Tutti noi sappiamo quanto il nostro corso d’acqua sia negativamente famoso, insieme al Sarno,
per il suo contributo all’inquinamento del golfo di Napoli. In effetti è ridotto ad una cloaca a cielo aperto che
accoglie un rigagnolo d’acqua maleodorante e guardato con diffidenza da tutti
e di cui nessuno vuole parlare. E noi abbiamo anche la possibilità di
costatarne la sua bruttezza se percorriamo la nuova strada che lo costeggia
alle spalle della Collegiata, mentre più sopra, al Toppolo, il suo invaso è
pieno di sterpaglie toccando le vecchie concerie, fino ad arrivare al ponte
della Scorza quando ancora si vede il suo greto
sassoso e tristemente vuoto. Tutto questo però non era così una volta e non
mi riferisco a quando la Scorza era luogo di
passeggiate salutari e Solofra era denominata "località di
soggiorno", quando accoglieva sia le famiglie dei solofrani, che risiedevano
a Napoli, per le vacanze autunnali nella casa solofrana sia famiglie
napoletane amiche o che raggiungevano Solofra per vivere le famose ottobrate solofrane, come ci è raccontato ampiamente
dalle pagine d’inizio Novecento delle "Rane". Né mi riferisco a ciò
che era fino a tutti gli anni cinquanta quando
ospitava lungo le sue rive della Scorza, al di sotto della "peschiera
del mulino", i solofrani nelle feste campagnole, oppure faceva da
sfondo, insieme al liarvo, alla festa della
Madonna del Soccorso, che offriva all’ombra dei suoi castagni occasione di un
festoso ritrovo. Mi riferisco ad un tempo più lontano
quando questo nostro corso d’acqua aveva acque abbondanti e pulite
che, percorrendo tutto il fondovalle ricevevano qua e là nuove acque e con
esse contribuiva a fare della nostra conca un "luogo salubre" con
boschi, selve ed aria pura, come esattamente dice il nome
"Solofra", datogli appropriatamente dai suoi primi abitanti.
Proprio per la ricchezza delle sue acque all’altezza della Collegiata lo troviamo
col nome di "flubio" - cioè
"fiume", corso perenne - come Fiume era chiamato tutto il
casale delle concerie prima di essere denominato Toppolo. E per inciso
faccio rilevare che ricchi di acqua erano tutti gli
altri invasi - parlo del vallone del Sorbo o di quello di Caposolofra - tanto
che ancora nel Cinquecento erano usati per il trasporto a valle della legna
tagliata sui monti, come chiaramente si legge in un articolo degli Statuti
solofrani, mentre l’acqua che scorreva in un altro vallone, quello dei granci, ancora nel Settecento rappresentava, a causa
dei suoi straripamenti, un problema per i campi di S. Agata. Ma ritorniamo al
nostro fiume (quando si meritava questo nome) e
andiamo alla località "Chiusa", che era tutta occupata dalle sue
acque, e dove esso aveva un doppio nome "flubio
rivus siccus" in cui
è racchiusa tutta la sua importanza e la sua funzione. Infatti
è in questa zona che il fiume straripando formava un ampio greto usato,
quando le acque ritornavano nel loro alveo naturale, come strada. Ecco allora il fiume offrire ai pastori sanniti la via (appunto rivus siccus) per
raggiungere i pascoli invernali della pianura salernitana. Quel rivus siccus era,
dunque, in quei tempi lontani un tratturo fluviale,
rispondendo esattamente alle abitudini di quei pastori che usavano, nei loro
trasferimenti, proprio i greti dei fiumi. Saranno poi i romani a farne una
via - la "via antica che va a S. Agata" dicono i documenti - per cui al fiume rimase solo il nome "rivus siccus" (risicco a S. Pietro) fino a S. Severino dove
prendeva il nome di "Saltera" fino alla
confluenza col Sarno.
Fu ancora la realtà di questo fiume a permettere la costruzione
della pieve di S. Angelo e Santa Maria sulla collina dove ora è la
Collegiata nei cui campi già si praticava la concia. Ma è proprio la concia che ha dato fama al nostro fiume. Quest’attività ha bisogno del tannino, che in abbondanza
si raccoglieva lungo il corso d’acqua, ed ha bisogno di acqua,
molta acqua, e poiché era maleodorante, anche quando si conciava al vegetale
per i cattivi odori della fase della macerazione, questa località, la conca
solofrana, così appartata, dove l’aria pura tra i boschi attenuava "la
puzza della concia", fu favorita e protetta da Salerno. Questo grande centro mercantile infatti aveva il problema delle
concerie, che gli Ebrei possedevano nella giudaica salernitana - i vicoli
stretti di via Mercanti - che furono spostate proprio lungo le rive della
futura Solofrana, da S. Severino (allora si chiamava Rota) a Solofra. Qui
c’erano tutte le condizioni perché la concia potesse svolgersi senza problemi
e dove soprattutto c’era la pieve che apparteneva alla Chiesa di Salerno la
quale aveva anche la gestione della Giudaica ebraica. Ecco allora come questa attività solofrana, legata al fondo pastorale,
diventò un’attività stabile e caratteristica del posto e perché fu protetta
da precise leggi sia longobarde che normanne e persino da disposizioni
imperiali del grande Federico II di Svevia.
Dobbiamo quindi a questo insieme - pastori, fiume, pieve, boschi
- se la concia si fermò a Solofra e ne diventò un’attività specifica e
connaturata al territorio. E il nostro fiume l’ha permessa e sostenuta quando
non era una cloaca a cielo aperto e quando le "acque lorde", come erano chiamate le acque della concia, erano usate per
irrigare i campi essendo, per il contenuto, tutto vegetale, altamente
concimanti. Per concludere mi piace sottolineare un
articolo dei nostri Statuti, il n 50 del primo corpus statutario,
quello più antico - risale al XIII secolo - nel quale i conciatori solofrani
si mettono d’accordo sull’uso dell’acqua stabilendo una turnazione, quando le
acque reflue venivano scaricate senza problemi nel fiume e quando le concerie
non erano che fosse interrate o seminterrate
ospitate sotto tettoie (astraco) coperte da scandolis (tavole di legno) ed aperte verso il fiume.
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