STORIA DI S. AGATA
Casale di Serino poi insediamento autonomo,
quindi frazione di Solofra.
.
S. Agata è posta
sulle prime falde e ai piedi dei monti Pergola e S. Marco tra i territori di
Solofra (a sud e ad est), di Serino (a nord) e di Montoro (ad ovest). Si formò nel periodo
sannita intorno a Castelluccia che fu per
quei pastori, che provenivano dalla valle Sabato, un importante punto di
riferimento, perché da esso si controllava la strada
che questi percorrevano per raggiungere la pianura dove andavano con le
greggi d’inverno. I Sanniti si stanziarono nella conca solofrana tra la
collina di starza, dove seppellirono i loro
morti, il toro, dove ci fu un insediamento e Castelluccia,
mentre usarono il greto del fiume come via per i loro spostamenti. Per questo
motivo il fiume si chiamò nella zona di S. Agata rivus
siccus, indicando la importante
funzione di via che il corso d’acqua creava con i suoi straripamenti (tratturo
transumantico fluviale). In questo periodo tutta
la conca era già chiamata Solofra (un nome di origine sannita) mentre
l’insediamento ebbe come punto di riferimento Abellinum
(l’odierna Atripalda). Quando i Romani sottomisero questo popolo occuparono anche la
conca solofrana dove trasferirono i loro soldati. Essi trasformarono il
tratturo sannita in via rotabile lungo la quale
costruirono le taverne e le loro masserie (villae),
come quella di tofola. L’insediamento romano
avvenne soprattutto nella zona pianeggiante di S. Agata,
appunto lungo la via che, attraversando tutta la pianura di Montoro, giungeva
a Rota (poi S. Severino). Questa strada fu di grande importanza perché su di essa si svolgeva il traffico tra Salerno e Abellinum e fu chiamata via antica qui badit a Sancta Aghate. Lungo di essa si
formarono i toponimi sferracavallo (si riferisce
allo sforzo per salire sul passo), campo castello (si riferisce alla
rocca di Castelluccia), fornaci (si
riferisce all’abitudine dei romani di impiantare forni per la cottura dei
mattoni accanto ai loro insediamenti), taverna dei pioppi (indica l’esistenza
di questi posti di ristoro per i mercanti). L’insediamento
romano ai piedi di Castelluccia fu legato a quello
di Montoro dove c’era il confine della colonia e dove fu trovata l’iscrizione
col suo nome: Veneria (in onore di Venere), Livia (dal nome
della moglie di Augusto che aveva ampliato
l’insediamento), Alexandriana (ricorda
l’ultimo insediamento di soldati orientali dell’imperatore Alessandro
Severo). Durante questo periodo fu introdotto nella zona il culto al sole,
che ancora oggi si ricorda nello stemma di Solofra e alla luna nella località
lunara di Montoro e poi col Cristianesimo
quello di S. Agata, che dette il nome a tutta la
zona fino alla riva destra del fiume. Quando cadde
l’Impero romano (476) la colonia fu distrutta dagli Eruli,
i quali combattettero nella pianura del Sarno una lunga e feroce guerra contro i Bizantini
(535-555), durante la quale gli abitanti lasciarono le zone pianeggianti e si
rifugiarono sulle falde dei monti in zone alte e più difese,
mentre Abellinum fu completamente
abbandonata. La conca solofrana, per i suoi naturali elementi difensivi, non
perdette l’insediamento anzi se ne formarono due Le Cortine e Cortina
del cerro. Le cortine furono infatti
insediamenti altomedioevali, le cui case avevano la
stessa tipologia delle villae romane della
pianura che erano state abbandonate e cioè un cortile centrale su cui si
affacciavano gli ambienti abitati e al quale si accedeva da un’unica entrata,
che poteva essere facilmente chiusa e isolata trasformando la cortina in un
luogo difeso. In più si trovavano in zone alte con vie di accesso
strette e protette dalle postazioni di Castelluccia
e di Chiancarola. Inoltre il tratto iniziale
della pianura di Montoro, la chiusa, fu invaso dalle acque straripate
creando una zona paludosa che fu un’ulteriore difesa
per gli abitanti della conca contro il pericolo che giungeva dalla pianura. La vita nella conca
solofrana dunque continuò in questi arroccamenti e non si estinse come avvenne
in molti altri territori romani in seguito alla invasioni.
Quando finì il pericolo barbarico da Salerno giunsero
i monaci bizantini per portare conforto religioso alle popolazioni e si
stabilirono sulle colline di Montoro in località laura
(le laure erano le celle dei monaci) dove
impiantarono il culto a S. Michele nella vicina grotta (il culto micaelo nella forma ingrottata
è di origine bizantina). Essi diffusero anche il culto di S. Maria del
quindici agosto che si impiantò a Solofra e a S.
Agata su Castelluccia. Quando i Longobardi
vennero in Italia formarono nella zona il Ducato di Benevento che giungeva
fino alla conca solofrana e usarono Castelluccia
come luogo di difesa sulla strada, come fece Arechi
I di Benevento quando occupò Salerno. Questo duca
inoltre rinforzò tutte le zone attraversate della strada potenziando il
castello di Rota (S. Severino) e costruendo i
castelli di Forino, di Montoro e della Toppola di
Serino che dominava la valle del Sabato. In questo momento acquistò
importanza militare il complesso montuoso del Pergola-S.
Marco perché permetteva il controllo delle comunicazioni che avvenivano tra
il bacino del Sabato e quello dell’Irno. Esso fu
ulteriormente rinforzato quando ci fu la divisione
del grande Ducato di Benevento (858) in due territori (Principato di Salerno
e Principato di Benevento) perché il loro confine passò sui monti di Forino-Montoro. In questo momento fu costruita una
fortificazione sul lato meridionale del Pergola (il
futuro castello di Solofra) che appartenne al castello di Serino, a cui era
unito da due strade che giravano intorno ai due monti, una passando per Castelluccia e l’altra per Turci. S. Agata nel
periodo longobardo fece parte del gastaldato di Rota
(rotense finibus)
che giungeva fino a Serino (usque serrina de ripileia cioè fino alla roccia serrina)
sul complesso del Pergola-San Marco e appartenne a Montoro (nei documenti
longobardi la località detta valle de la mela, cioè il Melito
era in loco montoro). Essa era un locum,
cioè un’aggregazione abitativa non autonoma ed aveva
nella zona pianeggiante, tra Torchiati e Solofra, due ampi territori che
occupavano quasi tutta la parte pianeggiante e cioè il galdo
e la selba. Il galdo
apparteneva alla famiglia dei principi di Salerno, il che dice il valore del
territorio, la selba apparteneva alla chiesa
di S. Massimo di Salerno, che era di proprietà di questi principi, i quali
anche attraverso di essa controllavano questo
territorio di grande importanza proprio perché vi passava la via antica. La
selba era divisa in due, selva
grande e selva piccola, giungeva fino alle cortine e fu
affidata al colono Roregrimo, figlio di Maraldo. Su Castelluccia c’era
un fondo detto subtus ipsa
gripta con pertinenze di proprietà di un prete,
Citro, figlio di Falcone, tenuto dal fratello Falcone. I prodotti dei due insediamenti della conca -
Solofra e S. Agata - sia quelli dei campi sia quelli dell’artigianato
(lavorazione del legno e del ferro) che quelli dell’allevamento (lana, carne
salata, pelli) erano portati al grande mercato di
Salerno dove si trasferirono anche diverse persone per tenervi le botteghe. Quando giunsero i Normanni
nell’Italia meridionale (seconda metà dell’XI
secolo) il Principato di Salerno fu occupato pacificamente da Roberto il
Guiscardo il quale dette il gastaldato di Rota ad
un suo guerriero, Troisio, che si chiamò di Rota e
introdusse il culto a S. Severino, dando inizio alla famiglia normanna dei Sanseverino. Troisio però,
prima di divenire un pacifico conte normanno, devastò le terre del gastaldato tentando di occupare quelle appartenenti alla
chiesa di Salerno, quindi anche la zona pianeggiante di S. Agata tanto che la
via di Castelluccia non potette più essere usata (incongua ad andandum).
Da questo momento prese forza la via di Turci. Troisio divise la contea in due parti dando il territorio di
Montoro - con S. Agata, Solofra e Serino - al figlio Ruggiero I di Sanseverino. Questo territorio poi passò al figlio di quest’ultimo, Roberto I Sanseverino,
il quale morì presto lasciando un figlio piccolo, Roberto II, per cui il territorio (Montoro-Solofra-S.
Agata-Serino) fu governato dalla madre Sarracena.
Durante questo periodo il feudo si ingrandì dalla
parte di Serino ad opera di Sarracena e quando
Roberto II divenne feudatario (1164) assorbì altri territori tra cui Tricarico e formò il ramo dei Sanseverino-Tricarico. Roberto II prima di
morire (1183) divise il feudo in due parti, una di queste ebbe come centro Serino con S. Agata e Solofra (non Montoro) e fu
assegnata al figlio Ruggiero II che dette inizio al ramo Sanseverino-Tricarico.
Con questo feudatario alla fine del XII secolo si definì il feudo di Serino
dominato dal complesso Pergola-S. Marco intorno al
quale da una parte c’era la conca di Solofra (a sud) e dell’altra la pianura
del Sabato (a nord). Esso fu unito anche dal punto di vista religioso, infatti Serino divenne il centro di un Archipresbiterato
dipendente da Salerno. Nel periodo
normanno si ampliò la consistenza abitativa di S. Agata che fu chiamata vico,
il che significa che costituiva un’identità comunitaria distinta, ma non
autonoma perché casale di Serino. Qui abitava Guiso
di Lando che fu un vice-comes del
castello di Serino che governava in nome del feudatario. C’erano varie
cortine, ampi fondi, con case e pertinenze: Il vico di
S. Agata era dunque un insediamento articolato ed intensivo con le
caratteristiche masserie a cortine di proprietà di liberi possessori, la
coltura specifica e diffusa era il vigneto (come spiega l’impianto dei
toponimi vignoli e vigne) che forniva un prodotto pregiato, a cui si affiancava quello
dell’olio. C’erano attività artigianali a conduzione familiare tra cui una
che diventò una caratteristica del luogo, l’arte della lavorazione del ferro,
svolta anche in altri casali di Serino (Ferrari).
Tra questi fabbri c’era Salerno con i figli, Malfredo
con i figli e Graffio. Il vico era
collegato con Turci da una strada, detta salmentaria,
che passava dinanzi al castello giungendovi dal lato ovest della collina.
Forte era il legame tra l’insediamento di S. Agata e quello di Montoro, specie
per i luoghi intorno alla via, per uno stretto rapporto di scambi di fondi e
di persone e per il fatto che erano abitati da ampie e ricche famiglie di
coloni e di proprietari. È il caso di Urso de Inca, un proprietario locale, figlio di Falcone i cui beni
si estendevano sul crinale da Banzano a S. Agata,
scendevano nella zona pianeggiante e comprendevano diverse cortine. Di questa
famiglia, da cui si formò il cognome D’Urso e che si
qualifica come una delle più cospicue, si riesce a seguire lo sviluppo per
tutto il XII secolo. Essa formava un nucleo sostanzioso del casale di cui un
ramo si trasferì a Solofra nella zona del Sorbo. Anche
le famiglie Vallense e Maginolfo
avevano possedimenti tra S. Agata e Solofra. Altro proprietario, i cui beni
si trovano tra Banzano e S. Agata, è Alamanno, che dette il nome al suo fondo. Molti proprietari erano
chiamati col nome di Maio e Maione, da cui si formò
un altro cognome diffuso ed originario della zona, De Maio, che è un
patronimico di origine locale. Va sottolineato il fatto che il feudatario di Serino ebbe a
S. Agata possedimenti diretti, come avevano fatto i principi longobardi di
Salerno, cosa che indica la fertilità del territorio e le sue prospettive
economiche. La vitalità di
questo territorio è dimostrata dal fatto che nel Con Ruggiero II di Serino-Tricarico nella conca avvenne il distacco del
casale di Solofra dal feudo di Serino, dato al
figlio Giordano e alla morte di costui alla nipote Giordana come dote per il
matrimonio con Alduino Filangieri. S. Agata invece continuò a rimanere nel
feudo di Serino, essa però fu favorita da Federico
II di Svevia che protesse con prerogative la lavorazione del ferro. Negli
anni di crisi dopo la morte dell’imperatore svevo
(1251) la parte pianeggiante della conca, tra Solofra, Montoro e S. Agata,
accolse molte persone provenienti dal Cilento, immigrazione che continuò e fu
sostenuta anche da Carlo I d’Angiò (1266) e che
determinò la formazione del toponimo le celentane che per molto tempo
indicò un vasto territorio fin sotto il monte S. Marco. In questo periodo e in questa zona si insediarono
sia la famiglia Fasano, a cui Carlo d’Angiò dette
l’incartamento su di una terra al galdo
(arco-torre), sia la famiglia Guarino, proveniente dalle zone interne tra l’Irpinia e Con gli Angioini (1266-1432)
il feudo di Serino perdette una parte dei territori che aveva nella conca di
Solofra e che fece ridurre il casale di S. Agata. Infatti
il feudatario Nicola Tricarico durante la guerra
fatta dagli Angioini per impossessarsi dell’Italia meridionale parteggiò
contro i francesi per cui perdette il feudo e il territorio di S. Agata
entrò, insieme a quello di Serino, nei possessi della corona. In questo
frangente una parte dal casale di S. Agata, quella alta
con la collina del castello, passò a Solofra, concessa da Carlo I al marito
di Giordana, Alduino, che era suo fedele. Da questo momento nacquero le due
zone di S. Agata di Sopra o di Solofra (la futura S. Andrea) e di S.
Agata di Sotto o di Serino. Alla fine del XII
secolo il grande Giustizierato di Principato e
terra beneventana, che era una delle province in
cui Federico II aveva diviso l’Italia meridionale, fu diviso
in due parti. Si ebbero così due Principati, uno
detto a serra Montorii citra
Salernum (Principato citra)
e l’altro a serra Montorii ultra Salernum (Principato ultra). S. Agata con Serino fece
parte di quest’ultimo e si
trovò ancora una volta in un territorio di confine. All’inizio del XIV secolo (1309) la dicesi di Salerno indisse una
indagine sulle chiese esistenti dei suoi territori, dalla quale si viene a
sapere che la chiesa di S. Agata era di una buona consistenza (un valore di Bisogna tenere
presente che il casale, pur facendo parte dell’Universitas
di Serino, ebbe stretti rapporti con Solofra
considerandosi un tutt’uno col restante territorio
della conca, persino i confini tra i due casali omonimi e con Solofra non
saranno mai ben definiti e ciò fu un danno per S. Agata, perché il suo
territorio subì una forte restrizione ad opera di Solofra che assorbì gran
parte della zona pianeggiante proprio perché all’atto della divisione questo
confine non era stato ben segnato. Si giunse infatti
ad un processo intentato contro l’Universitas di
Solofra da quella di Serino che addirittura chiese di possedere il casale di
S. Andrea. Di questo processo, che si protrasse per tutto il
XVI secolo e che fu vinto da Solofra, si ha un’interessante documentazione
dalla quale si possono individuare quali territori l’Universitas
di Serino pretendeva da Solofra, avere una idea di quanto fosse ampio il
territorio di S. Agata e quanto fu l’ingrandimento di Solofra a spese di S.
Agata. Va però detto che a quei tempi non era raro
che su alcuni territori gravitassero due Universitas. Che il rapporto Solofra-S. Agata fosse stretto è
dimostrato anche dal fatto che all’inizio del XIV secolo nella Zecca di
Napoli lavoravano alcune persone dette di Solofra e che invece erano
dell’area santagatina, dove c’era un nucleo della
lavorazione del ferro che aveva tradizioni più antiche di quelle di Solofra.
La lavorazione dei metalli infatti fu fiorente nel
periodo angioino e proprio la zona di S. Agata-Montoro-Serino fu più pronta allo sviluppo di
questo antico mestiere. Questa attività subì un incremento sotto re Roberto
d’Angiò che permise nel 1316 al feudatario Nicola
de Serino della Marra di avere la protezione nella costruzione di nuove forgias pro affilando in illis
ferro (le botteghe dei fabbri). Lo sviluppo fu tale che
più tardi queste forgias erano tanto
sviluppate, con operai specializzati e organizzati, che lo stesso re Roberto
si preoccupò di riscuotere direttamente dal Giustiziere la relativa tassa e
proibì l’esportazione non solo del ferro, molto richiesto, ma anche del
prodotto lavorato. L’attività era così ben sviluppata che i registi angioini parlano in modo specifico delle quadrelle
di S. Agata (asticciole dei proiettili lanciate dalle balestre e lavorate
in speciali officine) protette dai dazi. Tutto questo
dimostra che nell’area c’era un vero e proprio polo di lavorazione del ferro
che si stabilizzò a Serino e che fu sottoposto a protezione, tanto che solo
in questi luoghi si poteva vendere il ferro sotto la vigilanza di portolani
di corte e il re assunse la privativa di questo minerale. Se si considera che
anche Atripalda aveva la lavorazione di questo
minerale si ha l’idea di un ampio polo del ferro a cui gli Angioini
dettero particolare cura e sostegno con favorevoli condizioni tanto che
questo lavoro ebbe sempre confermati i privilegi e
forme di organizzazione particolari. E fu a questo
polo che attinsero le attività di conio e di lavorazione della moneta del
regno di Napoli prima alla Zecca di Brindisi e poi a quella della stessa
Napoli. Nel periodo
aragonese (1432-1503) S. Agata si giovò dello sviluppo che ebbero le attività
solofrane con cui essa era legata sia nei rapporti commerciali che artigianali. Anche la sua
chiesa se ne giovò divenendo parrocchia col fonte battesimale, la sepoltura e
i relativi sacramenti. Nel 1469 il feudo
di Serino (quindi S. Agata) passò a Ludovico della Tolfa
e nel 1539 al figlio di costui Giovan Battista,
feudatari che ebbero diritti sui territori di S. Agata. Successe poi nel
feudo Giovanni Antonio Caracciolo di Santobuono, figlio di Costanza della Tolfa
(1585) per cui Serino divenne feudo di questa
importante famiglia. Nel 1626 Marino Caracciolo di Avellino acquistò da Alfonso Caracciolo
succeduto a Giovanni, con privilegio di Filippo IV, la terra di Serino con i
suoi casali quindi anche S. Agata (ASN, Titulorum,
v. In tutto il periodo
Vicereale (1503-1734) a S. Agata vissero attività legate alla coltivazione
dei campi e alla concia delle pelli con concerie dislocate lungo la via delle
Cortine in stretto legame con le attività solofrane, ma anche con Serino da
cui provenivano diverse persone impegnate nelle attività di concia e
soprattutto nella lavorazione delle scarpe. Si formò qui una
ampia fascia medio-bassa a forte
caratterizzazione artigiana con ferriere e concerie da cui solo poche
famiglie emersero accedendo al ceto civile. Nel XVII secolo S. Agata sentì
fortemente la crisi economica e fu viva l’opposizione alla
prepotenze feudali durante la rivolta di Masaniello (1647). Con la peste
del 1656 la sua popolazione fu decimata, molte
famiglie scomparvero, il sistema socio economico fu stravolto, i fondi
rimasero senza proprietari. Il casale allora accolse molte famiglie
provenienti da Serino, da Montoro, dal salernitano e dall’Irpinia
che si stabilirono nella parte pianeggiante poiché
ebbero la possibilità di lavorare le terre rimaste libere. Qui avvenne quindi
l’innesto di ceppi che ora costituiscono l’ossatura
sociale della comunità santagatina e solofrana. Nel XVIII secolo il catasto onciario dà la possibilità di
individuare la consistenza abitativa di S. Agata dove emerge un ristretto
ceto civile, forte economicamente anche rispetto a quello solofrano. Dal
catasto del 1754, un documento di grande importanza esistente presso l’Archivio
di Napoli, risulta che una sola famiglia dominava
nel casale. Apparteneva al ceppo dei De Maio con due fratelli
Pietro Antonio e Gennaro, quest’ultimo proprietario
di una conceria delle Cortine, che denunziò un giro di affari nella mercatura
di 6000 ducati mentre a Solofra il più alto impegno pecuniario non superava i
2500 ducati. Il figlio di Gennaro, Francesco Antonio, anch’egli citato
nel catasto come studente a Napoli (16 anni), divenne avvocato e sposò nel
1761 Elena Maddalena Orsini, figlia di Antonio,
razionale della Regia camera, dando inizio alla formazione di un nuovo ramo
che si chiamò Majorsini. Francesco Antonio visse a Napoli, mentre la famiglia, che risiedette a S. Agata fu insignita dalla figura di un
sacerdote, Francesco Maiorsini il figlio di Pasquale (nato a S. Agata nel
1812), dottore in Teologia e vescovo di Lacedonia e
di Amalfi (dove è sepolto), che mantenne rapporti
con il suo paese di origine dove consacrò nel 1865 la chiesa che aveva subito
un’opera di restauro. La società santagatina, formata da un ceto bracciantile e piccolo
artigiano, favorì il diffondersi di una cellula giacobina
che ebbe diretti rapporti con Montoro per i molti legami anche parentali con
famiglie di questa zona e che fu sostenuta da una banda di briganti, che si
rifugiavano nelle grotte delle montagne tra il Pergola
e il monte Garofalo. Le speranze giacobine si diffusero sia nel ceto artigiano che in quello bracciantile, contro l’oppressione delle
prepotenze baronali e borghesi. All’inizio i giacobini furono sostenuti anche
dal ceto civile che sentiva la necessità di abolire i privilegi feudali che
strozzavano l’economia, cosa che era in linea anche con l’atteggiamento
rivendicativo solofrano. Durante la rivoluzione del
1799 S. Agata fu al centro di quegli avvenimenti, entrò a far
parte del Cantone del Volturno il cui capoluogo era Avellino, formò un
governo repubblicano a dirigere il quale furono
messe persone di sicura fede giacobina, che in
sostanza furono le stesse che avevano governato precedentemente, mettendo in
evidenza la cellula rivoluzionaria che si era formata in questo casale. Dal
suo territorio partirono le truppe verso Montoro per democratizzare quelle
contrade e per combattere, in località chiusa, contro quelle del Duca d’Andria e poi a
S. Severino. Nello stesso tempo in paese si stabilì una truppa favorevole al
re comandata da Mariano d’Arienzo. Ci furono molti contrasti tanto che ben
quattro volte fu abbattuto e rialzato l’albero della libertà, espressione
della partecipazione a quella rivolta. Fallita la
rivoluzione molti furono condannati o esiliati, ma
fu la situazione economica a subire i più gravi danni (scomparve l’arte del
battiloro, si ridusse di molto quella della concia), che furono sentiti
soprattutto dal ceto artigiano-bracciantile santagatino
e ciò contribuì a mantenere vive le istanze rivendicative, tanto che si
formarono ben tre Vendite carbonare, che dettero un contributo non
indifferente ai giorni della rivoluzione carbonara (1821). In questa occasione furono considerati settari e condannati o
perseguitati il sacerdote Gaetano Saviano (insegnante privato), Giovanni
Andrea De Maio (Sindaco), Antonio Maria d’Arienzo (primo Eletto), Nicola De
Maio (secondo Eletto, definito antico settario ed Oratore della Carboneria),
De Maio Pasquale (cancelliere comunale). Tutto ciò spiega
perché a S. Agata furono accolte favorevolmente le idee delle rivendicazioni
sociali portate avanti dal socialismo. Sia a
Solofra che a S. Agata si crearono infatti, dopo
l’Unità d’Italia, tre Società di Mutuo soccorso di aiuto agli operai, che
all’inizio furono moderate ma ebbero anche forme anarchico-rivoluzionarie, si
sviluppò un vivo movimento operaio, che chiese aumenti salariali e la
diminuzione dell’orario di lavoro, e nel 1903 fu fondata Il rappresentante
della Lega solofrana, Ernesto De Maio, tentò una mediazione che non riuscì poiché gli industriali tennero duro facendo
prevalere le loro ragioni, per cui lo sciopero falli. Rimase però molto forte
la coscienza della lotta di classe e diffuso fu il malcontento intorno alle
55 industrie solofrane e alle otto santagatine. Fu
mantenuta in vita Nel 1915 Costui fu un
fervido sostenitore delle ragioni dei contadini e degli operai contro il
patronato della terra e dell’industria che teneva il potere commettendo
soprusi e violazioni di diritti. Dopo la guerra organizzò a S. Agata una
sezione socialista, l’"Unione operaia", che subito si arricchì di
80 adesioni causando la violenta reazione della classe che fino ad allora aveva dominato incontrastata. S. Agata mostrò,
sotto la guida del Famiglietti, una capacità organizzativa proletaria nuova
per un minuscolo paese che aveva sempre gravitato
intorno al più grande centro, inoltre quella associazione mise a nudo la
mutata consistenza dell’elettorato, frutto delle riforme del Famiglietti parla
di un paesello povero, poiché costituito nella maggior parte da gente
indigente e perché gli amministratori precedenti, tutti appartenenti ai pochi
abbienti, non si erano interessati al suo miglioramento, per
cui non erano state fatte le opere necessarie ad una civile vita in
comune. In questo paese, dice Famiglietti nei suoi Ricordi,
"langue tutto, dal servizio sanitario a quello amministrativo,
dalla scuola all’illuminazione, dalle strade alla cura del cimitero",
problemi che il giovane sindaco affrontò con determinatezza, incontrando
molti ostacoli nell’opposizione dei "signorotti" locali. Tra le
opere portate in porto da Famiglietti ci furono l’ampliamento della scuola
che raggiunse anche le zone isolate e il cambio del nome in S. Agata Irpina avvenuto nel 1923. Dopo la presa del
potere fascista iniziò a S. Agata un’opera tesa ad eliminare ogni
opposizione: fu chiuso il circolo "Unione Operaia" (luglio 1923)
considerato "un covo di sovversivi", fu sciolta l'Amministrazione
comunale socialista (dicembre 1923), fu soppressa l’associazione
"Combattenti", costituita da operai e contadini di
orientamento socialista, fino a giungere all’assorbimento di S. Agata
nel Comune di Solofra, che già aveva aderito al fascismo. Non mancarono
azioni persecutorie verso gli elementi socialisti di spicco del paese come
quelle contro Francesco Barbarisi, segretario del
partito socialista santagatino, attivista ed ex amministratore, che fu
costretto ad aderire al partito, e contro lo stesso
Famiglietti che fu costretto a trasferirsi a Napoli (1926). Divenuta frazione
di Solofra il piccolo centro visse la crisi del dopoguerra e seppe riprendersi
e partecipare alla rinascita degli anni sessanta quando con N.B. I documenti su
cui è basata questa ricostruzione sono in M. De Maio, Alle radici di Solofra.
Dal tratturo transumantico all’autonomia territoriale, Avellino, 1997. M. De Maio, Solofra
nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000; F. Scandone, Documenti per la
storia dei comuni dell'Irpinia, Avellino, 1956;
A. Famiglietti, I
miei ricordi, Solofra, 1989; Archivi di Stato di Avellino e di Napoli. |
Per gli argomenti di storia solofrana