La sommossa
Che i meridionali siano amanti delle feste patronali è cosa ovvia.
Che i Solofrani siano morbosamente attaccati al loro San Michele è cosa certa.
Per alcuni l’Arcangelo è tutto,
essi non hanno bisogno di Dio: hanno San Michele; nel pericolo non invocano
altri Santi se non il Principe celeste. Se si facesse un’indagine per conoscere
quale santo hanno chiamato durante il terremoto (leggansi un minuto e venti di
movimento sismico) tutti i Solofrani risponderebbero ovviamente “San Michele”.
Quando erano permessi i contraddittori per il referendum istituzionale, in
contrapposizione ai repubblicani, i partigiani della monarchia gridavano: “Viva
il Re! Viva San Michele!”.
Nel 1936 si sparse la voce che
una delle Statue del Santo (nella Collegiata si conservano, infatti, due
simulacri: uno è chiamato “San Michele di maggio” e l’altra statua “San Michele
di vendemmia” e ciò perché due volte all’anno si festeggia il patrono: a
settembre in tono minore, e a maggio con festa grande; ogni tempo ha la sua
statua), dicevo che s’era diffusa la notizia che una delle statue di San
Michele doveva essere trasferita in un museo di Napoli.
Non vi dico la rapidità con cui
si sparse tale voce e non ho parole per descrivere ciò che successe. Quasi mi
verrebbe voglia di attingere a larga mano dal capolavoro manzoniano, ma tento
di fare da me, se pure con somma difficoltà.
Tutto il popolo minuto, che è
quello più passionalmente attaccato alla fede, si mosse per impedire quanto si
paventava. Donne inizialmente, centinaia di donne, seguite dai loro uomini, dai
loro bambini, incominciarono a dimostrare il loro risentimento con grida, con
urla, con schiamazzo.
Scesero dai Balsami e dalla Forna, scesero da Caposolofra e
da Santa Lucia, si mossero dalla Cupa e dal Toppolo, salirono dai Volpi,
vennero dal Sorbo.
Si diressero alla volta della
Collegiata, si affollarono sul sagrato e, mentre si chiedeva a gran voce che
venissero aperte le porte, incominciò la ressa, il pigia-pigia generale.
I più scalmanati, autoeleggendosi capipopolo, guidavano gli umori della
folla: qua si gridava “evviva”, là si urlava “abbasso”, altrove iniziavano un
canto di invocazione a San Michele, inno che veniva coperto ed annullato dalle
grida della parte più accesa dei dimostranti.
Il Primicerio, in canonica,
tremava dalla paura e non sapeva decidere cosa fare. Intanto la folla incalzava
e picchiava sulle porte. Volevano rendersi conto della verità, tutti volevano
costatare la presenza in chiesa delle due statue.
Finalmente, il Primicerio pregò
il sagrestano di andare ad aprire la porta centrale. La folla allora ad
urtarsi, gareggiando a chi entrava per prima. Quando riuscirono ad entrare gli
uni si diressero alla navata di sinistra, ove era esposto nella Cappella del
Rosario, la statua di “San Michele di maggio”, gli altri alla navata di destra,
ove era esposto il “San Michele di settembre”.
La folla infine, in gran parte
si ammassò nella navata centrale e, presa da mistico fervore cominciò a cantare
un inno, incominciò a pregare in ginocchi.
Il Primicerio, allora, apparve
sull’altare maggiore, e chiedendo il silenzio, che subito ottenne, invitò i
fedeli a cantare con lui il “Te Deum”.