ascoltato, in una corrispondenza che anche se solo ideale già appariva reale.

Però, per una sorta di inveterato senso di sfiducia, si presentava alla coscienza comune il muro dell’immutabilità delle cose, gravava la paura per le novità e per i cambiamenti troppo repentini, cui si aggiungevano i pericoli dai quali si doveva difendere l’ambiente economico, che è il "nervo scoperto" di una società debole, situazioni che favorivano il moderatismo largamente diffuso negli strati più avanzati della società solofrana. Una tendenza moderatamente attenta alle novità, che guardava senza preclusione alle idee nuove ma rigettava un’adesione tout court senza il vaglio del "tempo", in sintonia con la lotta tesa alla soppressione dei diritti feudali e col bisogno di liberare le energie economiche che il grosso ceto medio solofrano sentiva di avere. L’essere aperti al nuovo era colorato da un fondo di diffidenza, formatasi per i fallimenti della lunga lotta contro i pesi feudali - anche di semplicemente modificarli - , che erano un freno per le forze produttive. E ciò, da una parte faceva sperare di cambiare le cose dal di dentro, come si era sperato, nonostante i fallimenti o i piccoli passi di talune riforme, e dall’altra faceva restare attaccati al "particolare", che è la peculiarità di una comunità economica condizionata da quel nervo scoperto, punto debole di un sistema debole. In tutto questo, che non aveva quella l’idealità che pone in secondo piano ogni altro movente e che sarebbe diventata giacobina, c’era in fondo, e restava ben saldo, il movente dell’interesse economico da salvare, di quel "tempo" che una rivoluzione moderata deve tenere presente.

Se gli intellettuali solofrani che agirono nella Napoli settecentesca aderirono pienamente a quel riformismo, lo fecero perché non erano lontani dalla società mercantile che li aveva espressi, vi facevano parte, vivevano tutti i suoi problemi, soprattutto avevano forte lo spirito "essenziale" che la mercatura aveva stampato nel loro codice genetico. Essi furono illuministi, come si vedrà, perché vedevano nelle "idee nuove" dei benefici per le attività economiche, e perché il rinnovamento significava sviluppo economico e ammodernamento. L’ispirazione di fondo fu, dunque, essenzialmente "pragmatica", determinata da condizionamenti oggettivi, e con questo spirito si addentrarono nei problemi della economia, sottolinearono "l’importanza dell’iniziativa e della volontà politica" nel promuovere il progresso civile, la necessità di rompere con la tradizione o operarono per l’avanzamento matematico-scientifico. Una materialità ideale la loro, che prevaleva nettamente sulla idealità astratta, e che era la caratteristica preminente dell’illuminismo napoletano34.

 

33. La maggior parte di questa società, direttamente o indirettamente, subiva più di tutto il dispotismo e la corruzione che si irradiava da Montefusco dove tutto, anche la giustizia, era mercato, sopportava il peso della milizia provinciale e soprattutto quello dei banditi che rendevano insicure le strade del commercio.

34. Cfr. G. Galasso, op. cit., pp. 264 e sgg. Questo aspetto dell’illuminismo napoletano, sottolineato dal Galasso, si trova in modo chiaro nelle espressioni di pensiero della società solofrana.

 

Coloro che, come si vedrà, furono animati dal bisogno di comprendere la realtà, di capirla, pur se sfociarono in una superiore tensione morale, che superava il terreno di quei condizionamenti, non si allontanarono dal "pensiero concreto", e se furono impegnati civilmente li diresse sempre un principio non sovvertitore, e se videro la loro attività come compito storico per la rigenerazione del Mezzogiorno furono sempre convinti di poter modificare le cose dall’interno.

In questo senso anche nell’esperienza illuministica solofrana si può cogliere un aspetto della definizione cuochiana di "rivoluzione passiva", determinata cioè dall’impronta economica della società in un sistema debole che permise di sfociare in un moderatismo pauroso e di rifuggire da più radicali trasformazioni che avrebbero dovuto eliminare le strutture esistenti, per cui, appena ci si rese conto che si stava imboccando questa seconda strada, ci si fece indietro. Improntata ad un passivo distacco fu anche l’atteggiamento di quella parte della società che avrebbe dovuto essere rivoluzionaria, come si vedrà.

 

 

Capitolo secondo

 

Nel delineare la partecipazione degli intellettuali solofrani al movimento illuministico napoletano bisogna cominciare coll’individuare quelli che si trovarono, e non in posizione secondaria, tra gli "incunaboli della nuova cultura", di cui parla Croce, quella improntata alla "ragione galileiana" e alla vita delle Accademie35. Ne avevano avuto un’opportunità per merito di Pier Francesco Orsini (1640-1730), il futuro papa Benedetto XIII, che da feudatario36 stimolò nella sua seconda patria, come chiamava Solofra, una nuova sensibilità letteraria con l’apertura, nei saloni del suo palazzo solofrano, di un’Accademia di "amene lettere"37, che affrontò questioni linguistiche e fece conoscere tutta la poesia italiana, specie quella marinista e dell’Arcadia38. Ad essa parteciparono il giureconsulto e poeta Nicola Tura (senior)39, il medico e filosofo Traiano Maffei40, che fu promotore di cultura nell’accademia dell’Orsini e in altre a Salerno e a Napoli, unendo a questa attività anche una prettamente politica quando partecipò ad un tentativo di dar vita ad un moto antispagnolo al tempo del vicerè Onatte; per suo tramite allora penetrarono a Napoli, provenienti da Roma, "lettere scritti e manifesti" contro gli Spagnoli41.

 

35. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Napoli, 1958, pp. 171 e sgg. Vale la pena sottolineare che anche nel Cinquecento ci furono solofrani che emersero nel campo culturale come il filosofo, medico ed astronomo Camillo Maffei, un vero scienziato dell’epoca, che, nell’opera Scala naturale overo Fantasia dolcissima, edita a Venezia quattro volte, seguì l’aristotelismo della scuola padovana e che sperimentò l’uso della musica nella cura di alcune malattie (cfr. M. De Maio, I Maffei di Solofra, Solofra, 1997, pp. 17-20).

36. Pier Francesco Orsini era nato a Gravina e fu feudatario di Solofra prima di rifiutare il titolo in favore del fratello Domenico quando abbracciò l’ordine dei domenicani.

37. Cfr. C. Minieri Riccio, Notizie delle Accademie del Regno di Napoli, in ASPN, II, p. 310. L’Accademia, che fu istituita prima che l’Orsini vestisse l’abito talare (1669), è una di quelle diffusesi nell’Italia meridionale per assorbire il razionalismo dominante.

38. Un documento notarile del 1751 notizia dei libri contenuti nella biblioteca solofrana di casa Vigilante, uno dei ceppi più sostanziosi della società solofrana che svolse un ruolo di primo piano nella politica culturale locale anche nella partecipazione all’Accademia orsiniana. Essi permettono di cogliere gli argomenti trattati nell’Accademia che, in linea con i suoi scopi, erano di natura preminentemente linguistica. Si inquadrano nella querelle des anciens et des modernes, tesi a sottolineare la "virilità dell’italiano" degno di poggiarsi alla lingua latina (da testi di oratoria e di poesia greca e latina si va al Bembo, al Berni, ai dialoghi dello Speroni a tutto il petrarchismo), ma anche a dare gli strumenti per scrivere in versi e per parlare (dal Calepino alle Eleganze toscane e latine, al Ruscelli, a testi di retorica, al Cannocchiale del Tesauro, a rimari ed elucidari poetici); mentre coronano tali intenti le opere di tutta la poesia italiana da Dante e Petrarca al Valla, al Boiardo e Sannazzaro, alla poesia pastorale (il Guarini), ai marinisti (lo stesso Marini, l’Achillini, il Micheli, il Fontanella, il Preti) ed agli antimarinisti, alla poesia dialettale (il Cortese) e satirica (l’Abati, il Caporeale, l’Adimari), al Tasso, all’Arcadia (il Metastasio, il Vacalerio), al Melosio.

39. Era nato nel 1612, pubblicò a Napoli nel 1665 Aborti poetici (cfr. G. Didonato, Solofra nella tradizione e nella storia, III, Messina, 1923, p. 209). Sostenitore dell’accademia dovette essere anche Niccolò Tura (iunior), che fu maestro a Solofra dell’Orsini.

40. Cfr. O Beltrano, op. cit., pp. 55-56.

41.Cfr. I. Fuidoro, Successi del conte d’Onatte (1648-1653), Napoli, 1932, pp. 35-36.

 

Qui si distinse Onofrio Giliberti (nato nel 1618) nella cui produzione, che risente dell’influsso dell’Accademia, c’è un dramma Il vinto inferno da Maria, dedicato nel 1660 proprio all’Orsini42, e c’è Il convitato di pietra, che si inquadra nei tentativi di rifacimento della drammatica spagnola di intonazione dongiovannesca e che fu letto dal Goldoni, come lo stesso dice nella prefazione al suo Don Giovanni43; mentre sull’astrologia e sull’astronomia, e precedente a questa produzione, si ha un’altra sua opera, Le ruote dell’Universo44.

Uno studioso aperto alle novità, amico di quel Tommaso Cornelio attraverso cui entrarono a Napoli gli scritti di Cartesio, le idee di Gassendi, quelle di Bacone e di Boyle, fu Gabriele Fasano (1645-1689)45 che, erudito e fine letterato, frequentava il Valletta e il D’Andrea partecipando al moto napoletano di stimolo verso "studi che davano la precedenza alle scienze legate alla natura e la prevalenza alle cose pratiche"46. Quando il D’Andrea sottolineava l’importanza del commercio nello sviluppo della ricchezza aveva sotto gli occhi l’amico Fasano, la cui famiglia a Napoli e nella natia Solofra aveva coniugato questo binomio legandolo alla cultura, che il giurista non voleva più relegata nelle aule scolastiche ma posta al vaglio della realtà. La stessa operazione letteraria del Fasano - la traduzione in dialetto napoletano della Gerusalemme Liberata - , che fu apprezzata dal Valletta e seguita dai suoi amici toscani Francesco Redi e Lorenzo Magalotti47 e che si muoveva nell’ampio filone della letteratura dialettale del Seicento, nasceva dal bisogno culturale di considerare il dialetto come indicatore di una nuova via, non in opposizione alla lingua e alla letteratura nazionale, il quale vivrà "un’epoca d’oro" anticipando e preparando "la rinascita dell’età dei Borboni"48. Nella sua opera il Fasano, che era guidato dall’interesse storico di rappresentare nella parola dialettale costumi e modi di sentire che non si sarebbero potuti esprimere altrimenti, mise in evidenza il valore e la capacità del vernacolo napoletano di contendere col Tasso49.

 

42. Di questa produzione, sei volumi dati a stampa ma altri inediti, Benedetto Croce (Intorno a Giacinto Andrea Cicognini e al Convitato di Pietra, estratto di "Homenatge a Antoni Rubiò i lluch" miscellanea di studi letterari, Barcellona, 1936, pp. 429-432) dice di aver letto il romanzo Il Cavalier della rosa (v. Biblioteca Nazionale di Napoli, Catalogo dei libri antichi e rari a cura di G. Dura, Napoli, 1857, p. 321), che è la continuazione delle Gare de’ disperati di Giovanni Ambrogio Marini, e Il vinto Inferno da Maria (Trani, Valeri, 1644), dedicato a Francesco Guarini, dandone un giudizio sostanzialmente negativo. Altre sue opere sono una tragicommedia, Le stravaganze d’Amore e d’Amicizia, Napoli, Beltrano, 1643 e una rappresentazione sacra Le meraviglie del S. Angelo custode, ovvero Lo Schiavo del Demonio, Napoli, Savio (poi Bonis), 1662.

43. Cfr. B. Croce, Intorno..., cit., pp. 429-430. Croce, che ricercò invano l’opera "nelle biblioteche locali della provincia d’Avellino e nella città natale del Giliberto", dove per altro aveva "un parente", riferisce che il Quadrio nella sua Storia e ragione di ogni poesia (III, I, 315) dice che fu stampato "in Bologna, molte volte" e che "l’Allacci nota che la rappresentazione era ‘in prosa’".

44. L’opera fu pubblicata per i tipi di Savio nel 1646. Sulla scia di questi studi dice il Graziani (op. cit., pp. 17-18) osservò la cometa del dicembre del 1664. Parlano di lui: N. Toppi, Sala Parrasio, Biblioteca Nazionale di Napoli, XIV, A, 40-41; G. Didonato, op. cit., p. 147. Enciclopedia Treccani, 13, p. 142.

45. Cfr. E. Malato, La poesia dialettale napoletana, Napoli, 1960; C. Celano, Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli, 1859; O. Caputo, Sacerdoti salernitani, Salerno, 1981, pp. 96-97; G. Didonato, op. cit., pp. 127-128; Enciclopedia Treccani, 24, p. 253. Il Fasano, nato a Solofra da Alessandro e Livia Murena nel luglio del 1645 risiedette tra Napoli, dove fece parte di diverse accademie tra cui quella degli Investiganti, e Vietri, dove la famiglia godeva le rendite e la gestione della chiesa di S. Maria e dove morì.

46. Cfr. B. Croce, Storia ..., cit., p. 189; N. Cortese, F. D’Andrea e la rinascenza filosofica in Napoli nella seconda metà del sec XVII, Napoli, 1923; S. Mastellone, Francesco D’Andrea politico e giurista, Firenze, 1969. .

47. Cfr. B. Croce, Noterelle e appunti di Storia civile letteraria napoletana del seicento in ASPN, 1925, pp.. 23 e sgg. Il Redi, che tra i suoi interessi aveva anche studi sul dialetto, parlerà dell’opera del Fasano in due lettere al Magalotti in cui espresse il suo apprezzamento per l’opera che, ancora in minuta, il Fasano gli aveva inviato affermando "senza di lui non sarò arrivato alla più profonda cognizione di molte finezze e proprietà [della lingua napoletana]". Lo stesso citerà poi nel suo Bacco in Toscana l’amico napoletano-solofrano.

48. Cfr. A. Quondam, Dal manierismo al barocco in Storia di Napoli, Napoli, 1970, pp. 337 e sgg.; D. Scarfoglio, Nazione e popolo nella questione del dialetto a Napoli nel secondo settecento in L. Serio, Risposta al Dialetto Nnapoletano dell’Abate Galiani, Napoli, 1982, pp. 26-28.

49. L’opera, che è impreziosita da note in cui è spiegata l’origine di diversi e particolari termini napoletani, ha per titolo Lo Tasso napoletano e fu pubblicata nel 1689 per i tipi del Raillard ed ebbe molte riedizioni tra cui l’ultima nel 1983. Un’ampia analisi dell’opera è in M. De Maio, Gabriele Fasano e Lo Tasso napoletano, in "Riscontri", n. 3-4, 1999, pp. 31-51.

Ed ancora bisogna citare il pittore Francesco Guarini (1611-1654)50, che lavorò a Napoli nella bottega del Ribera e dello Stanzione - quindi subì l’influsso del Caravaggio - proprio per uscire dalle pastoie della scuola ed indirizzarsi verso una più esatta osservazione naturalistica - "naturalismo di vena popolare" il suo - , e che nelle sue tele pose la medesima rivoluzione operata da quegli artisti. Il Guarini a Napoli non era uno sprovveduto, già suo padre Tommaso, autore del cassettonato della Collegiata di San Michele Arcangelo, aveva manifestato "stimoli e influssi toscani" prendendo ad esempio un tipo di soffittatura che da Firenze si era diffuso in tutti gli edifici religiosi del meridione dal tardo Cinquecento in poi51.

 50. Cfr. M. Grieco, Francesco Guarini da Solofra nella pittura napoletana del600, Avellino, 1963; L. Landolfi, Dei dipinti e della vita di Francesco Guarini da Solofra in Scritti vari, I, Napoli, 1886; D. De Dominici, Vita dei pittori scultori ed architetti napoletani, Napoli, 1742-1745; R. Causa, La madonna nella pittura del600 a Napoli, Napoli, 1954.

51. La soffittatura di Solofra rievoca "maggiormente il tipo vasariano di Palazzo vecchio" e al Vasari, che fu a Napoli, Tommaso si ispirò pure nelle "lunghe figure serpentinate" e nella visione dello sfondo (cfr. C. Volontieri, Giotommaso Guarino, il Vasari del sud, "Il Campanile", nov. 1982, p. 3).

A Solofra giungevano non pochi echi della scuola napoletana, figlia del razionalismo cartesiano, anche nella forma dell’opposizione o in quella di una moderata equidistanza, non immune dalla mentalità che Cartesio aveva portato a Napoli, e che dette inizio ai tempi nuovi dell’Illuminismo napoletano.

Tra coloro che respirarono questa nuova aria e che riuscirono ad immergere la mentalità cartesiana in quella napoletana ci fu Giuseppe Maffei (1728-1812)52, appartenente ad una di quelle famiglie che avevano contribuito a tenere stretti i legami con Solofra, e che nella Napoli del Settecento ricopriva un ruolo importante nei gangli della nuova aristocrazia. Frequentatore dell’Accademia degli Oziosi nella casa napoletana del suo amico Niccolò Maria Salerno53, si era formato alla scuola di Pasquale Cirillo e del Vico. Seguendo il filosofo napoletano il Maffei trovò nel cartesianesimo uno stimolo alla riflessione e al superamento di quel metodo, nella conquista del mondo della storia. Col rigoroso processo proprio della ragione, che era la ricchezza del cartesianesimo che neanche il Vico disprezzava, il Maffei, nell’applicare l’insegnamento vichiano, si volse al passato, correggendo il pessimismo in cui la nuova filosofia lo avvolgeva. Attraverso il percorso delle istituzioni civili del Meridione, indagate nella sua opera maggiore54, il Maffei scese nelle pieghe più genuine del vivere alla ricerca, nei "fatti", della ragione delle leggi, una "ratio" dell’ordine sociale. La sua fu un’indagine nelle stratificazioni del comportamento umano e nelle articolazioni del costume, avendo ben chiaro il senso della complessità e della dinamicità dei fenomeni umani, per individuare elementi comuni e strutturali utili a spiegare gli istituti giuridici della società, e a dare un contributo ad una rifondazione giuridica e teorica dell’"auctoritas". Con lui la "giurisprudenza storica", divenuta investigatrice, da una parte evitava il pericolo di travisare, con la perdita della prospettiva storica, le istituzioni del passato, dall’altra era tesa ad individuare modalità di interpretazione della realtà napoletana da cui dedurre i mezzi per l’azione riformatrice. Uno spirito "riformatore", dunque, il suo, improntato al concetto che l’uomo, nel cambiamento, deve agire, non spinto da irrazionali mode innovative ma aderendo alla realtà in cui si trova. Questo, tradotto in termini contingenti, significava che, date le peculiarità del Regno di Napoli, che non erano quelle francesi, non era "congeniale" al napoletano chiedere la caduta della monarchia. L’analisi del Maffei sull’origine dei feudi55 portava avanti, da una parte, la polemica antibaronale, sostenendo di risolvere il problema feudale per gradi, perché i baroni del suo tempo non erano il baronaggio che aveva procurato i danni del passato, dall’altra, indagava il fondamento storico della sovranità feudale di Roma su Napoli, affrontando il complicato problema del rapporto con la sede pontificia.

Era uomo del suo tempo anche quando sceglieva il latino per la sua dissertazione, perché questo esprimeva quel bisogno, da più parti sentito, e proprio del riformismo napoletano, di andare alle "migliori fonti" della lingua di Roma, e perché evidenziava quell’amore per la pagina scritta che non conosceva "la giurisprudenza pratica" del suo tempo. Il Maffei - colui che "disimpegna[va] gli affari collo scrivere piuttosto che coll’arringa"56 - sentì infatti, come magistrato e insegnante, tutto lo spessore politico e civile del suo impegno, teso ad incidere sulla realtà del suo tempo. Come professore all’Università57 e di una scuola privata58, partecipò al processo di rinnovamento, che si era innescato a Napoli, in una posizione riformista, che mise in evidenza, soprattutto quando fu Censore dei libri, dando la possibilità a molti studi che venivano dalla Francia rivoluzionaria di avere accesso in Napoli; poi quando collaborò alla riforma dell’Università, di cui fu rettore59; e quando aderì al fervore di studi e di idee che precedette il ’99. Per questo subì la carcerazione, durante l’opera repressiva dopo la scoperta della prima congiura giacobina nel 1794, e la chiusura della scuola privata, prima della fuga del re60.

 

52. Cfr. L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli, 1787, pp. 201-202; M. De Maio, I Maffei..., cit., pp. 24-33.

53. Cfr. L. Giustiniani, Breve contezza delle Accademie del Regno di Napoli, Napoli, 1801, p. 62.

54. L’opera, che raccoglie il frutto degli studi del Maffei, è Istitutionis Juris civilis Neapolitanorum, Napoli, edita nel 1784 (poi nel 1792) presso Bisogno, di cui disse il "Giornale Enciclopedico" nel 1785: "un eccellente lavoro di giureconsulto che professa la vera e non simulata filosofia" (p. 79).

55. Per questo aspetto indagato dal Maffei v. A. Rinaldi, Dei primi feudi nell’Italia meridionale, Napoli, 1886, cap. 1.

56. Cfr. L. Giustiniani, Memorie..., cit.

57. Cominciò ad insegnare all’Università nella cattedra di "Istituzioni civili seconda" (1761-1776), poi di "Istituzioni civili prima" (1776-1777), quindi di "Diritto del Regno di Napoli" (1777-1782) e di "Primaria mattutina o Codice e Novelle" (1782-1785), infine di "Diritto civile o Pandette" (1785-1811) (cfr. R. Trifone, L’Università degli Studi di Napoli dalla fondazione ai giorni nostri, Napoli, 1956, pp. 87-89).

58. Tutti gli autori che parlano di lui sono concordi nel sottolineare la fama della sua scuola privata.

59. Cfr. A. Amoddeo, L’Università degli studi di Napoli, Napoli, 1972, p. 23. Fu rettore dal 1792.

60. Cfr.  T. Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel regno di Napoli. Il Maffei risulta nell’elenco dei congiurati del 1794. Dice l’autore: "Questo elenco in ordine alfabetico ricavato dal citato Indice dei processi dell'inquisizione dei rei di stato dal 1794 in dopo il 1795, comprende i 443 giacobini o presunti tali che, tra il 1794 ed il 1797 vennero deferiti alla giunta di stato per rispondere di concorso nella congiura del 1794. In un documento pubblicato in "Atti della Repubblica Napoletana" da M. Battaglini risulta inoltre che Giuseppe Maffei fu posto in libertà il 25 luglio del 1798. Sicuramente fu tra quelli liberati in seguito alle proteste del rappresentante francese a Napoli Garat. Cfr. http://www.repubblicanapoletana.it/docume9971.htm. Tutti gli atti furono, per disposizione di Ferdinando IV, distrutti insieme a tutte le carte del periodo repubblicano. Michele Rossi trovò alcuni documenti presso gli studi privati dei difensori di alcuni imputati, quelli che furono processati nell'ottobre del 1794 (cfr. M. Rossi, Nuova luce risultante dai veri fatti avvenuti in Napoli prima del 1799. Monografia ricavata da documenti finora sconosciuti relati).

 

Non meno importante è la figura di Massimiliano Murena (1728-1781), che fu tra coloro che si riconoscevano nelle strutture esistenti della corona e della religione, pensando di trasformarle con una mediazione tra le istanze tradizionali e quelle modernizzanti61. Come "offiziale della real segreteria di Stato di Giustizia e Grazia di Ferdinando IV", scrisse una Vita di Roberto re di Napoli, un libro storico che risentiva dei tempi nuovi, in cui vichianamente affermava di aver scelto un argomento esemplare, utile "pel governamento comune della vita civile" per toglierla dall’oscurità "de’ fatti passati", e di volerla scrivere "scevra da ogni riguardo", secondo "la felice franchezza de’ nostri giorni e i chiarissimi lumi della moderna letteratura"; e perché in quel "tempo prosperoso" la figura del re angioino richiamava il "re nazionale" che "ci signoreggia e governa con santa mano"62. Nell’opera però anche sottolineava, non dimenticando lo stato in cui versava il meridione, che i principi devono "sacrificare le proprie passioni all’utile dello Stato"63. Fu amico del Genovesi con il quale condivise l’opposizione all’atteggiamento antireligioso degli illuministi e la convinzione che la ragione non è contraria alla religione, come pensavano tanti altri illuministi, avvertendo, dunque, il problema del loro accordo, che affrontò in uno scritto in cui affermava che la ragione è "ancella della divinità", creata da Dio nell’uomo che è "animale ragionevole"64. Da giurista si pose il problema dell’origine della legge che regola gli atti umani, indice dell’aspirazione ad uno stato di diritto, affrontandolo in due scritti65, in cui sostenne l’esistenza di un diritto naturale, razionale ed anteriore ad ogni organizzazione politico-giuridica. L’impostazione meramente giusnaturalistica era inquadrata in una visione religiosa, infatti, diceva il Murena, la legge naturale è creata da Dio e dipende solo dalla ragione, che è in grado di conoscerla e di seguirla. Il diritto naturale è, dunque, una questione di ragione; la giustizia è "legge" della ragione e "basta che sia palesata" da essa "per obbligare l’uomo"66. Dipendendo solo dal suo creatore la ragione umana è "libera" e "autonoma", e libertà e autonomia sono condizioni indispensabili per ogni progresso umano. Tale problema lo portò a cimentarsi con il padre del giusnaturalismo, Ugo Grozio - uno degli autori del Vico - di cui condivise la proposizione che il diritto naturale è legge vitale e primordiale dell’uomo, scolpita nel suo cuore, ma non la tendenza del pensatore fiammingo a separare i due elementi: "legge di natura" e "legge divina"; e con l’illuminista tedesco Samuel Pufendorf del De jure naturae et gentium (1672), di cui recepì il concetto che le società civili poggiano su convenzioni, che non possono essere in opposizione col diritto naturale. Non fu d’accordo, invece, con gli estremi esponenti di questa corrente, quando affermavano il distacco dalla religione, perché, diceva il Murena, tenendo presente Leibniz nel suo tentativo di fondare la giustizia nella natura immutabile delle cose, che il diritto naturale è voluto da Dio, che è "il Legislatore", ed è posto nell’uomo, che ne è l’oggetto, con la ragione"67. Dunque dalla volontà di Dio nasce la legge, e "con essa il buono, e l’uomo ha solo questa volontà da seguire ed è in grado di farlo col solo strumento della ragione"68. Sulla strada di un accesso a Dio per via di ragione ("della cui esistenza l’Uomo non è affatto in dubbio, parte colla ragione del principio, e tutto colla relazione delle cause" [...] "non solo la ragione ma li sensi stessi convincono" della esistenza di Dio69), il Murena affermava che "il dominio che ha Dio sopra dell’Uomo [...] nasce dalla ragione della sua origine", per cui l’ateo, che "non conosce Dio, non si toglie dal suo dominio essendo legge intrinseca che ve l’obbliga"; che "l’errore della sconoscenza di Dio è volontario", infatti "ogni uomo di sana mente abbastanza lo conosce co’ lumi naturali per mezzo della ragione"; che "chi non si serve della ragione, pecca nella legge naturale e il peccato è d’ingiustizia"; che "negare Dio" è "peccato contra la Giustizia", perché "la legge naturale vuole l’uso della giusta ragione"70. È la legge naturale che induce l’uomo ad operare secondo i suoi precetti, e lo obbliga a difendere tutto ciò che gli viene da lei, per cui obblighi di natura sono la conservazione del proprio corpo e la sua difesa, il diritto di procurarsi il cibo, dello scambievole soccorso, quello alla "generazione". Anche i diritti di commercio, di usare le vie di acqua e di terra liberamente, sono diritti naturali, e suonano tanto di tempi nuovi nel clima di prevaricazione di ciò che invece all’uomo spetta per natura. La legge naturale, che toglie al padre ogni diritto sulla vita del figlio, non emenda neanche il sovrano, anch’egli sottoposto al suo dettato. Ai prìncipi, anzi, la giustizia naturale assegna compiti diversi e dipendenti dal loro "stato", più precisi e pregnanti, perché il regno è un "corpo sacro ed eccelso". Per essi vale un principio unico per qualsiasi tipo di regno, che è "la salute dei cittadini e l’esercizio della giustizia", e vale "un solo fine": "il buon governo" e "la tutela del Popolo". "Ogni regno", continuava il Murena, "tien fitte sue radici nel cuore del Popolo, sale al suo capo, che è il principe, il quale gli dà nome e forma", e significativamente concludeva: "Felicissimo quello stato in cui dal capo alle membra discende e ritorna con bell’armonia la difficile cura dei pubblici affari"71. Di conseguenza il suddito è obbligato dalla legge naturale "a dirigere le azioni al suo comandamento"72, quindi a non seguire le "leggi ingiuste", "che offendono la Natura"; e, come uomo, ha diritto di conservare "la sua vita naturale, e nello stato della ragione; onde tutto ciò che conduce a questi due princìpi dev’egli per obbligo di giustizia seguitare; e resistere, e combattere tutto quello che ad essi repugnano"73. Se il diritto naturale obbliga tutti al maggior bene individuale, quello civile, che dipende dalle decisioni degli uomini e guarda al bene di tutti, non può non tenere presente che questi sono figli della società naturale. Le regole dello Stato, infatti, camminano pari con quelle naturali, e, se si distaccano dalle seconde, non devono mai offendere la Giustizia74. La legge di natura, inoltre, è "legata all’uguaglianza"75: nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali tra loro anche se la "fortuna cittadinesca è diseguale". In tal caso mai una persona, pure se supera gli altri per "stima", ha alcun diritto sopra gli altri uomini. "La servitù nasce" solo se "l’uomo debole vuole essere retto dal forte": gli imperi civili si formano dal consenso dei sudditi76. Qui il Murena non parla di patto sociale dei sudditi tra di loro con esclusione del principe, anche se si affaccia il principio della sovranità popolare tutelata dalla legge di natura, e, comunque, è chiara la direzione antiassolutistica del governo del principe, ed evidenti sono le implicazioni contro le immunità e i privilegi. Dallo stesso presupposto nasce, secondo il Murena, un’altra conseguenza, e cioè che "la stessa ragione, che dà il Diritto a’ popoli di vendicare le gravi ingiurie fatte a Dio, lo dà ad ogn’uomo nello stato naturale; non però nello stato civile, il quale disarma ogni cittadino dei propri diritti e lo pone in mano della somma Podestà. Si cambia nello stato civile il diritto della vendetta con quello dell’accusa; onde per principio di Giustizia naturale ciascun cittadino dee rivelare a’ Giudici quei delitti, che nello stato naturale a lui spettarebbe di gastigare. Quindi le leggi ecclesiastiche giustamente obbligano di accusare gli empi verso Dio"77. Seguendo Grozio il Murena sottolineava, infine, l’essenza universale del diritto di natura, che si fonda proprio sulla identità di natura degli uomini; infatti la ragione dimostra che la legge naturale crea la società universale, che da solo l’uomo non può conservare, per cui sono necessarie le alleanze, le leghe, le confederazioni, la scambievole difesa insomma, e la solidarietà tra i popoli78. Approfondendo nel Trattato delle leggi dell’onore il concetto della legge di natura, che obbliga ciascuno ad elevare le proprie azioni fin dove l’ingegno e le mani glielo permettono79, il Murena affermava che "la virtù umana è una parte della forza regolatrice dell’universo", per cui è "irregolare, tirannico e fiacco quel governo nel quale il meritevole venga escluso da qualsivoglia sua parte". Genovesianamente diceva che la disciplina dell’anima è disciplina della volontà, e significativamente sottolineava che la grandezza degli inglesi deriva dal fatto che sanno trattare gli uomini per il loro merito, mentre la miseria dei paesi è data dal fatto che "i nobili sono semidei e tutti gli altri semibruti". Ed ancora affermava che "fallisce lo Stato per la prodigalità e lo scialacquamento delle rendite"; che si devono distribuire giustamente gli onori, altrimenti "l’immeritevole ne fa cattivo uso", e si tentano mezzi immeritevoli per averli"; che i principi dovrebbero creare nobili solo quelli "che sono virtuosi e che agiscono per il pubblico bene"; e dei ministri dice che dovrebbero avere un’unica virtù: "il consiglio e la mediazione"80. Alla "civil tirannide", che opprime la virtù e la dignità dell’uomo, diceva che è vano avvilire l’uomo virtuoso, "perché la fame spande e conserva quell’onore" "che non si può cancellare per impostura", e perché "la forza di tal diritto da sé gli sostiene fra le menzogne e le oppressioni". Se è vero che "la quiete delle repubbliche non consiste tanto nel vero quanto nel certo", è anche vero che in due modi si perde nello Stato l’onor civile: fare certe azioni dichiarate disonorate ed esercitare offici vili ed infami". Stiano dunque attenti questi Stati che, se l’onore viene offeso, allora nasce l’ira, la vendetta, lo sfogo81. È una significativa analisi di una situazione che ha toccato limiti estremi cui l’autore opponeva una società idealizzata che si staglia su uno fondo tradizionalistico. Secondo il diritto naturale e civile il Murena affrontò ancora il problema della guerra e della difesa pubblica e privata nella dissertazione Delle pubbliche e private violenze, che ebbe il giudizio positivo del Genovesi per l’imprimatur82; e quello dei doveri del giudice, dove pose la giustizia alla base della felicità delle genti e additò tutte le responsabilità della giustizia corrotta, vendicativa ed ingiusta, sottolineando, anche qui, uno dei mali della società del tempo83.

 

61.Apparteneva alla citata famiglia impiantata a Solofra fin dal XV secolo, quando un ramo si stabilì a Napoli dove svolse compiti a favore della Universitas (cfr. Archivium Montis Verginis, CXI, 152). La famiglia solofrana fu dalla parte del feudatario, perché suo erario, nella lotta di questi contro la comunità e fu amico e protetto del marchese Faggianni. Scrisse un’orazione su Ferdinando IV e Maria Carolina.

62. Op. cit., "L’autore al leggitore". L’opera fu pubblicata presso Giovanni Gravier nel 1770, ricevendo l’autorizzazione regia e non quella dell’autorità religiosa perché improntato alle idee del Giansenio.

63. Op. cit., p. 33.

64. Lo scritto del 1776 è Panegirico della santissima religione cristiana cattolica pubblicato a Napoli nella stamperia Raimondiana, in cui il Murena attacca l’ateismo moderno.

65. La prima opera è La giustizia naturale pubblicata nel 1761 nella "stamperia simoniana", che ricevette, per gli argomenti affrontati, la "licenza de’ superiori" e l’"imprimatur" ecclesiale (v. Censure del libro, pagine finali) ed in cui, nelle note "al leggitore" (v. prime pagine), afferma che è stato spinto a riflettere su un argomento in cui "antichi pagani o moderni eretici" "si sono discostati dalla nostra religione". L’altra opera è Trattato delle leggi dell’onore, pubblicata nel 1769 dal Raimondi. In entrambe il Murena conduce la sua argomentazione cercando nel pensiero e negli eventi del passato una conferma al fondamento naturale dell’ordine sociale.

66. La giustizia..., cit., pp. 20-21.

67. Ibidem, pp. 18-19. Il Murena è per taluni versi anche sulla linea di Samuel e di Enrico Coccejo

68. Ibidem, p. 47.

69. Ibidem, p. 18.

70. Ibidem, pp. 34-35.

71. Ibidem, pp. 141-143, 147.

72. Ibidem, p. 8.

73. Ibidem, pp. 30 e sgg.

74. Ibidem, pp. 25-26.

75. Ibidem, p. 8.

76. Ibidem, pp. 235-236.

77. Ibidem, p. 37.

78. Ibidem, pp.149-172.

79. Trattato... cit., p. 8.

80. Ibidem, pp. 42-44, 48-51, 54. Significativamente il Murena si domanda: "Un ministro di Stato, per un’ora appoggiato col gomito al suo tavolino, ben meditando, e poscia conducendo un grand’affare; non s’acquista egli allora molto più d’onore, che molti altri agitati per anni a specular casi volgari, e a masticar prammatiche?" (p. 56).

81.Ibidem, pp. 62 e 66-69.

82. L’opera fu pubblicata a Napoli dai fratelli Simoni nel 1766.

83. L’opera Dissertazione de’ doveri del Giudice fu pubblicata a Napoli dai fratelli Simoni nel 1764.

 

Nella Napoli delle riforme di Carlo III si trovò ad operare Costantino Vigilante (1685-1754) la cui formazione, improntata ai tempi nuovi, si coglie nei libri della sua biblioteca solofrana84 che lo mostrano uno spirito aperto ai problemi del tempo, attento alle dispute, che vedevano la chiesa impegnata nei problemi posti dai progressi della scienza85, e che, nel rapporto tra ragione e religione, non accetta la chiusura dogmatica, apprezzando la prima, che molto può sovvenire la seconda, per esempio quando l’aiuta a non essere strumento di oppressione86. Egli riuscì, come tutta la non minuta schiera del clero "illuminato", a immettere linfa nuova nel ceto più potente della Napoli settecentesca, era, infatti, confessore del re e della regina e faceva parte del gruppo che circondava il Tanucci. Si mosse pertanto nell’equilibrio conservatore instaurato dal Borbone, e dette il suo contributo a tutte le riforme attuate nel campo ecclesiastico, convinto della necessità di porre un freno alla potenza economica e politica del clero. Era conscio del nesso negativo tra privilegio ecclesiastico e sviluppo economico e sociale, e della necessità di un atteggiamento misurato, che, gradatamente, riducesse l’eccessivo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e del numero dei chierici, che da quel privilegio derivavano. Conosceva bene questo problema, perché lo viveva nella sua terra d’origine dove si era prodotto un’elefantiasi nel numero dei preti, non sempre legata a motivi vocazionali e religiosi87, e sapeva la pericolosità di chi entrava nello stato ecclesiale senza un’adeguata preparazione, e, ancor peggio, senza vocazione, impegnandosi in questo senso.

Attraversò la lotta anticlericale della Napoli del suo tempo - in un momento di ripresa di quel movimento - , operando per sostenere il clima di rinnovamento, teso ad eliminare la secolare dipendenza di Napoli dalla Chiesa di Roma, comprendendo che la questione era un nodo essenziale per lo sviluppo del Mezzogiorno, e sostenendo la necessità di una regolamentazione delle materie ecclesiastiche da parte dello Stato. Aderiva dunque al clima di affermazione della nazione napoletana, ispirata al principio dell’autonomia laica dello Stato. Non portò però mai il contrasto con Roma e con il clero oltre un limite, e, quando questo si fece più forte per la questione dell’Inquisizione, mise in atto una non facile opera di mediazione tra il cardinale Spinelli, di cui era vicario, e il re, riuscendo ad evitare, più volte, la sommossa popolare e la restaurazione di quel Tribunale, ed operando per ridurre i rigori della censura sui libri.

Come sacerdote e vescovo di Caiazzo si pose il problema dell’ignoranza delle popolazioni, che le rendeva più facilmente oggetto delle prevaricazioni e dei soprusi, e che faceva sì che il loro lavoro fosse meno proficuo, operando nel senso di un’educazione della coscienza dei contadini. Sottolineava i pericoli della povertà, come causa di degrado morale e sociale e come conseguenza dell’appropriazione dei frutti del lavoro da parte dei privilegiati. Affrontò anche la non facile questione, che sentiva come storica e sociale, della necessità di dare un sostegno all’attiva borghesia rurale della fertile terra di lavoro, dove si avvertiva il problema dei beni feudali e la necessità di annullare gli impedimenti alla libera espansione delle forze produttive, adoperandosi in questo senso e ricorrendo persino all’arma della scomunica contro gli oppositori delle sue riforme.

Lavorò, inoltre, aiutato dal clima di generale rinnovamento, per liberare la religione dalle forme di bigottismo esteriore e di cieco dommatismo, specie negli ambienti di corte, dove predominava la superstizione, convinto che bisognava combattere contro la religione che diventa dogma o sfocia nella magia. L’opera di rinnovamento religioso e di riscoperta della genuinità del messaggio cristiano non poteva, però, essere portata a termine se permaneva l’ignoranza di una parte del clero, si adoperò, pertanto, per l’educazione di "nuovi" sacerdoti, capaci di mettere in atto una nuova azione di evangelizzazione delle masse88.

Costantino Vigilante portava a Solofra, nelle frequenti visite, questo suo aprirsi alle istanze dei tempi nuovi e questo suo immergerle nella realtà, e portava la fiducia nell’autorità monarchica, che aveva acquistato spessore con l’avvento di re Carlo.

Se di rilievo furono questi tre rappresentanti dello spirito di rinnovamento del Settecento napoletano, che facevano parte di quella aristocrazia cittadina che si distingueva da quella baronale, e che sosteneva quel complesso movimento di svolta di tutta la situazione napoletana, delineando un albeggiare di nuovi ideali sul piano etico, politico e sociale, non meno importanti devono considerarsi altri rappresentanti della società solofrana, che da varie angolazioni e in diversi modi, parteciparono ai tempi nuovi, e che, pur se non ben conosciuti, dettero un contributo nell’alimentare l’atmosfera di rinnovamento che visse la Napoli prerivoluzionaria.

 

84. Il Vigilante apparteneva al citato ceppo solofrano, una vera forza della società locale. Laureato in utroque jure, ebbe un’ampia educazione classica, si interessò in modo preminente della Francia, nazione di cui studiò la lingua e la storia, specie quella delle lotte religiose, approfondì i problemi del Regno di Napoli, studiò medicina e geografia. Queste notizie e altre di seguito sono dedotte dallo studio dei libri della sua biblioteca di Solofra, di cui fu redatto un inventario, lui vivente (ASA, B6844, 147v-166r).

85. Seguì la polemica tra il cardinale Bellarminio e il Foscari.

86. Seguì la vicenda dell’abbazia di Portoreale, conobbe la filosofia del Seicento e Giordano Bruno. Per queste ed altre notizie v. O. Caputo, I vescovi nati nella diocesi di Salerno e Acerno, Salerno, 1982, pp. 353 e sgg.; R. Ritzler-P. Sofrin, Hierarchia Catholica, V, p. 135; G. Didonato, op. cit., pp. 209-211; Archivio Segreto Vaticano, Relazione ad limina, 1732; Id, Proc. Dat., v. 104, f 420.

87. Il catasto onciario (cit.) denunzia una pronunciata presenza ecclesiale a Solofra di oltre cento sacerdoti, 5 monasteri, 15 chiese, 21 benefici, 11 confraternite, 8 cappelle, una mensa arcipretale ed una parrocchiale, due masse, 7 monti laici.

88. Mise in atto questa opera insieme ad Alfonso Maria dei Liguori, che fu suo amico ed anche suo ospite a Solofra, con la creazione dell’ordine dei Redentoristi (cfr. A. Barthe, Sant’Alfonso de’ Liguori, Pagani, 1933; A. Capecelatro, La vita di S. Alfonso Maria de Liguori, Roma, 1893).

 

Un posto di prim’ordine occupò Felice Giannattasio (1759-1849)89, sacerdote e studioso delle scienze matematiche. A Napoli frequentò l’Ignarra, e il Conforti, come lui giansenista per gli ideali di riforma dello Stato. Fu allievo di Luca Giordano con cui approfondì vari problemi di geometria, sostituendolo poi nella sua scuola. Ebbe modo di operare, sia all’Università che in una scuola privata che gli dava maggiore libertà, dove portò l’esperienza dei suoi viaggi in tutta Italia e della sua amicizia col naturalista francese Daniel Daubenton, e dove, insieme al Fregola, dette inizio ad un’ampia azione di diffusione della conoscenza di Newton con la spiegazione dell’opera fondamentale della fisica classica Philosophiae naturalis principia mathematica sia nella metodologia, che nella descrizione della grande macchina del mondo. Legato agli approfondimenti da lui condotti su Newton, nacque il suo studio sulle Sezioni coniche, che indagava "la cagione del mirabile fenomeno delle curve della natura, le orbite delle comete e le ellittiche traettorie", e che fu scritto "a pro’ de’ giovinetti"90. Aveva quaranta anni quando Napoli visse l’esperienza rivoluzionaria, durante la quale subì i danni del sospetto e dell’isolamento vedendo anche la chiusura della sua scuola.

 

89. Nacque in una famiglia di commercianti e possidenti solofrani residenti a Napoli. Prima della rivoluzione pubblicò Riflessioni sulla quadratura dell’iperbole e un Trattato sulle Sezioni coniche (1791) e dei libri a servizio della sua scuola: Opuscoli di nostra scuola e Tactionum per la soluzione di problemi. Contribuì alla pubblicazione delle opere del Forte seguendo una via diversa da quella percorsa dal Fontana, quella dell’Analisi elementare. Ebbe i maggiori impegni nel periodo napoleonico quando fu professore al Liceo del Salvatore (1806) ed ebbe la cattedra di "Astronomia e di Sintesi sublime" (1812) e quella di "Meccanica celeste" (cfr. G. Didonato, op. cit., pp. 137-141; V. Flauti, Elogio dell’abate Felice Giannattasio letto alla Reale Accademia delle Scienze, Napoli, 1850).

90. Introduzione a Trattato... cit. che risultò "il più completo trattato su Newton", giungendo nel 1836 alla decima edizione.

 

Altro cultore delle scienze precise fu il sacerdote Matteo Barbieri (1743-1789)91, che da insegnante potette improntare i giovani alle nuove idee, specie quelle di Giansenio, di cui fu seguace nella lotta antigesuitica che a Napoli ebbe particolare virulenza, e nell’avversione all’uso della ragione nelle questioni di fede, per le quali, diceva, vale la "memoria della tradizione". Coerentemente a questo suo credo si impegnò soprattutto nel far conoscere coloro che avevano partecipato allo sviluppo delle scienze matematiche e filosofiche nel meridione, perché "chi sta al buio va cercando luce", e per "produrre buon governo", diceva nella prefazione.

Anche gli studi di Marianna Vigilante - le scienze naturali, la fisica e l’astronomia - dimostrano quanto fosse diffuso l’interesse per le scienze nuove e quanto fosse importante l’impegno per la loro conoscenza. La Vigilante infatti tradusse e pubblicò nel 1789 gli Elementi di geografia e di Astronomia di Isacco Watts92.

Tra gli uomini nuovi del Settecento deve porsi Leonardo Santoro (1764-1853)93, che operò nel campo della medicina come innovatore coraggioso delle tecniche della chirurgia. Insieme a Bruno Amantea e ad Angelo Boccanera mise in atto una vera rivoluzione, che dava dignità di scienza alla chirurgia spazzando completamente l’alone di sospetto e di volgarità che l’avvolgeva tanto che ne era stato abbandonato perfino l’insegnamento94. Contribuì col suo operato al periodo più riformatore della seconda metà del ’700 educando la generazione della rivoluzione alle nuove tecniche. Vichianamente sentì il bisogno di dare un’impostazione storica alla sua opera e lo fece mediante gli studi sugli strumenti chirurgici scoperti a Pompei e l’interpretazione dei testi antichi. Ciò fece sì che le sue novità, non prive del senso ottimistico proprio delle riforme, ebbero il sostegno della disciplina e della operosità scientifica oltre ad essere aperte alle esperienze che venivano da fuori, e naturalmente dalla Francia. Proficuo fu il travaso di esperienze che da quel paese venne a Napoli, specie tramite il medico Depuytren, di cui fu amico e corrispondente. Nell’anno in cui scoppiò la rivoluzione pubblicò le Lezioni di chirurgia del medico piemontese Bertrandi con note così estese da costituire, esse sole, un vero trattato, operazione che legò la chirurgia napoletana a quella piemontese. Anche se l’opera non fu portata a termine per la rivoluzione, fu per molto tempo una guida insostituibile per tanti studenti, che impararono a liberare gli antichi precetti dalla erudizione.

 

91. Fu professore alla Real Piaggeria e autore di Notizie storiche dei matematici e filosofi del Regno di Napoli pubblicato nel 1778 alla tipografia Mazzola (cfr. O. Caputo, Sacerdoti..., cit., pp. 26-27; F. Soria, Memorie storico-critiche degli storici napoletani, tomo I, Napoli, 1781, pp. 60-61; P. Napoli-Signorelli, Vicende della cultura, Napoli, 1810; F. Scandone, Giacobini e sanfedisti in Irpinia, Avellino, 1956, p. 20 e n 4).

92. Cfr. G. Didonato, op. cit., p. 211. La traduzione, arricchita con note, fu pubblicata per i tipi di Gaetano Raimondi a Napoli.

93. Cfr. S. De Renzi, Elogio Storico di Lionardo Santoro, Napoli, 1853; C. Conte, Gli stabilimenti di beneficenza di Napoli, Napoli, 1884, p. 209; E. Sabatier, Medicina operatoria, Napoli, 1822, tomo II, p. 169; F. Scandone, Giacobini..., cit., p. 21 n.3 ; R. Combes, Della medicina in Francia e in Italia, Napoli, 1843, Appendice del traduttore napoletano, p. 236. In ASA B7044 testimonianze degli stretti rapporti anche economici del fisico solofrano-napoletano con la famiglia nel paese di origine.

94. Basti pensare che si arrivava a quei tempi all’eccesso che il medico dirigeva e il cerusico procedeva manualmente.

 

Sulla scia del Maffei e suo allievo fu Gaetano Giannattasio (1777-1842)95, che divenne esperto di diritto amministrativo nella ricerca di uno strumento per coloro che devono governare tanto che i napoleonici lo vorranno tra i loro collaboratori; dello stesso ceppo si ricorda l’avvocato Francesco, che affrontò il problema della riforma del "lusso" del secolo in un memoriale inviato a Carlo III, in cui si coglie la mentalità retrograda, che divideva le persone per "ordini", e che attribuiva al principe la felicità dei sudditi, ma si avverte anche un bisogno di cambiamento di taluni comportamenti sentiti nella loro sproporzione96. Altri giovani che vissero gli eventi rivoluzionari furono due rampolli di casa Ronchi: il matematico Giovan Battista (1770-1840), che fu architetto ed autore di varie invenzioni tecniche97, e il medico e chimico Maria Salvatore, insegnante all’Università proprio nel decennio che va dalla rivoluzione francese a quella napoletana98; e, del ceppo dei Fasano, il fisico Tommaso, professore all’Università dal 1759 al 179799.

 

95. Cfr. G. Didonato, op. cit., pp.141-143; M. Iannacchini, op. cit., pp. 279-281; F. Scandone, Giacobini..., cit., p. 21 n 3.

96. Di questo solofrano si è rintracciato solo uno scritto e cioè Memoriale a Sua Maestà intorno alla riforma dello Stato o sia lusso del presente secolo, di cui è supplicata la M. S., senza data e luogo di pubblicazione.

97. Cfr. G. Didonato, op. cit., pp. 189-205. Tra le invenzioni citate dal Didonato ci sono un organetto che una ruota faceva entrare in funzione e un cronometro.

98. Era nato nel 1773. All’università insegnò Medicina forense (1789-1799) e Chimica (1799-1805) (cfr. R. Trifone, op. cit., p. 89).

99. Cfr. R. Trifone, op. cit., p. 89. Insegnava "Fisica sperimentale".

 

Non mancano i sacerdoti - quel clero che fu una classe importante a Solofra - tra cui vale la pena citare alcuni appartenenti all’antico ceppo dei Garzilli, che parteciparono direttamente o indirettamente agli eventi di fine secolo, visto che uno di loro, Serafino, di cui si dirà, fu tra i "rei di stato"100. Abate era Niccolò Giliberti, del quale si ha un’orazione recitata all’Accademia degli Oziosi, nella casa di quel Nicola Maria Salerno frequentata da diversi solofrani, in cui fece una pungente satira contro i "modi del secolo", quelli contro cui si muovevano i novatori101.

 

100. Da citare Taddeo (1699-1761) che, mentre era vicario di Benevento, intervenne nel dissidio tra Napoli e Roma (cfr. F. Garzilli, Vite religiose nella famiglia Garzilli, Napoli, 1941, p. 23; O. Caputo, Sacerdoti..., cit., pp. 117-118); Nunziante (1704-1731), filosofo e poeta (cfr. G. Didonato, op. cit., p.137); Carmine Filippo (1727-1815), che durante i fatti rivoltosi era rettore a Napoli di S. Antonio viennese (cfr. F. Garzilli, Vite..., cit., p. 40; O. Caputo, Sacerdoti..., cit., p. 113-114); Marco Pasquale (1728-1812), uomo di scienza e poeta, autore di due drammi, Il Gaudio dei Pastori (Napoli, 1760) e Passione di Gesù Cristo (Roma, 1766), e della traduzione del Telemaco (cfr. G. Didonato, op. cit., p.131); un altro Taddeo (1774-1848), matematico e allievo del Fregola, che come vescovo partecipò ad una vertenza tra il re e la santa sede circa le limitazioni delle ordinazioni sacerdotali, mentre nel ’99 fu nei moti insieme al cugino Serafino (cfr. F. Garzilli, Vite..., cit., p. 122; M. De Bartolomeis, Storia di Salerno, sua archidiocesi e Provincia di Principato Citeriore, Salerno, 1894, p. 94).

101. La satira, intitolata Cerimonie moderne e pubblicata nel 1734, mette alla berlina, le acconciature, gli inchini, i titoli e tutte le minute facezie del vivere vuoto che il secolo combatteva.

 

Accanto a questi solofrani bisogna citare i tanti che andavano a studiare a Napoli frequentando le scuole, in cui "si leggevano e si commentavano le opere più significative dell’Illuminismo napoletano e degli scrittori dei tempi nuovi", che si scuotevano da tutto ciò che era passivamente accolto e che venivano a contatto, spesso insieme alle loro famiglie, col movimento giacobino, non ancora rivoluzionario e messo all’indice, e in cui trovavano riscontri col moto antifeudale solofrano soprattutto nel desiderio di abbattere le vecchie strutture. Colsero costoro, in questo fervore, la collaborazione tra la monarchia e i riformatori, soprattutto seguirono, perché interessati dalla realtà che avevano nella loro terra, le innovazioni della regina Carolina, tese a svecchiare l’economia, trovandosi concordi con tutto ciò che significava trasformazione dell’antico regime. Parteciparono, insomma, al moto riformatore, alcuni accettando la monarchia illuminata, altri sentendo l’insofferenza verso ogni forma di sudditanza. È tutta una classe intellettuale che, se non ha lasciato scritti, pure prese parte e visse questo nuovo modo di sentire, comunque ebbe sentimenti riformatori, creando quella che Croce chiama la "prima e fondamentale riforma" di "aver formato se stessa"102, riforma che esportava nel paese natio dove aveva ruoli dominanti.

 

102. Cfr. B. Croce, Storia..., cit., p. 198.

 

Capitolo terzo

 

La realtà solofrana ebbe, dunque, tutta la possibilità di venire a contatto o di accompagnare il focolaio di idee dell’Illuminismo napoletano, che si sviluppava in un felice accordo tra istanze innovatrici e realtà esistente, e che però si ruppe quando a Parigi scoppiò la rivoluzione, perché anche a Napoli i reali, come tutti i principi illuminati, ebbero paura. La regina Carolina, che aveva accolto a corte le logge massoniche, cambiò atteggiamento, sia verso i riformisti che verso la massoneria, lasciandosi trasportare da manifestazioni antifrancofone, e giunse a perseguitare tutti coloro che avrebbero potuto introdurre in Napoli le novità francesi, avviando una nuova politica che aggravò la situazione economica.

Si diffuse una forte delusione che fece nascere, anche negli ambienti più ossequienti, un atteggiamento ostile verso la monarchia, e fece colorare di democrazia le idee riformatrici fino ad allora vissute all’ombra della corona. Si cominciò ad avvertire il peso delle grettezze della religione, si discussero i principi politici della Francia rivoluzionaria, si aspirò all’uguaglianza e alla libertà, e naturalmente si affrontarono problemi economici e sociali. La corrente riformista della massoneria si aprì a un numero maggiore di studenti e ad elementi dell’artigianato, cui si aggiunsero anche alcuni feudatari103, evoluzione favorita dal fatto che a Napoli molti erano in contatto con il fervore proveniente sia dalle altre parti d’Italia che dalla Francia. I circoli massonici si trasformarono in centri di diffusione di idee più libertarie, in cui si delineava la realizzazione di una società più giusta in opposizione alla monarchia.

La rottura con la situazione precedente avvenne nei salotti napoletani - tra essi c’erano quelli di Giuseppe Maffei e di Leonardo Santoro - dove si lavorò nell’illusione che la realizzazione di ciò che già era avvenuto in Francia avrebbe potuto evitare a Napoli un bagno di sangue. Tra questi salotti e l’Università il passo fu breve, qui infatti si formarono gruppi di studenti con programmi di divulgazione giacobina, uno dei quali, cui apparteneva il montorese Vincenzo Galiani104, contribuì alla diffusione del giacobinismo in tutta l’area montoro-sanseverinese105; e qui scoppiarono i primi tumulti che provocarono una forte azione repressiva, che pose sotto controllo i professori, e che giunse anche a diversi arresti tra cui quello di Giuseppe Maffei106.

 

103. Furono attente a questi eventi due baronesse di Solofra, due Caracciolo, Maria Teresa, figlia di Marino Francesco, principe di Avellino, e sposa di Filippo Bernardo Orsini II, e Faustina, figlia di Giuseppe di Torella, sposa del loro figlio Domenico, premorto al padre, e tutrice di Domenico IV Orsini, delle quali la seconda venne denunziata per reità di stato nel 1795 (cfr. F. Scandone, Cronache del giacobinismo irpino, in "Atti della Società Storica del Sannio", a. X, f. III, sett.-dic. 1932, pp. 114, 116).

104. Cfr. V. Cannaviello, Giuseppe Cammarota e i martiri irpini, Avellino, 1900, p. 11.

105. Cfr. F. Scandone, Il primo pioniere dell’idea liberale nel Mezzogiorno e i più antichi patrioti calabresi, Napoli, 1924, p. 17. Quando fu scoperta la congiura del ’94 furono trovate delle carte compromettenti proprio a S. Severino.

106. Cfr. F. Scandone, L’Università degli studi in Napoli nel’700, Santa Maria Capua Vetere, 1927, p. 52. Il Maffei aveva sostenuto varie richieste di professori e di studenti (p. 48).

 

Tra i novatori che si convertirono alla rivoluzione, impegnandosi a fare nuovi proseliti, ci furono - i documenti sono in questo caso avari107 - alcuni solofrani che avevano anche dimora a Napoli: il sacerdote Alessio Ardolino, coi fratelli artigiani e mercanti Gaetano e Michele, e il figlio di quest’ultimo Biagio108; l’artigiano del battiloro Nunzio Giannattasio, Carlo Grasso, un negoziante di pelli con rapporti commerciali con la Puglia109; il conciatore Gaetano Trombone col fratello Giuseppe110; l’artigiano Michele d’Andri111; Salvatore Papa, figlio di Filippo il mercante coinvolto nella diffusione del primo giacobinismo112, e come lui si può verosimilmente pensare che anche gli altri avessero una qualche implicanza in questi primi fatti napoletani, visto che tutti saranno poi colpiti dalla repressione borbonica; e ancora tre membri dell’ampio ceppo dei Garzilli, ma appartenenti a due diversi rami, sempre però mercanti e finanziatori che avevano residenza e attività a Napoli: il citato Serafino, segretario della curia arcivescovile napoletana113, il "fisico" Antonio114 e Ferdinando; infine l’avvocato Giuseppe Vigilante, notaio della corte di giustizia di Napoli.

 

107. Diverse fonti forniscono i nomi di queste persone con scarse notizie (cfr. "Rassegna storica napoletana", 1935, III, pp. 60, 73, 75, 81, 87; Filiazioni dei rei di Stato, p. 76). Altre notizie sono prese da documenti notarili del periodo in esame alcuni dei quali sono posti in appendice.

108. La famiglia Ardolino svolgeva a Solofra attività artigianali (sartore e scalpellino) e commerciava con Napoli in pelli e generi vari.

109. La famiglia Grasso, presente a Solofra fin dal XV secolo con proprietà e attività artigiano-mercantili e membri impegnati nella gestione dell’Universitas, ebbe nel XVIII secolo uomini di legge ed ecclesiastici.

110. La famiglia Trombone, di non antico innesto, apparteneva al medio ceto solofrano.

111. Era un pugliese trasferitosi a Solofra, dove si era imparentato con la famiglia Guarino.

112. Cfr. A. Simioni, La congiura giacobina del 1794, in ASPN, 1914; B. Croce, I Giacobini napoletani prima del ’99 in La rivoluzione napoletana del 1799, Bari, 1912, p. 193. Il nucleo solofrano dei Papa facente capo a Filippo, che dal catasto risulta impegnare nelle attività mercantili 500 ducati, aveva aperto a Napoli una base per le proprie attività mercantili.

113. Era cugino del vescovo di Marsiconovo, Paolo, e di Francesco, che nel 1790 si era imparentato con i Santamaria-Amato di Napoli (cfr. F. Garzilli, Vite..., cit., pp. 105 e sgg.).

114. Fu tra quelli che subito abbracciarono la fede giacobina (cfr. Appendice, n. 30).

 

A Solofra non mancavano elementi che davano sicuri segni di giacobinismo - era stato inviato un corpo di fucilieri per controllare la zona115 - che non era di recente formazione come alcuni frati del convento di S. Agostino116. Una cellula giacobina si era formata a S. Agata117, che aveva più diretti rapporti con Montoro per i molti legami anche parentali con famiglie di quella zona118. Il collegamento più riguardevole fu con la cellula giacobina solofrana, attraverso uno dei giacobini montoresi più convinti, Vincenzo Galiani, la cui famiglia era imparentata con i Landolfi di Solofra tramite la di lui madre Saveria Pepe119.

 

115. Era comandato da Gregorio Trentacapilli (cfr. ASA, B7043, 143).

116. I padri agostiniani, tra cui il solofrano Gio Francesco Ronca, all’atto della costituzione della repubblica, dichiararono che essi erano "patrioti" "già da sette anni addietro" (cfr. Appendice, n. 30).

117. S. Agata era un centro a forte caratterizzazione artigiana con ferriere e concerie e con una situazione sociale dominata da un ceto bracciantile e piccolo artigiano da cui si era staccato un ramo accedendo al ceto civile, forte economicamente anche rispetto al patriziato solofrano (dal catasto del 1754 risulta - Gennaro - avere un impegno in partite di mercanzie di 6000 ducati, mentre a Solofra la cifra più alta si fermava a 2500 ducati). Proprio il nipote di Gennaro, Nicolantonio, entrò nel ceto nobiliare non con la compera del titolo ma sposando, nel 1761, la principessa Maddalena Orsini e creando un nuovo ramo che si chiamò Maiorsini (cfr. ASA, B 6920, 437).

118. Dei rapporti parentali tra le famiglie santagatine, ma anche solofrane, e quelle montoresi si trovano molte tracce negli atti notarili.

119. Il Landolfi, che apparteneva ad un ceppo importante del patriziato solofrano, di cui si è detto, sposò Maddalena Pepe, figlia di un cugino di Saveria, Pasquale (cfr. ASA, B4498, 46v), marito di Anna Garzilli di Solofra (cfr. ASA, B7043, 143v).

 

Forte fu la paura seguita ai primi arresti, e poi alla notizia che nelle repressioni era incappato il Galiani, per cui molte persone furono costrette ad allontanarsi - i Landolfi per esempio nel sanseverinese120 - , e si mise in azione una banda di briganti121, protetta da sicuri rifugi sulle montagne di Solofra - tra il Pergola e il monte Garofalo - , comunque si diffuse o per lo meno si conobbe più ampiamente il movimento giacobino.

 

120. Cfr. ASA, B4465, 104v. Anche i Galiani di Montoro fuggirono (cfr. ASA B 4499, 77v).

121. La comitiva di Solofra, guidata da Carmine e Nicola Caraviello, era costituita da diversi disertori come i solofrani Nicola Santoro e Luca di Girolamo (cfr. F. Scandone, Cronache...., cit., pp.115, 117).  

 

Date le già analizzate caratteristiche di questa società è facile individuare il settore sociale in cui si propagarono le speranze giacobine e cioè tra quegli elementi del basso ceto artigiano che attribuivano il loro stato a chi era riuscito ad emergere e che erano aperti a qualsiasi cosa che avrebbe potuto portare al cambiamento. Ma c’erano anche i "bracciali", che soffrivano l’oppressione delle prepotenze baronali e borghesi, e che si adagiavano in una forma di acquiescenza, aspettando l’ora della resa dei conti, e che quindi istintivamente sostennero chi faceva prevedere che fosse venuta l’ora del riscatto, già manifestando atteggiamenti proletari. È utile sottolineare questa tendenza che si individua tra le masse lavoratrici di Solofra, che colorano la loro partecipazione di un significato tutto legato alla lotta contro il padrone. Si può cogliere infatti una larvata coscienza della propria classe, che però non era ancora accompagnata dall’idea di lottare per essa, nell’affermazione: "nui avimmo le braccia", di un operaio nei riguardi del padrone, che, paventando gli esiti della repubblica, diceva "ca se no (altrimenti) voi [operai] site muorti e noi [padroni] jammo pezzenno". Si coglie qui però anche un certo passivo distacco, che caratterizzò l’atteggiamento di parte del braccialarato, di chi non ha niente da perdere e per questo si sente forte nei riguardi del padrone, contro la cui rovina egli oppone le sue "braccia", offrendole magari ad un altro padrone, che però ha il merito di averla fatta pagare al primo122. Vale la pena a tal proposito considerare che l’area solofrano-santagatina esprimerà in modo autonomo e forte, un secolo dopo, un ben radicato movimento socialista123.

 

122. Cfr. Appendice, n. 29.

123. Introduzione ad A. Famiglietti, I miei ricordi, a cura di Mimma De Maio, Solofra, 1989.

 

Diversa fu la situazione degli appartenenti al ceto colto. Il dibattito che si era svolto nella seconda metà del700 mostra la consapevolezza di questo ceto circa la improrogabilità di più o meno radicali cambiamenti, ma questi dovevano tendere a rafforzare l’autorità del re e a colpire la feudalità con l’abolizione di alcuni privilegi, cosa che era in linea con l’atteggiamento rivendicativo solofrano. La situazione, già allora incerta su "come" si doveva "rinnovare" per i forti interessi economici di questo ceto, divenne confusa quando il re deluse le aspettative. Delusi furono proprio quei progressisti, come il Maffei, che erano stati incoraggiati dalla corte sulla via delle proposte riformatrici ed ora venivano incarcerati e guardati con sospetto, o come il Giannattasio e il Santoro che videro bloccate innocue attività di progresso scientifico. Questo ceto, per il fatto che la situazione era stata presa in mano da elementi del ceto inferiore, colorandosi di rivendicazioni di classe, fu subito antirivoluzionario. Pur tuttavia molti suoi elementi si schierarono, senza preclusioni, affianco dei novatori solofrano-napoletani, alcuni dei quali per altro appartenevano a questo ceto.

Da Napoli intanto giungevano le notizie delle misure preventive, poste in essere da re Ferdinando, e che ponevano in difficoltà le persone più esposte, molte delle quali furono costrette a ritirarsi nella terra di origine. Lo stesso Leonardo Santoro, che, come si è visto, aveva rapporti di studio con un medico francese, fu costretto a ritirarsi nella sua casa solofrana in attesa di tempi migliori124, mentre il Giannattasio, che aveva un fratello vicario vescovile a Bari, si ritirò presso il congiunto, e fu negli anni prerivoluzionari lettore di geometria a Bari125. Solofra comunque fu tra quelle terre verso cui si volsero le attenzioni della corona per via dell’attività mercantile, che diventava pericolosa in un simile frangente, perciò stretta fu la vigilanza su coloro che avevano più diretti contatti con Napoli, soprattutto i mercanti e i viaticali che formavano l’anello di unione tra la capitale e questa zona dell’interno126.

 

124. Si coglie dalla lettura degli atti notarili la presenza a Solofra di diversi solofrani-napoletani come, oltre al Santoro, il Maffei, il Giannattasio ed altri.

125. Cfr. ASA, B6921, 78.

126. Ci sono dichiarazioni notarili che parlano esplicitamente di "lunga amicizia" e di "frequentazione mercantile" tra mercati napoletani e solofrani, per distogliere il sospetto che questi contatti potessero essere di altra origine (cfr. ASA, B7043, 5).

 

A diffondere in questa situazione confusione e sconcerto fu la campagna di propaganda antifrancese, messa in atto dal clero, che dagli altari tuonava contro l’ateismo della rivoluzione francese in veglie di preghiera per il re e per la sua opera in difesa della patria e di Dio. In tale clima fu facile, da una parte aizzare gli animi, dall’altra abbandonarsi ad azioni vandaliche e di ritorsione contro chi aveva avuto una qualche dimestichezza con la Francia o azzardava idee repubblicane o anche sembrava solo tale. In questo clima furono distrutti, per paura, parte dei libri di Costantino Vigilante che erano toccati ai nipoti, figli del fratello, e sicuramente quelli che trattavano argomenti francesi127.

La lotta civile, che aveva - non meno di un secolo addietro - creato forti contrasti nella società solofrana, ebbe una recrudescenza, e presto si formarono due partiti: quello borbonico e quello repubblicano, quest’ultimo perseguitato anche tra i non aderenti o semplicemente sospettati. L’azione di repressione fu così capillare e diffusa che bastava un semplice sospetto per andare in galera tanto che le carceri locali si riempirono di prigionieri128. Di questa ondata di arresti fu vittima il citato Ferdinando Landolfi, che fu sospettato di complotto ("per alcune sue pretese inquisizioni") con la famiglia Galiani di Montoro; sicuramente egli aveva stipulato un contratto di matrimonio con Maddalena Pepe, parente del giustiziato Vincenzo Galiani, per cui subì la reclusione nelle carceri del castello di Solofra129, ed insieme a lui Donato Maffei, un montorese di origine solofrana130.

A Napoli Giuseppe Maffei, per lo spessore della sua personalità, riuscì ad essere scarcerato, subì però, per il fatto che tutte le attività erano diventate precarie specie quelle culturali, la chiusura della sua scuola privata131, come si bloccarono sia l’impegno divulgativo di Leonardo Santoro che l’opera didattica di Felice Giannattasio.

 

127. Cfr. ASA, B7029, 3.

128. Nell’agosto del 1798 risultavano rinchiusi nei castelli di Solofra, Montoro e San Severino oltre un centinaio di sospettati (cfr. F. Scandone. Cronache..., pp. 110-119).

129. Cfr. ASA, B7043, 143v. Con lui c’erano diversi mercanti e disertori solofrani.

130. Fin dal XVI secolo un ramo dei Maffei di Solofra si era trasferito a Montoro, mantenendo rapporti con il ceppo solofrano, che d’altra parte era abbastanza circoscritto.

131. Cfr. Raccolta di Disposizioni, Ms. 30, A, 14, 25 luglio 1798.

 

In questa situazione giunse, nel settembre del 1798, la leva "forzosa", per difendere il napoletano dalle armi francesi, che vi si dirigevano dallo Stato pontificio. Solofra vi partecipò con 50 "miliziotti", che furono arruolati in pochi giorni132, che, pur se chiamati "volontari", misero in atto diversi tentativi di evasione o renitenza dando molto lavoro al governatore incaricato delle operazioni133. Essi andarono a far parte dell’esercito col quale Ferdinando si avviò alla volta di Roma.

 

132. Cfr. Appendice, n. 1. Il dispaccio arrivò a Solofra il 2 settembre e fu letto dinanzi alla Collegiata dal governatore Giacomo Imbellone alla presenza delle autorità amministrative e religiose, e della popolazione, radunata al suono delle campane.

133. Cfr. ASA, B4486, 46r; B6941, 273v. Sia a Solofra che a Montoro ci furono episodi di renitenza.

 

La notizia della sconfitta, unita all’indignazione per aver visto le chiese "saccheggiate", per far fronte alle spese di guerra, degli arredi sacri, dette voce alla politica antifrancese, che aveva inculcato il timore verso le truppe dell’anticristo, che ora apparivano nella luce bieca del demonio. Da Napoli giungevano le notizie, quasi di prima mano, che non facevano che aumentare il timore e l’insicurezza, che si tramutò in caos, sullo sfondo di un’aperta delusione, quando si seppe della partenza del re verso la Sicilia, che fu vista come un vero e proprio "tradimento". A questa se ne aggiunse un’altra, ancora più grave, che parve una pugnalata al cuore della Solofra mercantile, quando si seppe che sulle navi del re era stato imbarcato anche tutto il denaro dei Banchi, per cui ai mercanti solofrani, che su essi poggiavano la loro attività, erano rimaste "fedi di credito" che non potevano essere cambiate. Allora si ebbe coscienza della miope operazione inflazionistica della Corte, che aveva manipolato il credito degli ex Banchi privati, sia col prelevamento di depositi oltre il limite sia con l’emissione di "carte di credito" non coperte134. 

 

134. Il cambio durante il periodo repubblicano arrivò anche al 70%. Vale la pena considerare che a Solofra era molto diffusa la fede di credito come dimostra una tabella dell’Archivio storico del Banco di Napoli (D. De Marco, La vita sociale a Napoli nel 700 nei documenti dell’Archivio Storico del Banco di Napoli in "Giornale degli Economisti e Annali di Economia" maggio-giugno, 1982, pp. 298-299).

 

Con questo spirito fu accolta l’entrata dell’esercito francese nel napoletano - gennaio 1799 - che portò alla diretta occupazione di tutta la pianura napoletana con un raggio che non escludeva l’area sanseverino-montorese, e che determinò la liberazione dai castelli della zona dei prigionieri politici.

Accompagnata da contrastanti sentimenti, iniziò l’opera di "democratizzazione" delle province, che vide Solofra occupata dall’esercito francese, ora chiamato "napoletano". Se da una parte qui ci fu una focosa adesione alla prospettiva degli auspicati cambiamenti, colorita di un forte senso di rivalsa, dall’altra fu nutrita una moderata speranza, che ancora una volta ciò non sfociasse in un clamoroso e dannoso fallimento. Quando la truppa, guidata da Eleuterio Ruggiero, giunse da Turci, e "vi sostò alcuni giorni, prendendo possesso del palazzo Orsini", e impiantando - il 26 gennaio - l’albero della libertà nella piazza centrale, ci fu l’attivo concorso dei gruppi giacobini della popolazione, guidati dal citato medico Antonio Garzilli135, alla presenza di una folla in parte partecipe ed in parte attenta osservatrice in attesa. La paura di rappresaglie e di violenze prese soprattutto quelli che per il loro ufficio potevano configurarsi dalla parte della corona, mentre ci furono coloro che, venuti meno i razionali steccati, dettero sfogo ai sentimenti più contrastanti. Senza dubbio in questo clima devono intendersi le "gesta" dei frati agostiniani che "accolsero nelle loro sale il Ruggiero e i suoi comandanti", abbandonandosi a comportamenti inconsulti136, e "i brindisi non decenti" fatti durante un banchetto seguito alla presa di possesso della municipalità solofrana137.

 

135. Cfr. Appendice, n. 23 in cui c’è la descrizione di questo significativo atto rivoluzionario, che fu accompagnato dall’abbattimento delle Armi di Ferdinando IV poste sull’insegna della Regia Doganella del Sale ed in cui, al di là del filtro, si vede una cospicua partecipazione. V. pure i nn. 30 e 32.

136. Cfr. Appendice, n. 30.

137. Cfr. ASA, B6942, 187. Il banchetto fu fatto nella casa degli eredi di Fabrizio Grimaldi alla presenza del maggiore Iannuzzi.

 

In questo clima a Solofra, che era entrata a far parte del Cantone del Volturno il cui capoluogo era Avellino, si erano formate le "truppe della municipalità", che, nella maggior parte, furono costituite da elementi giacobini locali, che destituettero i precedenti amministratori, formando la "municipalità" repubblicana, a dirigere la quale furono messe persone di sicura fede giacobina, con una diffidenza ben comprensibile, vista la presenza, nella vecchia amministrazione, dell’alto patriziato locale di sicura fede monarchica138.

A S. Agata, che fin dall’anno prima aveva ottenuto il distacco dall’Università di Serino con un governo a sé, si formò spontaneamente una municipalità e fu alzato l’albero della libertà. Qui non ci fu, come a Solofra, la defenestrazione di un’amministrazione, che rappresentava il vecchio, ma una sorta di continuità - lo stesso sindaco precedente fu uno della municipalità - , mettendo in evidenza la cellula rivoluzionaria che si era formata in questo casale139.

 

138. È sintomatico il fatto che all’atto della costituzione della municipalità i repubblicani vollero una dichiarazione dell’antica fede giacobina di Antonio Garzilli e di altri repubblicani (cfr. Appendice, n. 30). Nei documenti si individuano altri due cittadini appartenenti alla municipalità solofrana, i mercanti Giuseppe Rossi e Saverio Barbieri (ibidem, n. 2.).

139. Cfr. Appendice, nn. 7, 17, 35.

 

Le notizie provenienti da Napoli, circa gli atti di clemenza dello Championnet, e circa altri interventi negli ambienti di chiesa, che non furono chiuse come si era detto nella campagna antifrancese, dettero inizio alla ricerca, tra i preti nelle chiese, di qualche conciliazione tra le idee francesi, che prima avevano combattuto, e quelle della tradizione, con l’intento di calmare gli animi. Non mancavano però timori e diffidenze, soprattutto perché i "democratizzatori", spesso gente non capace, non facevano discorsi pacati, e spesso l’esaltazione della libertà sfociava nell’esaltazione del più sfrenato arbitrio.

Intanto la rivoluzione cominciò a mostrare il suo volto, mentre i cambiamenti sperati erano disordine, violenza e sopraffazione. Bastò poco per far apparire le cose in una luce diversa, nella quale i francesi si mostravano veri conquistatori, come quando, per esempio, si videro le distruzioni arrecate, se pure al palazzo dell’Orsini, durante l’occupazione140. Emersero tutte le contraddizioni di un modo di pensare che non era il napoletano, quando, per esempio, si videro i frati di S. Agostino accogliere con feste e banchetti l’esercito dei "liberatori" ed uno di essi gridare nelle strade che "voleva ammogliarsi e voleva non una moglie ma due"141. Era un pensare lontano ed estraneo, che non poteva far breccia in situazioni che conoscevano la solidità dalla tradizione, un pensare che non aveva forza e che sapeva tanto di un’altra sottomissione. Lo spirito conservatore della società solofrana trovò modo di consolidarsi, soprattutto nel timore di diventare "pezzenti"142.

Tra le carenze subito avvertite ci fu quella di un esercito non organizzato, come infatti era quello che da Solofra scese a Montoro per "democratizzare" quelle contrade, e soprattutto che non era finito il regime di gravami insopportabili, che invece aumentarono rendendo ancora più pesante la siccità di cui soffrì tutta la zona, a cui si aggiunsero gli atti di violenza e le predazioni nelle chiese, nelle case e nei campi, fatti dalle stesse truppe e da briganti allo sbando, ma anche da "varie persone di ogni età e condizione"143. Nei discorsi della gente tali danni furono collegati alle notizie che giungevano da Pompei e da Ercolano, dove i francesi avevano cominciato ad asportare tutto indiscriminatamente, le cui rimostranze venivano portate a Leonardo Santoro, che aveva studiato i pezzi rari della medicina romana144.

 

140. Ibidem, n. 2.

141. Ibidem, n. 30.

142. Ibidem, n. 29 dice un padrone: "se avimmo un carlino, o c’è levato o ce lo mangiammo", mettendo in evidenza la paura che dominava la parte più abbiente.

143. Ibidem, n. 16.

144. Cfr. S. De Renzi, op. cit.

 

Per questi motivi, quando, a pochi giorni dalla costituzione della repubblica, cominciarono ad arrivare notizie di insurrezioni, come per esempio quella di Forino del 3 febbraio, il fermento fu forte; e mentre a Solofra sembra che la situazione fosse saldamente in mano ai municipalisti, anche perché la feudataria aveva permesso l’arruolamento di reclute per l’esercito repubblicano145, a S. Agata si ebbe l’abbattimento dell’albero della libertà146, a cui risposero vari centri del montorese dove fu diffusa, proveniente da Montella, financo una lettera del re147.

Per far fronte a questa situazione, di forte fermento e contrapposizione in una zona di grande importanza per essere di raccordo con la Calabria, fu inviato da Napoli Ettore Carafa che ebbe un primo scontro in località chiusa di Montoro, ma abbandonato da una parte delle reclute fu costretto a ritirarsi sul valico di Turci dove riuscì a riorganizzare il suo esercito e a sottomettere la zona148. La situazione era però grave poiché i suoi soldati ebbero bisogno dei temuti alloggiamenti - Solofra dovette dare 1500 razioni di viveri - e poiché crebbero le persecuzioni dei "municipalisti" contro i realisti, come avvenne a S. Agata dove il santagatino Donato Nigro, per fuggire alla "carcerazione municipalista", fu costretto a rifugiarsi a Montoro, e poi a S. Severino149.

Fu in questa occasione che Saveria Pepe, madre del Galiani, "partito il Carafa", scrisse da Napoli al fratello Giosuè, che stava a Montoro, "che i liberali siano all’erta poiché se vi fosse stato bisogno le truppe sarebbero tornate", lettera che, intercettata dai realisti, portò all’uccisione di Giosuè insieme ai nipoti Gennaro e Tommaso150.

Questo episodio sottolinea la situazione da guerra civile che si viveva nelle campagne, dove si erano formate bande armate, che scorrazzavano per le campagne, e che si nascondevano bene negli anfratti dei monti, e dove in diversi paesi varie volte furono abbattuti gli alberi della libertà e poi ripiantati. A S. Agata questo avvenne ancora una volta, a Solofra invece la situazione fu più stabile, mentre all’imbocco della conca con la pianura montorese, in località "chiusa" - nel marzo - si ebbe ancora uno scontro con le truppe del Duca d’Andria, che fu a favore delle forze della controrivoluzione, mettendo in moto naturalmente azioni di ritorsione151.

 

145. Cfr. F. Scandone, Cronache..., cit., p. 114.

146. Cfr. Appendice, n. 6. Dalle dichiarazioni notarili si evince a S. Agata una maggiore animosità e più forti contrasti, infatti in esse si fecero i nomi dei giacobini e precise accuse di "municipalismo".

147. Cfr. ASA, B4486, 56v-58r. La dichiarazione riporta un testo, in cui il re afferma "che il dolore per la partenza è stato grande", che è stato "tradito dalle truppe", e aggiunge: "non credete che v’abbia abbandonati"; e ancora che è "rinato più forte con poderosa armata per mare e per terra con il soccorso dell’Imperatore", anche quello "ottomano e altri sovrani", chiedendo "ai cari vassalli di essere fedeli, di vivere cristianamente" e promettendo: "non sarete più oppressi", "non vi sarà chi possa frangere le leggi".

148. Cfr. "Il Monitore", n. 11. Il Carafa nello scontro ebbe 2 morti e 4 feriti, mentre più pesanti furono le perdite dei realisti, 24 caduti (cfr. F. Scandone, Cronache..., p. 118 e sgg.)

149. Cfr. F. Scandone, Cronache..., e Appendice, n. 8.

150. Cfr. A. Colombo, Memorie di Montoro, Napoli, 1882.

151. Cfr. ASA, B4465, 54v e B4499, 96v. Le dichiarazioni notarili parlano di "prime insorgenze" avvenute ai primi di marzo, durante le quali Chiancarola divenne una postazione utile per controllare la zona (cfr. ASA, B6942, 77).

 

Intanto la notizia che il cardinale Ruffo con l’esercito borbonico saliva dalle Calabrie mise in fermento i due schieramenti. Per prima entrarono in azione i repubblicani, che si prepararono ad un’offensiva contro le truppe di realisti per liberare la via delle Puglie, di questi fecero parte i "municipalisti" santagatini, che disarmarono il paese requisendo "80 fucili, armi bianche", e si diressero verso Avellino152, altri, specie solofrani, andarono a Salerno, dove c’era un vascello inglese, a sostenere l’attacco dei francesi153. Altri dell’opposto schieramento seguirono il serinese Costantino de Filippis, ufficiale borbonico, che aiutato dall’assenza degli elementi rivoluzionari più agguerriti potette dar vita al comando di mille uomini all’insurrezione realista nei paesi della zona - dal 20 aprile - con l’abbattimento degli alberi della libertà e la conseguente caduta di diverse municipalità. A S. Agata per la quarta volta e definitivamente fu abbattuto l’albero nella notte del 28 aprile e il giorno seguente furono suonate le campane a gloria154; non diversamente accadde a Solofra155.

Le truppe realiste - dette di "massa cristiana" - erano distribuite tra Serino e Montoro con varie postazioni e col grosso a Piazza di Pandola di Montoro: a S. Agata c’era quella comandata da Mariano d’Arienzo, a Solofra, su Turci, c’era il comandante Pasquale Ronca, a Montoro il colonnello Pasquale Grimaldi, tutte persone del posto156.

Questa era la situazione quando giunse la notizia dell’avanzata di una colonna repubblicana ("una forte truppa di Francesi e Patrioti") - quella guidata dal generale Matera - proveniente da Nocera. Da Montoro fu richiesta - il primo maggio - tanto a Solofra che a S. Agata, gente armata, per cui "furono suonate le campane all’armi, si armò la popolazione: sacerdoti secolari e regolari, galantuomini e plebei". Nella zona si ebbe sicuramente un primo scontro a Montoro, prima della battaglia di S. Angelo di S. Severino (detta anche di Forino), dove furono respinti "Francesi e Patrioti"157. A Montoro rimase una truppa cristiana, a mantenere la quale parteciparono le popolazioni, sicuramente Solofra, dove verso il 20 erano state raccolte delle somme tra gli "Amministratori" e i "galantuomini benestanti"158, mentre le truppe del De Filippis, sconfitte a Monteforte, furono costrette a ritirarsi tra i monti di Serino e di Giffoni159.

Forte di questa presenza da Solofra partì - il 16 maggio - un gruppo di realisti, agghindati con "nocche realiste ai cappelli", per abbattere gli alberi della libertà nei casali di Serino, arrestare i municipalisti della guardia civica, ed organizzare "compagni suonatori per servire la banda della truppa realista"160.

 

152. Cfr. Appendice, n. 4. In questa dichiarazione del luglio si hanno i nomi dei repubblicani santagatini partecipanti all’azione e cioè il fisico Modestino Piemonte, Remigio De Maio, Salvatore De Maio, Samuele De Maio, Matteo De Maio, Nicola D’Arienzo, Nicola Guarino.

153. Cfr. ibidem, nn. 15, 24.

154. Cfr. ibidem, n. 9.

155. Ibidem, nn. 6, 37. Si pone in calce all’Appendice un raro documento della "Repubblica Napoletana", datato 24 aprile, da cui si desume che in quella data la Municipalità solofrana era ancora in piedi.

156. ASA, B4499, 15r. La truppa cristiana, schierata in diversi punti, aveva la base a Piazza di Pandola dove confluivano i volontari e venivano requisiti i cavalli per le truppe (cfr. B4499, 172r). V. anche Appendice, n. 14, 37. Un altro comandante fu Gaetano Magnacervo.

157. Appendice, n. 19 e 14.

158. Ibidem, n. 3.

159. Cfr. P. Maresca, Il cavaliere Micheraux, ASPN, XXIX, p. 277. Furono lasciati nelle mani degli avversari 4 cannoni 400 fucili e molte munizioni. Rimase a Montoro un sergente Giovanni Pinanti appartenente al Real Reggimento borbonico ed in contatto col generale borbonico Micheroux per mezzo di un messaggero un certo Pousset.

160. Appendice, nn. 15, 38.

 

Questa situazione mantenne il clima di terrore di tutte le guerre civili. Vale la pena sottolineare la descrizione del "macello" fatto negli scontri - sia quello di S. Angelo che quello di Monteforte - e riportata in una dichiarazione notarile, in cui si parla di "decapitazione di cadaveri", di "trasporto dei teschi" nel campo di Montoro a dimostrazione dell’avvenuta strage, e di un "orecchio di un ufficiale francese ucciso attaccato al cappello di un realista"161, che, pure nell’esagerazione di questo tipo di dichiarazioni - sono esse stesse un dato da considerare - , mettono in risalto il marasma che determinavano questi scontri da guerra civile, che da entrambe le parti provocavano saccheggi e distruzioni.

Le municipalità del solofrano-montorese erano dunque cadute prima dell’arrivo del Ruffo: era bastata la notizia che delle "truppe reali" stavano salendo verso la capitale per dare vita ad un movimento controrivoluzionario, che, in effetti, era esistito fin dall’inizio. La ragione è da ricercare nel fatto che i ceti artigiano-contadini erano impauriti dei saccheggi e delle devastazioni delle truppe francesi e dei vari repubblicani di turno162. La partecipazione massiva alla controrivoluzione si inquadra benissimo nelle caratteristiche dei ceti solofrani attenti agli interessi preminenti. Essi avrebbero accolto la rivoluzione se questa si fosse mantenuta su binari moderati, ma ciò non poteva avvenire per un moto che aveva preso le caratteristiche francesi. Nella empisse di una rivoluzione non voluta, ma in parte accettata, si spiegano anche i cambi di bandiera; nella confusione che la disorganizzazione generò si spiegano l’esplodere degli odi e dei contrasti locali, il ricorso a rivalse, il sorgere di piccoli interessi. Mentre gli errori della gestione della rivoluzione e il passivo distacco con cui il movimento giacobino locale fu accolto anche da quelli che avrebbero dovuto sostenerlo, se non altro per comuni interessi, spiegano il suo isolamento.

Intanto le azioni si spostarono verso Nocera e poi verso Napoli alle cui porte si ebbero diversi scontri, a cui partecipò anche la truppa realista solofrana163. La capitolazione di Napoli, che avvenne con un accordo che salvava sia i francesi che i napoletani che avevano appoggiato la repubblica, dette inizio ad una serie di arresti perché sia il Nelson che il re, che nel frattempo era ritornato, non lo accettarono. Quelli che non riuscirono e perdersi nelle maglie dei controlli o quelli che credettero nella clemenza del re riempirono i Granili - la grossa costruzione trasformata in carcere della repressione borbonica con detenuti in condizioni disastrose - che furono conosciuti anche da alcuni solofrani. I documenti danno un elenco di diverse persone164, mentre a Castel Capuano e poi a Castel dell’Ovo fu carcerato il figlio del Maffei, Giacinto, studente appena diciassettenne, trasferito poi a Gaeta165, e "nella Real Fabrica nuova del Ponte della Maddalena" fu ristretto Michele di Agnello166.

Anche la Giunta di Stato seguì un indirizzo di repressione - una "giunta di carnefici" dice il De Nicola - , usando una procedura che si poggiava su denunzie e delazioni, considerate come prove e che non davano all’accusato alcuna sicurezza167. Senza testimoni a discarico e senza produzione di documenti, furono condannati, entrambi all’esilio a Marsiglia, i citati Serafino Garzilli e Nunzio Giannattasio168, mentre Giuseppe Trombone, fratello di Gaetano, oltre ad essere incarcerato ebbe i beni sequestrati169; così pure gli Arduino, Gaetano e Michele, condannati per "reità di stato", subirono il sequestro delle loro proprietà170. C’è da dire che tali beni furono amministrati dal regio fisco, che incaricò della gestione persone locali che non potettero impedire che fossero - quasi un diritto - depredati171. Tra i condannati ci furono anche due membri della famiglia Vigilante, Bartolomeo e Giuseppe172.

 

161. Ibidem, n. 11; ASA, B4499, 87r.

162. Ibidem, n. 14. In una dichiarazione, che parla della truppa dei Francesi e dei Patrioti che avanzava, si sottolinea "per ripristinare l’albero" e "per saccheggiare e devastare questi luoghi siccome ad altri luoghi fatto avevano". Anche in altre dichiarazione si leggono paure del genere: di "pace perduta", di "vita in continuo pericolo di perdersi".

163. Ibidem, n. 5. Tra i solofrani c’era il capitano della truppa di massa Pasquale Ronca col fratello sacerdote Francesco, morto nell’attacco della notte tra il 13 e il 14. Nelle vicinanze di Napoli, "proprio nel fortino detto Viglieja", morì anche Giuseppe Graziano (ibidem, n. 9).

164. Cfr. "Rassegna storica napoletana", 1935, III, pp. 80, 73, 75, 81, 85, 87. Sono alcuni dei giacobini solofrani di Napoli, di cui si è detto, e cioè Salvatore Papa, Michele d’Andri, Gaetano Trombone [o Tribulone], Giuseppe Vigilante, Alessio Arduino e un negoziante di S. Agata, Mizio De Maio.

165. Su questo arresto Gaetano Rodinò, allievo del Maffei e anche lui arrestato, racconta un toccante episodio, che mette in risalto la venerazione verso il professore, quando, "in attesa del trasferimento a Gaeta", si trovò accanto al giovane, legati "a due a due ad un’unica corda, il braccio sinistro dell’uno col braccio destro dell’altro", riuscendo ad allentare il nodo troppo stretto della corda del giovinetto, "grato al suo genitore" (cfr. G. Rodinò, Racconti storici narrati al figlio Aristide, in ASPN, VI, 1881, p. 642).

166. Non era solofrano ma sposato con Fortunata Ronca ed abitante a Solofra (cfr. Appendice, n. 12).

167. Cfr. C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli, 1854, pp. 380e segg.

168. Furono condannati dalla sentenza n.16 in cui del Garzilli si dice: "figlio di Massenzio ed Orsola Pandolfelli, 28 anni, statura piedi 5, polgate 6, giusta corporatura, faccia lunga e bianca, alcuni segni di vaiolo, giusta barba e negra, naso alquanto grosso, capelli, occhio e ciglio negri" (Filiazioni, 76).

169. Il 26 dicembre il Trombone chiese che il sussidio per gli alimenti, concesso dal re ai rei di stato, decorresse dal settembre e non dal dicembre, e nell’aprile del 1800 non ebbe l’indulto (cfr. F. Scandone, Cronache..., cit., p. 117).

170. Di Gaetano si dice: "età 29, capello castagno, fronte grande, ciglio castagno, occhio cervone, naso grosso, faccia tonda, altezza piedi 5, pulgate 2" (Filiazioni, p. 11); di Michele: ha "43 anni ed è residente a Napoli da 9 anni" (Filiazione, p. 22).

171. Cfr. "Amministrazione dei beni dei rei di Stato", fascio 127, rubrica degli indiziati di reità. V. pure ASA, B4465, 43v.

172. Cfr. F. Scandone, Cronache..., cit., p. 117.

 

Nelle province la repressione avvenne ad opera dei cosiddetti "visitatori di Stato", che nelle idee del Ruffo avrebbero dovuto tentare una difficile opera di ricucitura e mettere tranquillità tra le popolazioni, invece svolsero il compito di scovare i giacobini - "i nemici del trono e dell’altare", come si diceva, - , e, poiché costoro erano scappati o erano morti, essi furono, con il forte potere di disporre senza appello della vita, dei beni e della libertà, il centro di vendette private, o furono essi stessi soggetti di repressione, e potettero farlo perché aiutati in genere da persone del posto, come dimostra l’episodio di due operai solofrani che "durante l’inquisizione di stato, condotta da Carlo de Franchis", si ribellarono ad un tentativo di estorsione da parte di uno scrivano locale173. I collaboratori del visitatore Ludovici, a Solofra esiliarono o, come si diceva, "sfrattarono" "dai reali confini" i già citati Carlo Grasso e Antonio Garzilli174 e in alcuni casi furono così severi da non concedere neanche l’indagine175.

 

173. Cfr. Appendice, n. 29.

174. Filiazioni, p. 3. Il Grasso venne così descritto, quando il 1° agosto subì l’esilio: "figlio di Felice e Angela Guarino, dell’età di anni 50 circa, statura alta, corporatura robusta, capelli mischi bianchi e negri, barba simile, cigli ed occhi castagni, barba rotonda, volto bianco e colorito". Del Garzilli si dice: "figlio del fu Gabriele, d’età anni 44, ha capello negro, con pochi bianchi, fronte scoperta, ciglio castagno, occhio cervone, naso aquilino, faccia tonda, alquanto tarlata e con cicatrice nel mento alla parte dritta, di altezza piedi 5 e linee 2".

175. È il caso del sacerdote Basilio Fasano che, essendo stato giudice di pace nel periodo repubblicano, fu considerato "incapace di beneficio" (cfr. F. Scandone, Giacobini..., p. 117-118).

 

Non si deve pensare che solo questo fu il contributo della popolazione solofrana alla rivoluzione, perché molti furono coloro che persero la vita negli scontri, altri "miliziotti" non ritornarono, inoltre bisogna tenere presente i considerevoli danni, perché i beni delle persone compromesse subirono saccheggi e incendi e le famiglie feroci persecuzioni anche senza processi; spesso ci si faceva giustizia da sé, come successe ai fratelli Carmine e Nicola Caraviello che subirono l’incendio della loro casa nel novembre del ’99 da alcuni venuti al seguito della compagnia del Venuti176.

Diversi documenti notarili, contenenti le dichiarazioni dei cittadini - l’atto serviva di base per iniziare il processo che aveva una rapida procedura - che tentavano di scagionare i sospettati o di accusare i nemici, mettono in risalto il clima di intimazione e di sorda guerra, fatta di atti legali, che si respirò nei mesi immediatamente successivi la fine dell’esperienza repubblicana. In essi si individuano chiaramente le modalità, l’intimidazione, il ricatto, usati dai visitatori verso gli impauriti plebei. Queste dichiarazioni sono però anche formidabili documenti di come fu vissuto il periodo postrivoluzionario. Si parlò di "maledetta" o "pessima nazione", per la Francia, di "infame sedicente Repubblica" o "infami affari repubblicani", di "infami armi francesi", di "sedicente libertà", di "comuni nemici francesi" o di "malvaggi repubblicani e patrioti" o di "ribelli e malvaggi francesi e giacobini" o di "ribelli della religione e del trono", di "infasti alberi della detestabile libertà"; dall’altra si disse di persone "attaccatissime al re" o "alla religione", di "morigerati costumi" e via di seguito. Si individua chiaramente il tentativo di difendere coloro che si erano esposti, come quando alcuni, che avevano fatto parte della municipalità, vennero presentati come "fedeli al sovrano" e "costretti dalla popolazione a non rinunziare alla carica giacobina" per "concertare", quando si fosse presentata "loro occasione opportuna, di prendere le armi contro i comuni nemici francesi". E si conclude: "perché se tali persone non si fossero ritrovati in tali cariche non sarebbe riuscita vittoriosa l’insorgenza". Sono moltissimi i casi di persone che venivano scagionate nelle loro attività istituzionali come i notai; mentre di molte altre persone si disse che si erano allontanate, o che si erano ritirate in convento. Particolare interesse hanno le dichiarazioni a favore dei negozianti e dei mercanti, o quelle che fanno emergere piccole ripicche dei municipalisti, o ancora le situazioni di indigenza provocate dagli eventi177.

 

176. Cfr. Appendice, nn. 28, 31.

177. Cfr. tutti gli atti notarili citati in questo tratto.

 

Quando il 30 maggio del 1800 re Ferdinando, in seguito alla pace di Firenze, sospese i giudizi dei "rei di Stato", permettendo agli esiliati ed agli emigrati di tornare in patria, e le prigioni furono aperte, la situazione sociale era profondamente compromessa; né la scomparsa dei documenti portò qualche sollievo perché, se con tale pratica si vollero cancellare i fatti, essa provocò altre sofferenze, poiché si impedì a chi aveva sofferto il danno del sequestro dei beni di riaverli - successe al solofrano Giuseppe Trombone - , e perché si potettero perpetrare altre ingiustizie, soprusi e indebite appropriazioni.

Nel marasma generale, sia del periodo repubblicano che di quello della reazione, si fece piazza pulita delle risorse economiche di Solofra - "il più ricco paese della provincia" si disse - che uscì gravemente colpito avendo avuto il danno più alto. I finanziatori subirono forti perdite, non solo per la distruzione delle loro fedi di credito nei Banchi napoletani, quanto per la effettiva perdita di intere partite di arrendamenti - "oltre cinquecentomila ducati" - che furono letteralmente cancellate178.

Un danno considerevole fu quello prodotto all’artigianato del battiloro solofrano, che non potette più lavorare questo metallo perché da Napoli, che aveva la privativa di questa arte, fu imposto - e questo da parte degli stessi battiloro napoletani tra cui molti solofrani che formavano una forte corporazione - che si lavorasse nelle botteghe solofrane solo l’argento179. Fu la rovina dei battiloro solofrani che furono costretti a chiudere le botteghe, a trasferirsi a Napoli o a Benevento. Questa che era stata, dopo la concia, l’arte più rappresentativa solofrana, decadde definitivamente, tanto che nel 1816 un membro solofrano della Società Economica del Principato Ultra propose un progetto per risollevarne le sorti e che non ebbe esito. A metà ottocento c’erano a Solofra poche botteghe che battevano solo l’argento180.

Ancora si perdette la lavorazione della pergamena, che prima della rivoluzione era tanto fiorente da meritare la segnalazione del Galanti, che indicava questa produzione come "più qualificante" della stessa concia solofrana"181. Restava la concia, pur essa fortemente ridotta, tanto che a metà Ottocento le botteghe che praticavano tale attività erano solo una trentina rispetto alle oltre sessanta di un secolo prima182.

Ancora un segno della situazione di stallo e di arretratezza, che si visse dopo la rivoluzione, fu quella delle strade. Tra tutte basta citare la vicenda della strada di Turci - quella che permetteva il fiorente commercio con la Puglia via Atripalda - della quale prima della rivoluzione ne era stato progettato il rifacimento con la partecipazione predominante della Universitas solofrana rispetto alle altre interessate, e che in seguito agli eventi rivoluzionari fu abbandonata a sé, tanto che in alcuni periodi dell’anno e per molti anni non fu praticabile183.

Infine bisogna citare il "prestito forzoso" che l’Universitas fu costretta a contrarre nel settembre del 1799, con mutuo ad interesse scalare, per riparare alle spese fatte per "sostenere le milizie di Ferdinando IV nella riconquista del regno", un debito estinto soltanto nel 1834184.

Si spiega così perché a Solofra lo spirito rivoluzionario covò sotto la cenere, accogliendo le istanze rivendicative che provenivano dalle zone più sensibili, tanto che in loco si formarono ben quattro vendite carbonare che daranno un contributo non indifferente ai giorni della rivoluzione carbonara185.

 

178. Cfr. V. Cannaviello, op. cit., p. 325. Gli atti notarili mettono chiaramente in evidenza l’ampio mercato degli arrendamenti a cui partecipavano i solofrani che riguardavano varie Universitas non solo delle provincie del Principato Ultra e Citra ma anche del pugliese, del catanzarese e del napoletano.

179. Appendice, nn. 25-26. Nei due atti i battiloro solofrani-napoletani dichiararono che nelle botteghe solofrane da sempre si era battuto oro ed argento. In ASA, B6834, 25r si ha notizia che i battiloro solofrani-napoletani avevano il Monte delle "Centenare" [erano i fogli di oro battuto] poggiato sulla Cappella di Battiloro.

180. ASA, Reale Società Economica, B1, f. 26. Nel progetto, dove si parla di una convenzione stipulata nel 1805 tra battitori di oro di Napoli e di Solofra ma non messa mai in pratica, fino a che, con decreto del 1813, fu cancellata, e dove si denunziano lotte ed ingordigie personali, viene proposta una convenzione per far lavorare a Napoli l’oro e a Solofra l’argento. Si pensi che il Catasto onciario solo cinquant’anni prima denunziava a Solofra la presenza di 348 battiloro e battargento.

181. M. Galanti, op. cit., II, p. 404. Dice il Galanti : "L’arte [...] che ha arricchiti i Solofrani è quella di conciar le pelli, sopra tutto le pergamene".

182. Il catasto onciario denunziava solo a Solofra 600 conciatori e 65 concerie, oltre a 570 mercanti.

183. Cfr. ASA, Intendenza, nn. 3570-3594.

184 Cfr. ASA, B7029, 32r.

185. Cfr. V. Cannaviello, Gli irpini nella Rivoluzione del 1820 e nella reazione, Avellino, 1941. Le vendite furono "Filadelfi", "Figli di Bradamante", "Oppressi e non vinti", "I difensori della libertà", della quali uno degli organizzatori più accesi fu il figlio del fisico Modestino Piemonte, rivoluzionario santagatino, Giosuè, un farmacista, ed altri giacobini. Furono coinvolti nei moti 35 carbonari tra solofrani e santagatini.

 

 

Questo studio è pubblicato negli Atti del Convegno sulla Repubblica napoletana tenutosi ad Avellino nel Novembre del 1999.

 

 

APPENDICE

Documenti notarili riguardanti i fatti del 1799

 

1. 1798, settembre 2. Solofra. (ASA, B 6941, f. 177r).

Lettura ed esecuzione del dispaccio reale per il reclutamento di 50 "miliziotti".

[...] A richiesta del sig. Giacomo Imbellone, attuale governatore e giudice della Principale Corte di questo Stato unitamente con infraddetto Regio Giudice a contratti e testimoni nel largo sistente avanti della Venerabile Collegiata S. Michele Arcangelo abbiamo ritrovata radunata precedente il solito suono delle campane quasi tutta la popolazione di questo Stato e tra essa il sig. Sindaco Gennaro Pandolfelli e i suoi compagni eletti gli Decurioni di questa Università componentino pubblico parlamento il rev. Capitolo della detta Collegiata Chiesa di S. Michele arcangelo; gli Parrochi di S. Giuliano di S. Andrea Apostolo; gli Priori delli Conventi di S. Domenico di S. Agostino, il Guardiano delli Padri del Co0nvento di S. Francesco di detto Stato ed esso don sig. Giacomo Imbellone asceso sopra di un pulpito tenendo nelle sue mani un Dispaccio di Sua Maestà, Dio guardi, quale nel punto dell’ora undici di detto giorno, avendo a me esibito in presenza di detta Populazione per osservarlo se vi si conosceva apertura, viziatura, dolo o inganno, ed avendolo visto, e rivisto e maturamente considerato, si è ritrovato il Dispaccio suddetto intero, senz’apertura, dato vizio, o inganno, e dopo d’essersi da me pubblicamente dimostrato alla populazione suddetta e riconosciutosi benanche dalla medesima d’essersi dal detto sig. Governatore, e Giudice fedelmente conversato, si è da me al suddetto sig. Governatore, e Giudice restituito e dal medesimo dal pulpito stesso, e con ogni diligenza, ed esattezza si è proceduto all’apertura del medesimo Regio Dispaccio, e con alta sonora ed intelligibile voce alla lettura e pubblicazione del medesimo ordinata di doversi procedere alla reclutazione di 50 miliziotti per doversi subito conferire avanti al generale Gamby. A vista dunque di un tal venerato supremo ordino di Sua Maestà, Dio guardi, dalli suddetti sig, Governatore, e Sindaco con tutta la premura, vigilanza zelo si è dato principio alla reclutazione delli cennati 50 miliziotti, giusta il prescritto nel predetto Regio Dispaccio [...]. Presenti: Michele Scarano, giudice a contratti; Giuseppe Tura, Basilio Landolfi, Soccorso Landolfi, testimoni.

2. 1799, marzo 12. (ASA, B 6941, ff. 46 r e sgg).

Sopralluogo al Palazzo del duca Orsini per la ricognizione dei danni arrecati e dei beni mobili asportati dalle truppe municipaliste durante l’occupazione del Palazzo.

[...] A richiesta di Nicola Grimaldi e Felice Antonio Fasano, erario di Filippo Orsini nostro Duca di Gravina ci siamo conferiti nel Palazzo di detto Felice Orsini e nelle case della Corte poste davanti al largo di S. Michele Arcangelo giusta notori confini, dove gionti essi sig. Grimaldi e Felice Antonio Fasano hanno spontaneamente asserito alla nostra presenza d’avere in detto Palazzo per molti giorni abitati li passati Monicipalisti e Presidente di detto Stato di Solofra colla di loro truppa di soldati, e volendo essi badare all’interesse di detto Orsini hanno determinato di fare un notamento di tutto il che di mobile da esso Palazzo è stato tolto, con che da noi, coll’assistenza e presenza di Giuseppe Rossi, e Saverio Barbieri due dell’attuale Monicipalità di detto Stato, essendosi dilingenziato il Palazzo suddetto stanza per stanza, tenendo nelle mani, e sotto gli occhi il generale inventario di tutti gli mobili del Palazzo suddetto fatto a 14 di marzo dell’anno 1790; al Palazzo istesso si sono ritrovati mancantino mobili, cioè:

All’anticamera del quarto della Figlia Tiglia: la mascatura, e la chiave, e si vede mezza porta schiodata con violenza.

Alla prima camera dopo il Teatro: la mascatura, e chiave, sette specchi e quattro quadri.

Alla cappella: la chiave.

Alla seconda anticamera: due ovati di frutti di mare, e di pesci con cornici indorate, ed intagliate di palmi due, e mezzo.

Alla terza anticamera del quarto nobile: la mascatura della porta, un zoccolo di ferro, il quadro di S. Maria Maddalena di palmi tre, e quattro, con cornice negra sdragallata d’oro.

Al gabinetto: la mascatura.

Alla camera del letto: un quadro di Maria orante con cornice negra quadro ovato della SS. Concezione con cornice indorata di palmi due, e tre, ed un quadro di Maria Maddalena con cornice indorata, ed intagliata di palmo uno, e mezzo.

Alla gallaria: la mascatura, e chiave, un zoccolo di ferro, la vetrata del Palcone grande.

Alla camera prima dopo il passetto appresso alla gallaria: otto scoppette di varia lunghezza con fucili, e guarnimenti di ottone una di esse senza ponte.

Al secondo passetto: una cassetta di legno col suo vaso.

Al terzo passetto dopo la galleria: un zoccolo di ferro, la chiave dello stipo, e la chiave della porta di pioppo.

Alla cucina delle donne: un licchetto di ferro, che stava situato nella porticella, che introduce alla loggia del giardino. Alla detta loggia del giardino: due pietre alla cantarella: la chiave d’ottone e due anelle di ferro.

Al primo camerino: la mascatura dello stipo.

Al terzo camerino: la baffettella.

Al quarto camerino: la baffettella, e la di lei porta rotta, e caduta a terra.

Al camerino interno del quinto camerino: una baffetta, e la chiave.

Al suppigno sopra al quarto nobile: il licchetto alla monachina, che esisteva nella porta.

Al camerino di detto suppigno: la chiave e la porta scassata.

All’altro camerino dello stesso suppigno: la mascatura e la chiave.

Alla seconda camera del quartino nuovo: il letto compito come sta descritto in detto generale inventario.

Alla porta della sala del quarto dell’agente: la chiave, e il lampiere di legno.

Nell’anticamera della sala di detto quarto: la grata di ferro alla porta, dopo essersi aperta con violenza e due sfelze di damasco rosso.

Alla stanza di letto di detto quarto: il candeliere d’ottone, e sua bendarda.

Alla stanza della cucina di detto quarto: la chiave della porta e la chiave dello stipo.

Alla camera della guardiola: un lampiere, un barile, la chiave dello stipo. Alla stanza a mano dritta di detta sala il lampiere di ferro.

Alla camera dove sta il caporale: la chiave, e la mascatura della porta aperta con violenza, quattro tavole, e due scanni di legno di letto, una veste di pagliaccio, una veste di cossino, un lenzuolo di tela nuova, ed un altro lenzuolo di tela usata.

Al camerino interno: due lampieri di ferro.

Nella prima camera del guardaroba: un involto di piombo, ed alcune strisce di piombo trafilato.

Nella quarta camera di detto guardaroba: la sorbettiera di stagno, trombone di rame col suo sovro, due cassarole ed un coverchio di rame, una frissola di rame, una cioccolattiera di rame, un coppino di rame, tre coverchi di rame, due scumaroli di ferro ed uno di rame, una lucerna di ferro, una grattuggia, una paletta di ferro, il coppino di rame bianco, una saliera della lanterna di Genua.

Alla quinta stanza di detto guardaroba: aperta la porta piccola con violenza dalla parte della scala segreta del quarto mobile, undici bacchette di ferro grandi, e piccole, un ferro lungo per portiere d’arcuovo, una bilancia con tastiera di rame usata, un lambicco rotto di rame vecchia, un caccavo con la sua cocchiara, e maniche di ferro, due secchie per pozzo con loro catene, e maniche di ferro, due conche di rame vecchia inservibili, quattro langellotti di rame vecchio, un caldaio di rame vecchia, una frissola di rame, un caldarotto col manico di ferro rotto, quattro marmitte di rame vecchio, un forno di campagna di rame con ferri, una tiela di rame col manico di ferro rotto, una caldaia di rame vecchia, quattro buccagli di rame inservibili, uno mortarello di bronzo senza pistello, un gran capifuoco di ferro, due altri ferri, due spiedi di ferro, una padella di ferro col suo pomo di ottone, due marchi di ferro piccoli, tre fiori di ferro per palcone, sei spade, sette pugnali, fucili di ferro ariata n. 4, fucili all’apruzzese n. 8, sei candelieri piccoli d’ottone. E croce d’ottone per l’altare, scatola coverta di pelle rossa con maniglia e mascatura, scatola con scettro di diaspro, un passavolante rotto e segato, una sega, ed uno scalpello, uno spiedo grande, due scoppette vecchie, due carabini con tenieri e fucili guagli, dieci canne di scoppette, due pistoli per avanti cavallo con fucili alla spagnola alcuni granellini antichi inservibili, una scialba vecchia.

E da detto Palazzo successivamente siamo passati alla casa della Corte, e propriamente al quartiere di soldati seu armieri, ed alle carceri, ed ivi abbiamo ritrovate le seguenti cosse mancantino: Alle carceri: la catena di ferro di maglia 56 con due canali anche di ferro.

Al suddetto quartiere dei soldati una lettiera con i scanni di legno, quattro lenzuola, due pagliacci, e due mante d lana cardata.

Quibus omnibus sic peractis prefati Nicolai Grimalddi et Felix Antonius Fasano recoiunt nos [...]

Presenti Giuseppe di Donato giudice a contratti, testimoni: Basilio Landolfi, Soccorso Landolfi, Giuseppe Barbaro.

 

3. 1799, maggio 20. (ASA, B 7015, f. 67r).

Alcune persone di Solofra dichiarano che Felice Antonio Garzilli ha fatto varie collette per sostenere le truppe comandate dal Capitano Raffaele Grimaldi di Solofra che in Montoro erano insorte "contro i ribelli della Religione e del Trono".

[...]. Si sono costituiti i signori don Giuseppe e Nicola Pandolfelli, don Francesco Garzilli di Vito, don Luigi e Donato Giannattasio, don Michele Garzilli, don Antonsanto Giliberti, don Vincenzo de Santis, don Giovanni Giliberti, il diacono don Luigi Russo e il diacono don Taddeo Garzilli tutti di questo Stato di Solofra, li quali fanno piena e indubitata fede, ed attestano con giuramenti avanti di noi, qualmente a loro ben consta, che a causa dell’insurrezione del convicino Stato di Montoro contro i ribelli della Religione e del Trono, attrovandosi il signor don Nicola Gervasio di detto Regio Stato qui in Solofra in casa del di lui genero don Felice Antonio Garzillo, il medesimo per dimostrare cogli effetti il piacere che nutriva per la sussistenza delle suddette insorgenze in difesa della Real Corona, ed affinché le numerose truppe che la componevano sotto la direzione del Capitano Comandante don Raffaele Grimaldi di detto Regio Stato non si fossero disarmate o desistito avessero dall’incominciata impresa per mancanza di vitto e di danaro per loro mantenimento giornale; perciò lo stesso signor don Nicola si è cooperato con tutte le sue forze, e maniere di poter raccogliere somme in questo suddetto Stato di Solofra per somministrarle alle dette Truppe di Montoro; per cui si è veduto giornalmente e ad ore anche incompatte andare in giro per le case così degli Amministratori di questo pubblico che dei particolari galantuomini benestanti di questo suddetto Stato per poter riunir danaro per il detto bisogno; siccome infatti mercè la sua grande efficacia, e zelo li è riuscito di raccogliere, e conforme neo univa qualche somma la rimetteva per corrieri e per posta scortati da persone armate a detto signor Comandante delle Truppe signor Grimaldi; anzi l’altro ieri verso l’ora di mezzogiorno avendo aumentata anche buona somma col Regio Notaio don Giustiniano Giliberti calarono dette persone in detto Regio Stato di Montoro a portare detto danaro. E questo è tutto si attesta da loro per la verità [...]. Presenti il giudice a contratti Giuseppe di Donato e i testimoni Francesco Nicola Maffei, Soccorso di Donato e Soccorso Ciccarelli di Solofra.

4. 1799, maggio 21. Serino. (ASA, B 6358, f. 5).

Atto pubblico a favore del sacerdote secolare Domenico Anzuoni fatto da Domenico di Aiello, economo e curato di Rivottoli (Serino) ed da altri dello stesso casale di Serino che attestano che l’Anzuoni era "sacerdote morigerato e di esemplari costumi e dacchè seguì la rotta in Monteforte per timore dei Francesi si ritirò per sua sicurezza nel Monastero dei PP. dei Cappuccini dello Stato di Solofra".

5. 1799, giugno 18. (ASA. B 7015, f.70v).

Dichiarazione di alcuni soldati della Truppa di Solofra, che, al comando del capitano Pasquale Ronca, il giorno 23 giugno attaccò "i ribelli del Trono" nei dintorni di Napoli subendo tra le perdite quella del fratello del Comandante, sacerdote Francesco Ronca.

[...] In nostra presenza si sono costituiti Pasquale D’Urso, Michele Rosalia, Giuseppe Antonio Guarino, Domenico Di Girolamo, Rocco Esposito, Domenico Ronca, Michele Grimaldi, Vincenzo Antinolfi, Serafino Russo, Pasquale Vicedomini. Michele Forte, Michele Iasimone, Vitantonio Ianuale, Pasquale Ruocco e Carmine Troisi, soldati a massa della Truppa di questo Stato di Solofra in difesa della Maestà del nostro Re (Dio guardi) addetti al comando del signor don Pasquale Ronca Capitano Comandante della medesima, li quali attestano con giuramento avanti di noi come essendosi portati col detto di loro Comandante e di lui fratello sacerdote secolare don Francesco Ronca nell’attorno di Napoli per discacciare i ribelli del Trono, allora di giovedì 13 corrente giugno verso le ore 23 avendo attaccato il fortino situato sotto la fabbrica nuova per comando di un generale inglese essendosi ricusata la resa di quello colle vittuaglie colà delle guardie delle Truppe regaliste fra gli altri vi era il suddetto reverendo detto Francesco fratello del Comandante il quale fra lo strepitoso attacco si distinse nel valore; quando poi furono circa le ore ventiquattro, e mezzo essendosi dato fuoco ad una mina di polvere o artatamente o a caso allo scoppiar di quella vi restarono molti estinti e fra gli altri morti vi perì il cennato quondam don Francesco il quale nella mattina seguente del venerdì fu da essi testificati riconosciuto, e veduto con li di loro propri occhi morto e bruggiato a terra disteso [...]. Presenti il giudice a contratti Giuseppe di Donato e i testimoni rev. Francesco Saverio Grassi, Giovanni Giliberti e Soccorso Ciccarelli.

6. 1799, luglio 1. Solofra. (ASA, B7029, f. 26v).

Attestato del sac. Giuseppe Antonio Grassi, del novizio Filippo Grassi e dei sigg. Francesco Giannattasio, Giovanni Pacileo, Consolato Cuoci, Pasquale D’Urso, abitanti di Solofra sugli avvenimenti del primo maggio, giurando i sacerdoti "col tatto del petto" e gli altri "col tatto della carta".

[...] nel giorno 1° del mese di maggio prossimo passato verso le ore 16 il Commissario del Regio Stato di Montoro Sig. don Pasquale Grimaldi mandò a chiedere aiuto di gente armata in questo Stato di Solofra non meno che in S. Agata casale dello Stato di Serino dicendo che s’approssimava ad essi loro una grossa truppa di Francesi, e Patriotti, che veniva dalla parte di Nocera de’ Pagani, ed altri luoghi per piantare l’infame albore, detto della Libertà in questi nostri paesi, che doi vote già si era reciso ed incenerito; per la qual cosa, tanto in questo suddetto Stato di Solofra che nel detto casale di S. Agata di Serino si sonarono le campane all’Armi, e si armò la maggiorparte di questa popolazione composta di sacerdoti secolari, e regolari, galantuomini e plebei, e s’incamminarono verso il Regio Stato di Montoro, e per strada s’incontrarono coll’arme del detto casale di S. Agata di Serino tra’ quali ei ravvisarono, non solo il rev. Parroco di quel casale don Giuseppe di Maio, armato di fucile, ma benanche l’Accolito don Nicola d’Arienzo e suo fratello don Marcantonio e don Remigio di Maio ed altri, e per essere di loro amici e conoscenti di uniti ad essi giunsero in detto Regio Stato di Montoro e portandosi dal suddetto Commissario Grimaldi dal quale ricevuti gli ordini, si portarono, sino al luogo detto S. Angiolo, da dove di già erano stati rispinti e posti in fuga, i suddetti Francesi e Patriotti, per cui dal detto Sig. Grimaldi licenziati, ringraziati dicendoli, che in ogni occorrenza chiamati l’avrebbero [...].

7. 1799, luglio 2. S. Agata di Serino. (ASA, B 6941, ff. 134r-137v).

Dichiarazione di alcuni realisti di S. Agata di Serino sull’azione dei municipalisti locali nello stesso casale, ad Avellino e a Napoli.

[...] Nella nostra presenza si sono costituiti Simone Buonanno, Gennaro Perreca, Gennaro De Maio di Vincenzo, Sabato De Maio del quondam Francesco, Nicola De Maio di Vincenzo, Felice Antonio Guarino, Vincenzo De Maio di Pasquale quondam Michele, Carmine Filippo De Maio quondam Domenico, Andrea Gaeta, Domenico D’Urso, Michele De Stefano, Antonio Giannattasio, Luigi Savarisi, Francesco Di Maio quondam Gabriele, Giuseppe di Andrea De Maio, Andrea del quondam Antonio Guarino, Luigi Moretto, Felice Moretto, Nicola Cotone, Vincenzo Famiglietti, Pasquale Moretto, Gio Antonio De Maio, Nicola D’Arienzo, Domenico De Maio di Basilio, Angelo Antonio De Maio, Carmine Filippo De Maio quondam Giuseppe, Giovanni Giannattasio, Francesco Moretto, Rocco De Maio, Giuseppe De Maio, Francesco Cotone, Pietro De Maio, mag. Domenico di Maio quondam Crescenzio, Crescenzio De Maio di Giuseppe, Pasquale del quondam Domenico De Maio, Mario De Maio, Filippo De Maio di Mario, Sabato quondam Ciriaco De Maio, Carmine Antonio Spiniello, Antopnio Di Maio quondam Gio Battista, Nicola Giella tutti di S. Agata di Serino [...] davanti al giudice a contratti e a testimoni dichiarano [...] che ritrovandosi in detto casale Monicipalisti della sedicente e caduta Repubblica il fisico Modestino Piemonte, Remigio De Maio, Nobile Salvatore De Maio, Samuele De Maio, Matteo De Maio, Nicola d’Arienzo quondam Filippo, e Nicola Guarino i quali, non solamente piantarono in detto casale quattro volte l’infame albore detto della libertà, il quale fu rotto, e franto dalla gente armata del Popolo basso di detto casale e per di loro capo, il primo tenente sig. Donato Nigro dello stesso casale, ma benanche li medesimi Monicipalisti, precedente ordine dalli medesimi emanato, colla pena d’immediata fucilazione disarmarono l’intero suddetto casale di S. Agata di Serino, e si presero circa 80 fucili, armi bianche, e monizioni; ciò fatto, gli stessi monicipalistri armata mano si portarono in Avellino, ed ivi fecero fuoco contro gli fedeli Realisti, da dove se ne passarono nella città di Napoli uniti coll’armata delli ribelli francesi ed ivi hanno mantenuto il fuoco sino che dalli fedeli Realisti si prese il possesso di detta città di Napoli, ciò vedutosi dal sopraddetto primo tenente sig. Donato Nigro, il medesimo armato di zelo in favore del Regio Maestoso trono di Sua Maestà, che Iddio sempre feliciti, unito con altra gente Realista armata, ed egli in capo, non solamente ha dissipati molti inimici del detto Regio Trono in vari attacchi di fuoco tenuti in molte parti di quest Regno ma benanche arrestè, e rattrovansi ditenuti nelle carceri gli suddetti Nobile Salvatore De Maio, Matteo di Maio, Modestino Piemonte. Finalmente gli suddetti municipalisti nell’ultima piantare di detto infame albore, si vestirono, non solo essi di funi, e pennacchiera, ma benanche ebbero l’ardire di situare la pennacchiera, e nona francese alla testa del nostro amabilissimo sig. Gesù Cristo cantando il Te Deum; come altresì i suddetti Municipalisti, preceduta ancora di loro ordine di fucilazione in dispregio della nostra Sacrosanta Religione, fecero trasportare in vari giorni di domenica, dalla gente di detto casale una gran quantità di pietre. Dicendo servire le medesime per accomodo della strada per vantaggi della suddetta caduta Repubblica et sic iuraverunt [...]. Presenti: Mag. Michele D’Urso regio giudice a contratti dello Stato di Solofra. Antonio Guarino, Michele De Stefano e don Basilio Landolfi di detto Stato, testimoni.

8. 1799, luglio 18. Solofra. (ASA, B 7029, f. 32r).

Dichiarazione di Giacinto De Maio, Stefano Guarino, Francesco Cotone, Giovanni Caruso, Giuseppe Nigro, Michele Guarino, Carmine Filippo De Maio, Beniamino Guarino, Tommaso Guarino, Giuseppe D’Urso, Nicola Vincenzo D’Urso, Domenico e Antonio Gaita, Vincenzo Di Maio, Domenico Grasso, Michele di Stefano, Giovanni Di Maio tutti "naturali abitanti", capi di famiglia, maestri di bottega, e coloni di S. Agata di Solofra e di Serino.

[...] Donato Nigro fu Domenico, di loro compaesano, e conoscente sia stato sempre attaccato alla Regia Corona, per aver sempre preso le armi in difesa della medesima tanto vero che la Municipalità di detto casale di S. Agata vederlo così attaccato al Regio Trono ordinò la sua carcerazione, che poi ne fu avviato e si rifugiò nel Regio Stato di Montoro, e quello di San Severino in dove stiede per molto tempo, e quanno si recisero l’infame albore in detti loro casali si vidde il detto Nigro comparire nuovamente colle armi alle mani in difesa del prelodato Nostro Sovrano (Dio Guardi) con molti altri suoi compari e compaesani, i quali hanno fatte delle continue carcerazioni di Giacobini e Patriotti di questi convicini, come pure essi testificanti attestano e fanno fede che lo stesso Domenico Nigro non ha fatti ricatti, né tampoco latronecci in detti casali [...].

 

9. 1799, luglio 24. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 38v-r). Dichiarazione di Marcantonio D’Arienzo, Donato Di Maio fu Crescenzo, Vitoantonio Di Majo di Pietro, Saverio D’Urso di Andrea, Sabatantonio Di Maio fu Andrea, Michele Di Maio di Vincenzo, Biasi D’Urso fu Michele di S. Agata di Serino sui fatti del 28 aprile e del primo maggio.

[...] nel giorno primo del mese di maggio prossimo scorso verso le ore 16 al suon delle campane all’Armi si radunò buona parte di questo casale, facendo allora da Capitano Comandante il costituito Marcantonio D’Arienzo per essere stato creato Tenente Colonello il Sig. don Costantino de Filippis con patentiglia come si dice e fra questi non solo accorse il Rev. Parroco di questo casale don Giuseppe Di Maio, anche armato di fucile ma benanche i suddetti costituti e il sig. Remigio Di Maio, don Nicola D’Arienzo ed altri di loro paesani e conoscenti, che non si ricordano, e s’avviarono verso la strada del Regio Stato di Montoro per dove si unirono tanto colla gente armata di Solofra, che andavano in soccorso dei Montoresi che l’avevano richiesto andando sempre avanti ad gente armata il suddetto sig. don Remigio di modo che incoraggiava i suoi compagni per la pronta difesa del Trono, che al ritorno poi a tutta detta gente armata si diede una famosa colazione a sue proprie spese, come pure asseriscono i primi quattro testatori cioè don Marcoantonio, sig. Donato, Vitantonio e Saverio che nella sera del 28 aprile di questo corrente anno, verso le ore due della notte il suddetto don Remigio con una scura, o sia accetta alle mani, fu il primo a dare dei colpi nell’infame albore per cui si fe da’ suoi, che d’altri colpi restò reciso e la mattina del ventinove di detto mese si sonaron le suddette campane a gloria per la seguita recisione del detto albore [...].

10. Idem. Solofra. (ASA, B7029, f. 40). Giuseppe Graziano di Nicola il giorno 13 giugno del 1799 "passò da questa a miglior vita nelle vicinanze di Napoli e proprio nel fortino detto Viglieja, dove morì gloriosamente colle armi in mano in difesa del Nostro Piissimo Monarca (Dio guardi) non meno che della cattolica legge".

11. 1799, luglio 25. Figlioli di Montoro. (ASA, B4542, f. 65). Attestato sui fatti di Forino ed Avellino.

[...] che insieme ad altri dello stesso casale nelle passate invasioni dei Francesi non hanno mai mancato di dimostrare la loro generosità nei continui assalti colla maledetta nazione e nel primo attacco avuto nel ristretto di questo Regio Stato con malvaggi e naturali della convicina terra di Solofra e quelli riuniti ne furono col divino aiuto vincitori che vi restò estinto il numero di più ribelli e i pochi rimasti dati in fuga. Nel gran fuoco fatto in Forino ed Avellino detti insieme ad altri dopo aver fatto macello recisero alla fine più teschi di quelli e li trasportarono per prova della fatta preda nel campo che allora esisteva in queste predetto Regio Stato [...].

12. 1799, luglio 27. (ASA, B7029, f. 53r). Fortunata Ronca moglie di Michele di Agnello dichiara che il marito è "ritenuto nella Real Fabrica nuova del Ponte della Maddalena di Sua Maestà (Dio guardi) al Ponte della Maddalena della fedelissima città di Napoli per causa delle presenti insurrezioni di questo Stato di Solofra".

13. 1799, luglio 28. Solofra. (ASA, B7029, f. 63r). Dichiarazione di Soccorso Di Maio, Vitoantonio Di Maio di Pietro, Francesco Di Maio, Pasquale Di Maio, Biase Del Vacchio, Giuseppe Di Maio fu Salvatore, Pasquale Di Maio fu Domenico, Tommaso Guarino, Domenico Di Maio fu Carminantonio, Giovanni Faggiano, Giuseppe Antonio Guarino, Saverio D’Urso, Nicola Guarino, Luigi Savarisi tutti "naturali del convicino Stato di S. Agata di Serino e al presente in questo Stato di Solofra".

[...] il loro paesano Notaio don Salvatore De Maio per tutto il tempo passato non solamente è stato uomo probo, onesto e di morigerati costumi, ma enziadio have avuto sempre attaccamento alla religione cattolica, e alla Sovranità avendo sempre ciecamente ubbidito alle leggi del nostro Augusto Re Ferdinando IV (che Iddio sempre feliciti) e maggiormente nel suo ufficio di pubblico e Regio Notaro che fedelmente e con ogni decoro have esercitato ed esercita ; né mai ha tenuto sentimenti di giacobinismo, o fatto dimostrazioni favorevoli alla passata Republica ; tanto vero che fu incluso nella passata municipalità a causa che per necessità del Suo ufficio , perché si rattrovava in quel tempo Cancelliere di quell’Università, e per conseguenza fu astretto di fare da segretario, e per la causa ancora che non vi era colà altra persona, che poteva detto ufficio disimpegnare e non per altro fine".

14. 1799, agosto 4. Solofra. (ASA, B7029, f. 64). Dichiarazione del fisico Nicola De Maio, di. Vitoantonio De Maio di Pietro, Michelangelo D’Urso fu Angelandrea e Carmine Troisi di S. Agata sul primo maggio.

[...] il di loro paesano fisico Modestino Piemonte sia stato più tosto attaccato al Trono che alla Repubblica tanto vero che nel giorno primo del mese di Maggio prossimo passato di questo corrente anno 1799 rattrovandosi il medesimo capitano della Truppa di detto casale per essere stato creato dal Comandante Mariano D’Arienzo di detto casale; il quale nel sentire il suono delle campane all’Armi tanto di questo suddetto Stato di Solofra che nel predetto di loro casale che preso avessero le armi in difesa della Religione e del Nostro Sovrano (Dio Guardi) a causa che gli era pervenuta notizia dal convicino Regio Stato di Montoro che s’approssimava loro una grossa truppa di Francesi e di Patriotti per ripiantare l’albore che già reciso avevano da più giorni, e nel tempo stesso per saccheggiare e devastare questi luoghi siccome ad altri luoghi fatti avevano per cui armata che fu buona parte di questi naturali si unirono a massa e s’incamminarono verso il suddetto Regio Stato di Montoro e giunsero sino allo Stato di S. Severino e propriamente nel casale detto S. Angiolo in dove rittrovarono che erano stati respinti i suddetti Francesi e Patriotti.

15. 1799, agosto 7. Serino casale di S. Biaso. (ASA, 6358, f. 105v). Dichiarazione a favore di Gaetano Magnacervo resa da Felice Ferrazzano e da Francesco Paolo Natale di Solofra ed altri di Serino.

[...] come essendo stati chiamati in Serino nella fine di aprile 1799 di unità ad altri loro compagni suonatori per servire da banda nella truppa Regalista in massa dello Stato di Serino ed altri luoghi vicini si ritrovavano che tutta la suddetta truppa rattrovava comandata dal Sig. Costantino dei Filippi ora colonnello dei Reali eserciti e da D. Gaetano Magnacervo e venì tutti e due conoscenti da loro dello Stato di Serino i quali andavano realizzando molti luoghi come Solofra di loro patria., Atripalda, Aiello, Civitale ed Avellino, ed avendo inteso si trovava verso Monteforte la truppa Francese essi Sig. Colonnello Costantino e Gaetano si avviarono colla loro truppa per resistere lì. Infatti nella vicinanza di Monteforte seguirono replicati fatti di armi ed attacchi, nelle quali esso Gaetano fu sempre alla testa istigando essi sottostanti e tutta la truppa a resistere e espellere il nemico. [...].

16. 1799, agosto 12. (ASA, B7029, ff. 66-67). Dichiarazione del saccheggio di una vigna sita in località al Sambuco ossia alle Selvetelle.

[...] Agostino Giannattasio del quondam Consolato, Vincenzo Gaita, Nicola Gaeta, Michelangelo Di Stefano, coloni abitanti a costo alla Vigna di don Vito Vigilante posta in queste pertinenze nel luogo sotto al Sambuco ossia alle Selvetelle che attualmente si tiene in affitto da Vito Del Vacchio da Francesco De Maio di detto Stato [...] dichiarano che varie persone di ogni età, e condizione si sono portati in questo corrente anno in detta vigna di detto don Vito Vigilante ed ivi a guisa di Padroni, e non ostante la resistenza fattali da detti fittuari Vito del Vacchio e Francesco Di Maio si hanno raccolto le cerase, fichi, mela e prugne ed il detto Michele de Stefano testificando soggiunge d’aver veduto coi suoi propri occhi dette persone, che si hanno raccolta la robba indebitamente et sic iuraverunt.[...] Presenti: Giuseppe di Donato giudice a contratti, Agostino Guarino, Soccorso Landolfi, Donato Petrone, testimoni.

17. 1799, agosto 18. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 66-67). Il sindaco di S. Agata di Serino e gli eletti prendono possesso dei corpi della Università.

[...] A richiesta fattaci per parte ed istanza del Magnifico Signor Domenico Antonio De Maio del detto casale di S. Agata di Serino, ci siamo di persona portati nel medesimo casale e propriamente avanti la parrocchiale Chiesa dove giunti abbiamo rattrovato pur anche il sig. don Mariantonio D’Arienzo odierno Sindaco di detta Università di S. Agata al di cui arrivo il cennato don Antonio in presenza non meno nostra che del detto odierno Sindaco ultimamente eletto ha richiesto il vero pacifico e corporale possesso di detto Sindacato sul pretesto che ad esso spettava i Nuovi affitti dei corpi di detta Università per l’annata di Sua Amministrazione principiando a 1° settembre di questo corrente 1799 e terminando a tutto agosto 1800 in unione d’altri due suoi compagni Eletti cioè il sig. Pietro De Maio là Eletto presente nel presente Atto e il sig. don Salvatore De Maio quondam Pietro secondo Eletto assente, in esecuzione della predetta Elezione fatta nelle di loro persone in pubblico Parlamento nel giorno 11 camminante mese di agosto 1799 in presenza ed assistenza non meno del detto Sindaco odierno che fece le dette nomine ma benanche di Donato Antonio Pierri attuale Giudice a Contratti dell’intiero Stato di Serino a tal uopo invitato, come pure di me medesimo infraddetto Notaro attuale cancelliere straordinario eletto dal detto odierno Sindaco Mariantonio a causa ch’essi inclusi furono con maggioranza di voti siccome dagli atti di detta Elezione più chiaramente si raccoglie che anche presso di me si conservano per futura buona memoria. E conferitoci in detto luogo solito a congregare i Parlamenti ed ivi radunati buona parte delli capi di Famiglia di detto Casale per concedere i suffragi segreti a tal fine chiamati e conoscendo esso odierno Sindaco Mariantonio cosa troppo doverosa una tal domanda di possesso per esecuzione del suddetto Parlamento [...] ha perciò posto gli riferiti Domenico Antonio De Maio presente e don Salvatore De Maio fu Pasquale assente e per esso me Notaio presente e stipulante nel vero reale e corporale pacifico possesso non ostante l’assenza del loro compagno Salvatore Amministratore e governatore di detta Università gradatamente uno doppo l’altro come sopra per la suddetta annata [...] con tutti gli oneri prerogative e emolumenti ed ogni altra facoltà che esso ha goduto con i suoi compagni Eletti [...] ed indi ha consegnato nelle proprie mani al riferito Domenico Antonio suo successore l’offerta degli affitti faciendi alle dette gabelle ed altri corpi della stessa Università e concedendo da ora per alora la piena facoltà e potestà di poter vendere ed affittare li suddetti corpi della medesima Università e di fare tutti gli atti d’accensione colla solita dovuta promessa fatta ad esso odierno Sindaco che mai in detti affitti vi accadesse interesse o minimo disturbo sì per parte di essi novelli Amministratori che per la suddetta annata [...] in tal caso tutti i danni ch’accadranno andar debbiano a carico e rischio di esso don Domenico Antonio e suoi Compagni , restando sempre il cennato Mariantonio odierno sindaco intatto ed incluso da ogni perdita o danno che mai potesse accadere su tali affitti ed affittatori [...].

18. 1799, agosto 19. Piano di Montoro. (ASA, B 4542, f. 71). Attestato di alcuni di Piano e Parrella di Montoro che affermano "come nel primo attacco avuto nel ristretto di questo Regio Stato con malvaggi e naturali della convicina terra di Solofra a quelli riuniti ne furono col divino aiuto vincitori che vi restò estinto il numero di più ribelli e i pochi rimasti dati in fuga". [...].

19. 1799, settembre 2. Montoro. (ASA, B 4542, f. 78). Attestato di alcuni naturali dei casali di Piano e Parrella che affermano "come l’attuale tenente don Andrea Pascale della Truppa in Massa Cristiana condotta dall’attuale Colonnello Pasquale Grimaldi nelle passate invasioni di Francesi e patriotti ha mostrato la sua generosità negli assalti [...] nel primo assalto avuto in Montoro con Solofra vinse e restò estinto un gran numero di ribelli".

20. 1799, settembre 4. Solofra. (ASA, B 7015 copia posta tra i ff. 97 e 98). Il Parlamento dell’Università di Solofra delibera di contrarre un debito con mutuo ad interesse scalare per riparare alle spese fatte dall’Università per sostenere le milizie di Ferdinando IV nella riconquista del regno.

[...] Ferdinando IV, per la Dio Grazia re, dottore dell’una e l’altra legge don Giacomo Imbellone governatore e giudice di questo Stato di Solofra. Precedentino li pubblici banni congregati in questo Pubblico Archivio luogo solito a convocare parlamenti con l’assenso e intervento del Governatore e giudice di questo Stato don Giacomo Imbellone i magnifici attuali Regimentari interini don Gennaro Pandolfelli sindaco, don Michele Garzilli di Felice primo Eletto, don Antonio Guarino, don Tommaso Guarino, e M. Sabbato Scarano Eletti, non che li infraddetti magn. Decurioni cioè don Francesco Garzillo quondam Vito, Mariano Murena, Domenico Guarino, Filippo Vigilante, Donato Giannattasio, Domenico Crescillo, Gaetano Guarino, Alessio Maffei, Raffaele Garzillo, Giacomo Garzillo, Giovanni Fasano, Michele Troisi, Nicola Giannattasio, Pietro Grimaldi, Mihele Scarano, Gaetano Giannattasio. A tali magnifici Decurioni vocali si è proposto da esso sign. Governatore Giudice e dal surriferito signor Sindaco Gennaro Pandolfelli in compagnia dei suddetti Regimentarii Eletti come per la misericordia di Dio essendo ritornato il Nostro amabilissimo Padre e sovrano Ferdinando IV (Dio Guardi) in questo suo Regno colle gloriose sue armi a liberarci dalla fiera schiavitù della passata infamia sedicente Repubblica, e a restituirci la nostra pace perduta, ad assicurarci la nostra vita, ch’era in continuo pericolo di perdersi, a mantenerci il pericolante onore delle nostre donne e famiglie, a mettere in sicuro tutte le nostre robbe nostre sostanze, a far maggiormente trionfare ed adorare il sacrosanto vessillo della Croce, in sustegno della Santissima legge di Nostro Signor Gesù Cristo ed a ritornarci insomma in quel primiero stato di pace e tranquillità che sempre abbiam goduto sotto gli suoi felicissimi paterni reali auspici dileguando l’ombre tutte delle nostre inesplicabili disavventure: per tanto fare necessariamente detto nostro amabilissimo sovrano ha dovuto sopportare ed erogare ingentissime spese; in segno dunque di dovuta gratitudine di noi suoi figli verso un tanto amorosissimo nostro padre, si propone alle Signori Vostre ch’è espediente e dovere che tutte le spese fatte da questa Università a conto del nostro su riferito sovrano per le sue milizie capitruppe, ed occorso nel riacquisto del Regno si donassero per segno del nostro rispettoso affetto al Sovrano medesimo. Al che sentire gli vocali tutti unitamente han risposto: "Si Signore è giustizia e dovere che di tutto lo speso come sopra se ne faccia un dono al Nostro Amoroso Padre e Sovrano e che doppo la discussione de Conti de spirati Amministratori di questa Università per tutto quello che l’Università istessa rimarrà debitrice se ne dovesse fare un debito di mutuo coll’interesse per mano mano scalarmente estinguersi colle rendite medesime dell’Università, a quale oggetto si dona la facoltà all’attuali Amministratori della nostra Università di far ciò ed implorare il dovuto assenso del Re e suoi ministri. Quale proposizione passata anche in bussola secreta e rimasta tale quale conchiuse con tutti li voti inclusi ivi nemine penitus discrepante. E così è stato stabilito. Indi s’è proposto a detti magnifici Decurioni vocali che dovendosi discutere i conti de spirati Amministratori di questo Pubblico si proponeva per razionale la persona del magn. Notaio don Bartolomeo Grimaldi e dati ai Decurioni gli rispettivi voti, con passare indi la bussola segreta. Si sono ritrovati sedici voti inclusi ed uno negativo. Per lo che è rimasto conchiuso per Razionale il detto Grimaldi. Finalmente da detto magn. Raffaele s’è proposto ad essi magn. Decurioni vocali crear doveasi gli Grassieri di questo pubblico e perciò nominavano per grassieri don Michele Ronca, don Vitantonio Grassi, don Nicola Grassi. E fattasi la bussola segreta don Michele è rimasto incluso con 9 voti di si e otto di no, don Vitantonio Grimaldi è rimasto incluso con 14 voti di si e 3 di no, don Nicola Grassi con 13 si e 4 no. E così è rimasto stabilito e conchiuso in Parlamento con essersi indi lo stesso disciolto.

21. 1799, settembre 14. Solofra. (ASA, B7029, f. 76). Dichiarazione di Nicola Russo, Nicola Gioiella, Matteo Gioiella, Angelo Galasso, Andrea Faggiano, Pasquale D’Urso, Pietro Russo, Francesco Cotone, Gabriele D’Urso, Sabato D’Urso tutti di S. Agata di Solofra a favore di Nicola D’Arienzo.

[...]che la persona del Sig. Don Nicola D’Argenio di Banzano casale del Regio Stato di Montoro da essi testatori molto conosciuto d’essere attaccato al Trono per le molte prove che ne ha date in loro presenza per avere il magnifico D’Arienzo negoziato nel passato anno 1798 e propriamente nel mese di agosto con Giuseppe De Maio di S. Agata di Serino molto legname di castagno per uso di carboni per le Reali Ferriere di Atripalda siccome si rileva da validi documenti e come che in questo frattempo per nostra disgrazia entrarono in questo cristianissimo Regno le armi francesi per cui lo stesso don Nicola esortava ad essi testatori a stare di buon animo stante le suddette armi non avevano mota durata, come infatti fin dalla prima revoluzione il cennato Sig. Nicola animando i suddetti testificanti e ad altri nostri conoscenti a prendere le armi in difesa del Nostro Piissimo Sovrano, dicendo che se mai a ciascuno di essi testificanti mancato avessero le armi e munizioni il prelodato Nicola si offerse pronto a dare ad essi non solo armi e munizioni ma benanche danaro per il di loro vitto e mantenimento, animandoli a stare sempre pronti dove la necessità il richiedeva colle suddette armi per difesa del prelodato Nostro Sovrano per il recupero del suo Regno, come infatti vinti dal zelo si sono sempre col detto Sig. Nicola signalati coll’armi in difesa del prelodato Nostro Sovrano [...].

22. 1799, settembre 28. Solofra. (ASA, B 6941, f. 149v). Dichiarazione di alcuni dei casali di S. Agata di Serino e di Solofra sulla fede e sul comportamento realista di alcuni abitanti degli stessi casali.

[...] Vincenzo De Maio di Pasquale, Carmine Filippo De Maio q. Giuseppe, Giuseppe D’Arienzo q. Giuliano, Tommaso De Maio q. Basilio di S. Agata di Serino, Vincenzo Giliberti q. Matteo, Stefano Celentano q. Saverio di S. Agata di Solofra dichiarano [...] che Vito Caruso, Nicola D’Urso, Francesco D’Urso, Giuseppe De Maio, Francesco De Maio di S. Agata di Serino, Pasquale Troisi di S. Agata di Solofra che al presente formalmente si rattrovano detenuti nel Regio Tribunale di Montefusco sono Realisti, e per molto tempo coll’armi nelle mani in difesa del Regio Maestoso Trono di Sua Maestà Ferdinando IV, che Dio feliciti per lunghissimi anni, e sotto il comando del tenente Donato Nigro di detto casale di S. Agata di Serino, si sono portati in vari attacchi di fuoco sortiti nel presente Regno, ed han fatta la Guardia urbana in detto casale di S. Agata di Serino per la detta difesa, e sono stati pagati col danari delli naturali e dell’Università di detto casale di S. Agata di Serino, et sic iuraverunt. Presenti: giudice a contratti Giuseppe di Donato, testimoni Tommaso Rubino, Antonio Petrone, Francesco di Vito di Solofra [...].

23. 1799, settembre 28. Solofra. (ASA, B 6941, ff. 151v-154r). Dichiarazione di alcuni particolari di Solofra circa l’impianto dell’albero della libertà nella Piazza di Solofra e l’abbattimento delle Armi di Ferdinando IV poste sull’insegna della Regia Doganella del sale di Solofra.

[...]. Nella nostra presenza si sono costituiti il sacerdote secolare don Giuseppe Pandolfelli, don Nicola Vincenzo Grassi, don Filippo Fasano, Pasquale Giannattasio, Giuseppe di Donato di Girolamo, Cipriano Giliberti, Felice Antonio Petrone, Giuseppe Salvia, Consolato Cuoci, Pietrantonio di Donato, Nicola Carfagna, Ciriaco Antinolfi, Michele Antonio di questo suddetto Stato di Solofra, [...] come esistendo in detto Stato di Solofra la Regia Doganella dei Sali, che si esercita dal sig. don Giuseppe di Tura di detto Stato, qual sostituto del suo Principale sig. Gaetano Murena, sopra la porta della quale al di fuori vi sono affisse ed inchiodate l’Arme del nostro Monarca Ferdinando IV, che Dio feliciti per lunghissimi anni, dipinte in una tavola di legno nella fine del passato mese di gennaio del sopraddetto camminante anno, non ricordandosi essi Signori testificanti il positivo giorno, ritrovandosi detto Sig. don Giuseppe Pandolfelli, Pasquale Giannattasio, don Nicola Vincenzo Grassi, Cipriano Giliberti, don Filippo Fasano, e Felice Antonio Petrone avanti di detta Regia Doganella, viddero con propri occhi, ed intesero con proprie orecchie, che il medico don Antonio Garzillo del q. Gabriele di detto Stato, coll’armi nelle mani, e col seguito di più gente armata, dopo d’avere piantato nella pubblica Piazza di detto Stato l’infame albore detto della libertà, si condusse avanti di detto Regia Doganella, con ciera brusca e superba, e col veleno nelli denti ordinò al detto don Giuseppe di Tura di togliere dette Reali Armi colle seguenti parole: "Cittadino Giuseppe di Tura bassate queste indegne armi" al che esso don Giuseppe di Tura impallidito di colore per lo timore, con tutta umiltà e bassa voce li rispose, che avendo la scala l’avrebbe tolta, e dopo poche ore dello stesso giorno, il medesimo don Giuseppe di Tura ad oggetto di evitare qualche danno della di lui vita, per cagione delle minacce del detto medesimo Garzillo, si chiamò il detto Michele Antonio e questo salito sulla scala, in presenza di detti Giuseppe Salvia, Consolato Cuoci, Nicola Carfagna, Pietro Antonio di Donato e Ciriaco Antonio tolse con ogni diligenza l’armi suddette, le quali per l’antichità si ruppero, e furono fedelmente dal detto sig. Tura conservate nella stessa Regia Doganella in dove esistono al presente. Et sic iuraverunt [...]. Presenti il giudice a contratti Michele Scarano, i testimoni Basilio Landolfi, Soccorso Landolfi, Francesco di Vita.

24. 1799, ottobre 2. Serino. (ASA, B 6358, f. 129). Dichiarazione a favore di Salvatore Cirino resa da vari di Serino i quali attestano che il Cerino "loro compaesano ha sempre nutrito odio ed avversione al Francese e alla infame sedicente Repubblica tanto è vero che fu il primo sotto gli ordini di Costantino dei Filippi controrivoluzionario coadiuvante gli sforzi e lo zelo dei concittadini, abbattettero gli infausti alberi della detestabile libertà in Solofra, Atripalda, S. Michele".

25. 1799, ottobre 31. Solofra. (ASA, B6358 tra i ff. 298/299). Dichiarazione di alcuni battiloro e battargento di Solofra circa la decadenza di questa arte.

[...]. Costituiti nella presenza nostra personalmente li magnifici don Andrea e don Antonio Buongiorno, don Pasquale Grimaldi, don Giuseppe Scarano, don Donato Vigilante, don Giovanni Battista Ciccarelli, don Nicola Vincenzo e don Luigi Maffei, don Felice Antonio Grimaldi, don Tommaso Ferrante, don Matteo Nigro, don Luigi Landolfi, don Pasquale Alfieri, maestri battitori e lavoratori di argento e oro in foglio in questo Stato di Solofra li quali detti esempi di ordine della Principale Corte di questo predetto Stato di Solofra alli medesimi imposto ad istanza del Magn. Vincenzo Galdi maestro battitore di oro in foglio dimorante in Napoli che a noi esibito nel presente atto originalmente si conserva, e il suo tenore appresso s’inserisce attestano e con giuramento fanno fede colla promessa di ratificarla sempre, e quante volte sarà di bisogno qualmente ad essi testificanti ed a ciascuno di essi rispettivi consta, e lo sanno per causa di scienza, che in questo medesimo Stato, nelli passati anni si è quasi sempre e in ogni tempo forgiato battuto e lavorato oro in foglio per loro conto e per incombenze datele dal magn. Pasquale Guarino li qq. Giuseppe Giliberti, Salvatore Guarino, Orlando Pandolfelli, Giuseppe Maffei del quondam Francesco, Michelangelo Tura, Gio Bernardo Garzillo, Emanuele Maffei, Taddeo Forino, e Gaetano Ferrara, ed anche il magn. Don Sebastiano Pandolfelli dopo la morte del detto quondam Orlando fu suo padre avendoci anche lavorato essi testificanti maggior parte in fare d’oro in foglio, con averlo il cennato Luigi Maffei forgiato ed il riferito Donato Vigilante accapate le forte di detto magn. Don Pasquale Guarino ed intanto presentamente non si lavora detto oro in questo medesimo Stato, per causa di non essere stato incombensato. [...].

26. 1799, ottobre, 31. Solofra. (ASA, B. 6358 tra i ff 298/299). Dichiarazione del battiloro solofrano abitante a Napoli Vincenzo Galdi sul fatto che i battargento solofrani nelle loro botteghe lavoravano anche l’oro.

Al Sig. Luogotenente e giudice dello Stato di Solofra. Vincenzo Galdi del detto Stato, maestro e lavoratore d’oro in foglio, dimorante in Napoli supplicando espone ad usum come li bisogna fede di verità e con giuramento d’essersi nel detto Stato nei passati anni ed in ogni tempo sempre lavorato oro in foglio da naturali dello Stato medesimo nelle Botteghe dei battitori d’argento sistenti nel cennato Stato il perché tutto ciò consta alli medesimi don Andrea e don Antonio Buongiorno, Pasquale Grimaldi, Giuseppe Scarano, Donato Vigilante, Gio Battista Ciccarelli, Nicola Vincenzo e Luigi Maffei, Felice Antonio Grimaldi, Tommaso Ferrante, Matteo Nigro, Luigi Landolfi, Pasquale Alfieri ed altri li quali essendo stati richiesti ricusano fare detta fede ; che perciò il supplicante ricorre ad V.S. e la supplica ordinarli, che subbitro faccino detta fede di verità, con giuramento e l’avrà, ut Deus est. 31 ottobre 1799. Fiat petite fides veritatis.

27. 1799, novembre 23. (ASA, B6358, f 299). Dichiarazione del Sindaco dell’Università di Solofra don Gennaro Pandolfelli di aver ricevuto dinanzi al Governatore e Giudice della Stessa da Massimiliano Murena ducati 1850.

28. 1800, marzo 28. Solofra. (ASA, B7029, ff. 19v-20v). Dichiarazione circa un atto della "compagnia" di Filippo Venuti.

[...] Angela Troisi moglie di Domenico Pirolo abitante in Turci nelle pertinenze dello Stato di Serino in qualità di Taverniere e affittatrice dell’Ecc. Principe di Avellino [...] dichiara che rattrovandosi essa testimone col mestiere di Taverniera nella suddetta Taverna denominata Turci in dove verso de 20 del passato mese di novembre 1799 nella sera del detto giorno presero ad alloggiare ne la di lei Taverna vari viaticali Nuschesi i quali essendo usciti in discorso dell’omicidio sortito in persona del di loro compaesano Luigi Ebreo che morì nella mattina degli 11 del detto mese a colpo di scoppetta mentre andarono colla compagnia seu squadra di Filippo Venuti ad assoldare ed arrestare il Carrafaro o sia Carmine e Nicola Caraviello fratello di detto Stato di Solofra, atteso come si voleva che il detto Luigi fusse morto per mano di uno di essi Caraviello, ma non era così, perché essi viaticali sapevano per averlo inteso dire per bocca dei compagni del detto Ebreo i quai compagni dicevano per in mezzo della di loro città le seguenti parole :"è vero che i solofrani portano la nominata d’avere ammazzato Luigi Ebreo ma noi ne abbiamo fatti stante che da più tempo gli era stata promessa una tale morte s’aspettava l’occasione e così ha testificato" Presenti il giudice a contratti Pasquale Petrone e i testimoni Taddeo Giannattasio, Michele Angelastro e Matteo Ruocco.

29. 1800, aprile 4. Solofra. (ASA, B7029, ff. 34v-35v). Dinanzi al notaio Vito Antonio Grassi, a testimoni e al giudice a contratti dell’Università di Solofra, i bracciali Pasquale Vignola, Gaetano D’Amore "per esonerazione di loro coscienza" attestano quanto segue "rispetto alla deposizione da essi fatta pel di loro paesano Sabino Pirolo" davanti allo scrivano Vincenzo Guarino "in occasione dell’inquisizione di Stato presa ultimamente dal Regio Uditore Sig. Carlo de Franchis".

[...]como nel dì primo dello scorso mese di marzo corrente anno, essendosi stati chiamati con ordine del detti Signor Visitatore de Franchis, andati alla di lui presenza furono interrogati dal detto scrivano detto Vincenzo prima, quale fusse il nome di essi costituiti, ed avendolo inteso rispose ‘giusto voi andava trovando: ditemi avete voi mai fatigato nel giardino di detto Sabino Pirolo. Al che risposero essi costituiti di sì, e propriamente nel principio di Aprile del decorso anno 1799. E bene ripigliò lo scrivano, facesti qualche discorso allora col detto Sabino, ed avendoli essi costituiti risposto di sì, ripigliò detto scrivano: ditemi dunque, quale fu il discorso che fece il detto Sabino con voi: su di ciò essi costituti risposero ‘Sissignore nel principio di aprile dello scorso 1799, non ricordandoci il giorno con precisione, per lo elasso del tempo, vivendo questo stato di Solofra soggetto al distrutto governo repubblicano, stando noi a fatigare dentro il giardino del detto don Sabino, venne lo stesso don Sabino in detto giardino per assistere al lavoro di essi costituti e nel giungere disse loro: crepiti belli figliuoli. Al che disse in secreto esso costituto Gaetano d’Amore, ad esso costituto Pasquale Vignola suo compagno: compà Pascà, volimmo pirolià un poco don Sabino? Al che rispose esso Pasquale, piroliamolo. Allora cominciò esso Gaetano d’Amore: Don Sabino sienti l’inglese da mare, che ti fa, perché tal fatto seguì in tempo che s sentivano delle cannonate, che si tiravano in Salerno fra gli Inglesi, ed i Francesi, al che rispose detto Don Sabino: Non hanno che fare, perché è da luongo queste botte non si sa se sono le nostre, o dei nemici’. A questo ripigliò esso Pasquale: Oh come si dice, si ha bottata, o la porta di Salierno, o la fontana. A questo disse don Sabino: Voi volite pregate Dio, che si va fare fottere sta repubblica, ca se no voi site muorti, e nui jammo pezzenno. A ciò rispose esso Pasquale: e pecchè avimmo doj pezzenno, nui avimmo le braccia. Ripigliò don Sabino: se avimmo un carlino, o c’è levato o ce lo mangiammo. Al che disse esso Pasquale, sti luoghi s’hanno da governà ? Rispose don Sabino, s’abbandoneranno. A questo di nuovo esso Gaetano d’Amore disse in secreto ad esso Pasquale: lo volimmo n’auto poco pirolià ? Rispose esso Pasquale, piroliamolo. Allora ripigliò il discorso esso Gaetano dicendo, don Sabino gran cose hai da sentì. Al che rispose alterato don Sabino. Ah, cazzo per bui, se volite fatigà, e vui fatgate, e se no andate a farvi fottere. A quessto ripiglioò esso Gaetano: don Sabino, che sia pare po venì lo Re. A ciò rispose don Sabino: pregammo Iddio che ce lo manda ampressa ca se no, simmo ruinati. E questo fu il discorso, e non altro dissero essi costituti al detto scrivano che fece don Sabino con noi. Quale deposizione, come separatamente si era uniformemente fatta da ogni costituiti così dal detto scrivano furono trattati villanamente, e minacciati di farli morire in carcere, se non dicevano la verità, come aveva detto il loro contesto; dicendoli c’erano andati cola lezione fatta. Al che risposero essi costituiti allo scrivano, che se doveano pigliare il giuramento, la verità era quella che aveano detto ad onta di qualunque minaccia; se erano esenti dal giuramento diceano come esso volea. In seguito di che, furono essi costituti novamente maltrattati, in parole dal detto scrivano, e posti in arresto, dove furono detenuti per sedici giorni continui, con continui trapazzi, facendoli dormire a nuda terra, facendoli togliere anche il mangiare, che li veniva dalle loro case. Venendo loro fatte in tempo dell’arresto delle continue parti, ora di minacce di portarli in Montefusco da don Mariano Cappuccio, ora di lusinghe dal cameriere dell’Uditore, purché avessero detto come pretendea lo scrivano, specialmente quando dopo due giorni di arresto fu liberato il magn. Michele Scarano di Francesco Maria in presenza di essi costituti , che egli non avea voluto più patire, per cause degli altri. Insinuando allora ad essi costituti detto cameriere di fare, come avea fatto lo Scarano, e così sarebbero finiti li loro guai. Al che, com’essi costituti non vollero mai fare per rimorso di loro coscienze, furono seguitati a tenere in penoso arresto, fino a che vedendosi dallo scrivano la loro fermezza per la verità, scrisse la loro deposizione come egli disse (giacché essi costituti non sanno leggere, né scrivere) nel modo si era da loro rapportato il fatto, come di sopra si è detto, e per tale ancora ne presero formalmente il giuramento, e così furono messi in libertà.

30. 1800, aprile 16. Solofra. (ASA, B 77029, ff. 39r-41v). Dichiarazione sulla partecipazione dei monaci di S. Agostino alla Repubblica Napoletana.

[...] Costantino, Domenico, Nicola Vincenzo Guarino, Liberio Grassi, Nicola Verità, Giuseppe di Vita, naturali di questo Stato di Solofra[...] qualmente sanno benissimo si per averlo inteso dire come pure per essere ciascuno di essi testimoni di veduta che i RR. PP. Maestro Tommaso Cristatori e Baccellieri P. Agostino Carrano e P. Gio Francesco Ronca monaci agostiniani di questo suddetto Stato o sia Convento in tempo dell’abbattuta sedicente Repubblica, fecero un attestato a favore del fisico Antonio Garzilli di questo Stato col quale dimostrarono che il detto Garzilli erra un Patriotta sin da sette anni addietro e ciò da essi costava in causa di scienza per essere anche egli Patriotti. Intanto vero che sin dal principio c’entrarono l’infami armi Francesi i suddetti RR. PP. Dimostrarono il di loro attaccamento all Repubblica con somministrare, letti, armi, danaro, famosi cibi ed esquisiti vini a Patriotti di questo tempo, che rifugiati si errano nel Palazzo Ducale di S. Ecc. il Sig. Duca di Gravina che coll’armi alle mani si errano di detto Palazzo impadroniti e i RR. PP. Di continuo andavano a fare dell’offerte e cerimonie nel detto Palazzo a predetti Patriotti ; come pure sanno benissimo che in tempo si portò in questo Stato, un comandante di nome Eleuterio Ruggiero colla sua Truppa francese, non solo l’accolsero nel di loro monastero ma benanche quel tempo si trattennero in questo Stato li contribuirono laute mense e scelti divertimenti anche di donne di cattivo valore e vizi che profanar fecero quei sacri chiostri, per cui dalle proprie bocche, sì del detto Comandante Ruggiero che dei suoi capitani, altro non si sentiva se non che le seguenti parole questi sono bravi Patriotti e veri Repubblicani che per contrassegno del loro distentivo, nel parti che fece il detto Ruggiero, gli lasciò tre fucili di munizione del disperso esercito, ch’usurpati avevano in questa Provincia e specialmente in questo medesimo Stato, animandoli a combattere per la Repubblica ; come infatti essi attestano che, per quanto la Repubblica regnò essi RR. PP. Dimostrarono un fiero attaccamento verso la medesima e specialmente il detto P. Carrano, il quale andava dicendo, per le strade per le Piazze e per le case in dove esso continuava trattare che voleva ammogliarsi e voleva non una moglie ma due [...]. Presenti il Giudice a contratti Pasquale Petrone e i testimoni Michele Garzillo, Matteo Vigilante e Matteo Ruocco.

31. 1800, aprile, 27. (ASA, B7029, f. 17r). Attestato sull’attacco alla casa dei fratelli Carmine e Nicola Caraviello.

[...]Giovanni Fasano, Raffaele Giannattasio, Vito Savarisi, Sabatantonio Troisi, Giuseppe Russo fu Antonio, Sigismondo Famiglietti, Antonio Russo fu Gabriele, Antonio D’Urso fu Luca, Biagio Famiglietti, Giuseppe Vigilante, Carmine Gallo, Carminantonio Mastrantuoni, Nicola D’Ambrogio tutti abitanti e convicini del casale dei Balsami e propriamente del Cortile detto li Campi di questo Stato di Solofra [...] dichiarano che nella mattina dell’11 del prossimo caduto mese di novembre 1799 verso le nove in dieci di questo mattino essi testatori intesero un gran rumore e voci all’Armi e fra queste voci intesero vari colpi di fucili o siano scoppettate e varie voci interrotte che cercavano aiuto ed essi testificanti mossi da curiosità non meno che da timore si affacciarono dalle rispettive loro case e finestre e viddero le case dei fratelli Carmine e Nicola Caraviello il primo Capitano e il secondo Tenente della Truppa Cristiana a Massa, di loro vicini e conoscenti che se ne andava in fiamme e fuoco e viddero pur anco la suddetta casa circondata d’aggente Armate che minacciavano rovina a quelli che vi abitavano ; come infatti si viddero che in una di dette Stanze vi erano rinchiuse la madre, sorelle e moglie di tutti i fratelli Caraviello e che detta aggente armata voleva che in detta casa fossero perite e bruggiate vive dette donne e se non era per in benigno soldato che le fece calare con la scala di legno per la finestra di detta stanza sarebbero senza dubbio rimaste vittime di queste fiamme ; ma fattosi quasi giorno si vidde dai medesimi per la scalinata di detta casa un cadavere di fresco morto anche Armato, che poi a giudizio non solo di essi testificanti ma enziadio per averlo i medesimi inteso comunemente dire che il suddetto cadavere era stato ammazzato dai propri compagni a causa che il colpo dal medesimo ricevuto era dalla parte di dietro e per conseguenza da detti suoi compagni fu barbaramente ammazzato perché ricevè un tal colpo al salire che il medesimo volle fare per detta scalinata, come pure si vidde parte di detta Truppa salire per la cennata scalinata coll’intromettersi nelle stanze superiori di detta casa fingendo d’andar cercando detti fratelli Carmine e Nicola, i quali con i favori del fuoco e del fumo per sopra i tetti di detta loro casa se n’erano fuggiti all’ingnuda, per cui detta gente armata profittando del tempo si presero e saccheggiarono quanto in detta casa vi stava d’armi, biancheria, vestimenti, oro, argento lavorato d’orefici, ed ogni altro che li riuscì pigliare, e se ne andiedero lasciando la suddetta casa nelle fiamme e alla descrizione del fuoco, motivo per cui tanto il suddetto Mastrantuoni, che il suddetto d’Ambrosio mossi da pietà s’accinsero a smorzarlo che se non accorrevano a tempo sarebero le suddette cose rimaste incenerite, e rovinate [...].

32. 1800, maggio 16. Solofra. (ASA, B 6968, ff. 371v-372r). Dichiarazione sull’impianto dell’albero della libertà a Solofra.

Dinanzi al notaio Vito Antonio Grassi a testimoni e al giudice a contratti dell’Università di Solofra i naturali Raffaele Garzilli e Domenico Scarano attestano con giuramento [..] che quanto si piantò la prima volta l’infame albore della sedicente Repubblica abbattuta nella pubblica Piazza di questo suddetto Stato che fu appunto verso il giorno 26 del mese di gennaio del passato anno 1799, tra la gente assistente alla piantagione del detto infame albore non vi era il Sig. Vincenzo Pirolo di questo medesimo Stato e ciò lo sanno cioè: esso detto Raffaello per essersi rattrovato avanti al forno della pubblica panificazione nel mentre passava la gente armata che portava detto infame arbore, e non vi era detto Vincenzo ed il cennato Domenico per essersi rattrovato nella Bottega del commestibile della detta pubblica Piazza, e vidde anche passare gente armata coll’infame arbore, e questo piantare e fra detta gente, non vi era il medesimo detto Vincenzo Pirolo. [...].

33. 1800, luglio 27. S. Agata di Serino. (ASA, B7029, ff. 68v-69v). Testimonianza sull’autonomia di S. Agata divenuta Università a sé.

[...] Il fisico Nicola De Maio, Gaetano Vigilante, Nicola D’Arienzo, Rocco De Maio, Nicola Guarino, Michele De Maio, Felice Antonio De Maio, Antonio Caiafa, Giovanni Guarino, Carminatonio Spinelli, Carmine Filippo De Maio fu Domenico, Soccorso De Maio, Carmine Filippo De Maio fu Giuseppe, Giovanni Antonio De Maio di Gasparro, Vincenzo Guarino, Andrea Giaquinto, Giuseppe D’Arienzo fu Nicola, Donato Caiafa, Giuseppe D’Arienzo, Pietro Angelo e Filippo De Maio di Marino, notaio di S. Agata, dinanzi al notaio Giovanni Maria Garzilli di Solofra e a testimoni dichiarano che "questo suddetto Stato di S. Agata sin dall’anno 1798 si divise dall’Università generale di Serino facendo Università a parte e separata, componente il Sindaco con due compagni Eletti ; come pure attestano che in questo suddetto casale , non vi sono stati emanati banni per parte dell’Affissione delle Reali Licenze di Caccia del predetto Stato Generale di Serino, né il medesimo affittatore ha dispensato dette licenze da Caccia a naturali di detto casale ; ma solo essi testificanti sanno benissimo, che in questo suddetto Casale vi è affittatore a parte di dette Reali Licenze e lo stesso subito che ricevè la Real Patentiglia ed impiego fece emanare i banni e dispensò dette Reali Licenze, come giornalmente si fa. [...].

34. 1800, settembre 8. Solofra. (ASA, B 7015, f. 33v). Dichiarazione a discolpa del negoziante Francesco Guarino.

In nostra presenza si sono presentati i testimoni Fabrizio e Filippo Guarino, padre e figlio, i magnifici Pompeo Garzilli e Bartolomeo Graziano i quali si ricordano benissimo come il magnifico Francesco Guarino del quondam Alessio nonostante che sia negoziante di questo Stato da circa anni sei non è uscito mai da questo tenimento e specialmente per i paesi di basso che sono lo Stato di Montoro quello di San Severino e altri convicini eccetto che nel mercato di Atripalda settimanalmente per la compra di pelli ed altro che da lui si negozia anzi con ispecialità si raccordano che nel mese di gennaio 1799 detto Francesco Guarino di unità col quondam di lui fratello Giuseppe non sono usciti affatto da Solofra né mai si portarono in detti Stati a far negozi o contratto alcuno. [...] Presenti Giuseppe di Donato, giudice a contratti, e Vincenzo de Santis, Filippo Guarino e Nicola Pepe, testimoni di Solofra.

35. 1800, settembre 24. (ASA, B6967, f588r). Dichiarazione sulla municipalità di S. Agata di Serino.

[...] Dinanzi al notaio Vito Antonio Grassi a testimoni e al giudice a contratti alcuni del casale di S. Agata di Serino Donato De Maio fu Crescenzo, Felice Antonio De Maio di Gaspare, Carmine Filippo De Maio fu Giuseppe, Carmine Filippo De Maio fu Domenico, Filippo di Basilio De Maio, Giovanni di Vincenzo Guarino, dichiarano che nell’anno 1799 in tempo della sedicente abbattuta repubblica il sig. don Antoniomaria D’Arienzo di questo medesimo casale mentre era sindaco fu eletto per uno dei municipalisti di questo predetto casale dalli complateari del medesimo e per più tempo esercitò detta carca di unità cogli altri municipalisti in questo suddetto casale e ciò costa ad essi testatori per essersi rittrovati presenti" nella detta elezione.[...].

36. 1800, novembre 10. L’Università di Solofra per poter pagare i debiti contratti in seguito alle circostanze rivoluzionarie aveva contratto, in seguito a delibera del Parlamento, alcuni debiti forzosi con benestanti locali per un ammontare di ducati 3400 e ne aveva rilasciati regolari fedi di credito. Poiché però le fedi di credito furono abolite l’Università è costretta a soddisfare i creditori dai propri introiti annuali "restringendo al massimo le spese". Con il maggiore creditore, Massimiliano Murena, si stipula un credito strumentale con l’interesse scalare del 5%.

[...] Gennaro Pandolfelli, sindaco, Michele Garzilli, Antonio Guarino, Tommaso Guarino, Sabato Scarano, Eletti di questa Università dichiarano che "rattrovandosi la prefata Università attente le passate circostanze rivoluzionarie in molto sbilancio, ed attrasso di pagamenti così a creditori Fiscalari, che Istromentari furono perciò nella necessità delli signori non solamente di convocar pubblico Parlamento, col quale si propose doversi le somme mancanti prendersi a mutuo da persone benestanti, per così appianarsi il vuoto di detta Università, e soddisfarsi i creditori. Qual parlamento approvandosi da Decurioni intervenuti in numero opportuno si diede da essi loro con voti segreti riusciti nomine discrepante la piena facoltà a detti signori Amministratori interini di poter contrarre con chicchesia un debito corrispondente alle somme che si doveano o a mutuo od altra natura in nome di detta Università per potersi pagare i detti creditori attrassati per indi poi toglierselo il detto debito l’Università medesima mano a mano colle somme che avanzerebbero dalle rendite annuale che ella possiede; siccome il tutto da detto Parlamento si rileva; copia del quale qui si conserva; anzi gli anzidetti signori Amministratori per maggiore loro diluzione e cautela n’ebbero ricorso per tal causa al signor Visitatore Economico per S. M. D. in questa Provincia di Principato Ulteriore don Stefano Caporeale per ricevere dallo stesso qualche giusto sentimento ed oracolo su di un tal debito contraendo; che fattosi carico delle circostanze suddette; per le quali la detta Università si rattrattava in attrasso ordinò in seguito un imprestito forzoso di tremila, e quattrocento di contanti effettivi da sborzarsi dall’infradette persone, cioè dal detto don Mariano Murena, ducati 1850, dalli signori Giuseppe Vigilante, don Luigi Giannattasio e don Antonio Garzilli quondam Massenzio ducati 1100 dal signor don Giuseppe di Tura ducati 350, e da don Alessio Giliberti ducati 100 tutti uniti formano la somma di ducati 3400 ne ordinò l’esecuzione a questa pubblica Corte che sotto pena di carcerazione in forza d’obbligo da essi formato avesse astrette le suddette persone che fra il massimo di giorni 15 avessero sborsate le suddette rispettive loro somme e passarle in mano del detto signor Sindaco interino don Gennaro Pandolfelli per convertirle in fedi di credito, mediante l’ostaggio corrente in qual tempo, e così ritrovarsi il d’attrasso; siccome in effetti dal detto signor Pandolfelli ricevuto che si ebbe il denaro ordinato ne formò a beneficio delle persone i corrispondenti ricivi per loro cautele, e le convertì in fedi di credito, come sopra; e da lo principio ai pagamenti e creditori; quando fu verso il mese di maggio corrente anno si vidale emanare reale editto, col quale veniva ordinato l’abolizione delle fedi di credito, non avendo le medesime più vigore in commercio, per cui restarono in potere di detto signor Sindaco inpagate ed oziosi circa ducati 1500 di fedi, quali giuste il prescritto nel Real Dispaccio le convenne impiegare sulla decima annuale, che paga questa stessa Università; a qual oggetto non potè terminarsi l’intiera soddisfazione, e saldo a detti creditori per detto loro imprestito fatto; similmente il suddetto signor Visitatore fece ordini a predetti Amministratori, che detto danaro sborsato dalle suddette persone per l’anzidetta ragione d’imprestito forzoso l’avessero dovuto a medesimi soddisfare, e pagare mano a mano dall’introito e rendita che la detta Università introitar dovea in questo anno restringendo al più che potevano le spese, ed i pesi, e se non si avessero potuto interamente in quest’anno soddisfare di somma del rimanente che restavano a conseguire se li fusseleno rapinato , e restituito nell’annata ventura. Siccome infatti in eseguimento di tali ordini da predetti signori Amministratori verso il mese di aprile fattosi un conto tra loro di qualche si potevano disporre, e pagare a conto del detto debito ed imprestito distribuirono varie somme e detti crediti, giusta la qualità dei loro crediti, e al detto signor don Mariano qual creditore di maggiore somma ne ricevè per mezzo degli Affittatori della gabella della farina, e moline ducati 775 gr. 25; sicchè restò a conseguirsi d. 1174.35; da’ quali toltane d. 6.82.10 che la detta Università deve tenere per suo conto all’esattore della decima per il 3° della decima di sua casa materna in agosto 1800, restò dunque il detto sig. don Mariano a conseguire per completamento di detto suo imprestito d. 1167.92.2. Quali non potendosi da essi Amministratori affatto soddisfare in quest’annata di loro amministrazione, perché nel conto che hanno calcolato dell’introito ed esso si è veduto non avanzare danaro; han fatto sentire al detto sig. Mariano che per detto suo credito, o sia complimento di esso, o che si fosse contentato di aspettare la fine della cominciata amministrazione per vedere se in quella vi fusse superato danaro per poter quello pagarsi a lui e agli altri suddetti creditori; toltane i pesi fiscali e forzosi, o pure non volendo aspettare sino a detto tempo l’avrebbero fatta l’esibizione, attenta la facoltà loro conceduta nel citato Parlamento di costituirsi in nome della suddetta Università debitori a pro di detto sig. don Mariano ed formare a di lui beneficio un credito istromentario di detta somma dovutali, mediante l’annualità, ed interesse corrispondente del 5%; siccome la medesima Università ha pratticato per l’andato, e pratica attualmente cogl’altri suoi creditori istrumentari; obbligando tutti i beni rendite ed effetti che possiede; col patto però a favore della medesima di ricomprare quandocumque, e in tutto, o in parte, senza darsi prese rispettive di tempo alle quali proposte applicandosi essi sig. don Mariano alla seconda, e contentandosi per detto suo credito di costituirsi creditore istrumentario della medesima Università, ne sono perciò stati richiesti detti Amministratori interini di venire alla stipola del dovuto istrumento, per poterci in seguela della Regia Camera della Sommaria su tal debito contratto attenersi il necessario assenso, ed approvazione, siccome i cennati amministratori nel nome come sopra non potendo ripugnare perché da essi loro progettate, e giudicandola pur troppo giusta si sono dimostrati pronti stipularne in suo favore le debite cautele ad formam iuris [...] Fatta la suddetta assertiva volendo dette signore parti [...] mandare in effetti le cose suddette, e restarle con pubblico e solenne istrumento come si conviene ch’oggi predetto giorno detti sig. Sindaco ed Eletti interini di questa Università [...] si dichiarano e costituiscono veri e liquidi debitori del suddetto sig. Mariano presente nella sopraddetta somma di d. 1777 gr. 22.2 quelli stessi a lui dovuti [...] corrispondere essi sig. Amministratori nel nome del suddetto interesse o sia annualità alla ragione del 5% che importano ogn’anno d. 58.39; verum conforme dall’Università si pagherà capitale; così devesi scalare l’interesse e così seguitarsi fino all’ultima estinsione di detto capitale [...]. E per maggior cautela i suddetti sig. Amministratori [...] hanno obbligato tutte le rendite e beni della cennata Università [...]. Presenti il giudice a contratti Francesco Saverio Garzillo, testimoni il reverendo Giuseppe Guarino, Pasquale Murena e Donato Giannattasio.

Postille a lato del protocollo notarile di avvenuta estinzione del debito. "Si nota che mediante istrumento stipulato avanti al notaio Saverio Giliberti fu Antonio de 14 luglio 1824 e registrato in Solofra il 9 del detto mese dell’introscritto credito di d. 1167 e gr 92 e 2 ne sono stati dal Comune di Solofra pagati all’introscritto Mariano Murena d. 545 a conto". Firmato Saverio Giliberti. (f. 91v). "Si nota come con patto istrumentario di quietanza per noi ricevuto il 7 giugno 1825 pagamento g. 80 a saldo capitale dall’attuale Sindaco Bartolomeo Grimaldi a nome dell’intera Università pagati a Mariano Murena che ha rilasciato quietanza tanto al Sindaco che all’Università". Firmato Saverio Giliberti. (f. 91v).

37. 1801, agosto. Serino, casale di S. Giacomo. (ASA, B 6352, f. 52). Attestato a favore di Vito Antonio Buongiorno di Solofra in cui si afferma che a Serino "la prima insorgenza avvenne il 25 aprile del 1799 sotto il comando del Colonello Costantino de Filippi". In questa occasione "ha sollevato il popolo Vito Antonio Buongiorno, ed ha animato la popolazione scorrendo da un luogo ad un altro, giunsero ad Atripalda poi a Candida e Montefalcione dove tagliarono l’albero poi andarono ad Avellino".

38. 1801, agosto, 8. Serino casale Sala. (ASA, B6352, f. 53). Dichiarazione a favore di alcuni realisti di Solofra.

[...] Antonio di Zenzo, Gaetano Carrafiello, Girolamo De Maio di questa terra [...] affermano che il Galluccio si spostò il sedici maggio del 1799 in questo Stato in unione di due compagni colle nocche regaliste al cappello a tagliare l’infame albero della libertà della voluta sedicente Republica, che stava piantato nel casale di S. Lucia di questo suddetto Stato, con avere anche arrestato Tommaso di Piano, e cinque compagni, che colà stavano di guardia civica, e li portò seco al corpo dell’armata cristiana, che stava accampata nel luogo detto Turci, e li presentò a D. Pasquale Ronca, comandante di detta armata cristiana, con evidente rischio della sua vita. Il quale detto Pasquale si tenne arrestati o suddetti della guardia civica, avendo ricolmato di lodi il detto Galluccio per tal sua operazione a favore del re nostro Signore (D. G.). [...]. Sono presenti il giudice a contratti "Mag.co Stefano Marranzina, i testimoni D. Giovanni Leonelli, D. Ciriaco Antonio de Filippis ac Nunziante Ginolfi" [...].

 

Atto stipulato sotto la Repubblica Napoletana. Libertà. Eguaglianza. 24 aprile 1799. Solofra, anno primo della Repubblica Napoletana.

Nella nostra presenza si costituì il cittadino Michele Rubino di questo Stato di Solofra [...] Ed il cittadino Rev. Carmine Antonio Guarino sacerdote secolare [...]. Il suddetto cittadino Michele spontaneamente in presenza nostra asserisce avere, tenere e legittimamente possedere come vero padrone una metà di masseria vitata arborata e fruttifera in forma ereditaria del fu Gennaro Rubino di lui padre e divisa dall’altra metà spettante al cittadino Gio Santo suo nipote sita in questo Stato di Solofra casale Volpi nel luogo detto muro bianco [...]. E perché al detto cittadino Michele bisogna qualche pare di danaro per avvalersene nelle sue presenti urgenze e necessità e bisogni. Perciò ha pregato detto cittadino Rev. Carmine Antonio a volersi comprare una porzione di detta metà massaria non ostante che la medesima massaria stava soggetta a fedecommesso istituito dal quondam Gennaro Rubino. Al presente di già si è abolito dalle leggi emanate dalla Repubblica Napoletana, per cui è rimasta ogn’uno assoluto Padrone di sua roba, e colla libertà di venderla, e donarla a suo piacere, alle quali richieste e preghiere esso Rev. Carmine Antonio per farli piacere e cosa grata e attenta di abolizione di fede [...] commesso, si è esibito pronto alla detta compera applicare e conchiudere il contratto [...].

(ASA, B 7015 tra i ff. 125 e 126).

 

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