SVILUPPO STORICO-URBANISTICO DI
SOLOFRA
Solofra ha subito, in seguito alla ricostruzione del
post-terremoto, uno sviluppo urbanistico eccezionale, che, proseguendo quello degli
anni settanta, ha permesso alla cittadina di estendersi nella conca occupandola
tutta, segno di un’evoluzione socio-industriale di grande importanza.
Per far sì che esso sia adeguatamente compreso è necessario che si
abbia la consapevolezza storica di come si è sviluppato questo tessuto urbano
nei secoli, quali furono i primi luoghi abitati, intorno a quali realtà si
evolse la comunità solofrana.
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Il primo insediamento stabile si ebbe in età
sannita, in un luogo, molto
probabilmente al Toro, non lontano dalle tombe sannite di Starza,
dal corso d’acqua (il suo greto era usato da questi pastori come via) e dall’arx di Castelluccia che dominava il passaggio tra la
valle del Sabato e quella dell’Irno.
Su questo insediamento poi si sviluppò quello romano, quando il territorio della sannita Abellinum, diventò una
colonia romana che si allargò a tutta la zona pianeggiante con le villae rustiche (abitazioni dette curtis) mentre la strada di Castelluccia
si trasformò in via romana (via antica qui badit
ad Sancta Agathe) lungo la quale sorsero
le tabernae fino a Rota (S. Severino).
Dopo Cristo si impiantò nella zona il cristianesimo delle origini
(Abellinum fu una delle prime diocesi d’Italia) e il culto di S. Agata
che divenne un toponimo, esteso a tutta la parte pianeggiante.
Con le invasioni barbariche, la distruzione di Abellinum e la
conseguente guerra greco-gotica (535-555) si ebbe l’abbandono della zona
pianeggiante ed a Solofra si crearono due arroccamenti: uno a nord sulle prime
falde del monte S. Marco, protetto da Castellucccia, Le
Cortine, e l’altro a sud, Cortina del Cerro, protetto da Chiancarola con abitazioni, dette cortine, perché simili
alle curtis.
Poiché era scomparsa Abellinum, la conca solofrana divenne
tributaria di Salerno da cui affluirono i monaci bizantini (di qui l’impronta
greca della zona) e i preti della sede vescovile, che ebbero come punto
religioso di riferimento di tutta la zona la "pieve" rurale di Solofra (nel territorio salernitano ci furono vari centri
religiosi di questo tipo) che sorgeva sulla collinetta lungo la riva destra del
fiume (poi Solofrana) da cui era protetta e dove c’era il culto bizantino a
"S. Maria del quindici agosto".
Con la venuta dei Longobardi (VII secolo) il territorio di Solofra divenne una zona di
confine del grande Ducato di Benevento, dove Castelluccia
costituiva una porta sulla pianura non ancora occupata. Questa zona fu
rinforzata una prima volta quando Arechi I preparò
l’occupazione di Salerno, e poi quando il Ducato di Benevento fu diviso in due
parti, per cui si ebbe la trasformazione del Pergola-S.
Marco in un grande complesso difensivo sulla via di Castelluccia soprattutto perché il territorio di
Montoro-Serino era diventato un delicato distretto di confine dei due
Principati. Di questo faceva parte il castello di Serino, sul versante
settentrionale, la fortificazione di Solofra (fu un rinforzo del
castello di Serino), su quello meridionale, e il castello di Montoro. La conca,
che faceva parte del gastaldato longobardo di Rota (rotense finibus),
ebbe due territori abitativi, quello di Solofra e quello di S. Agata divisi dal
vallone Cantarelle, il primo molto più ristretto del secondo che occupava tutta
la zona pianeggiante e il versante sud del Pergola-S. Marco.
Per quanto riguarda Solofra, definita in questo periodo "locum" (un centro con caratteristiche proprie),
l’insediamento longobardo provocò l’impianto abitativo della zona
Balsami-Sorbo-Turci dove c’erano due ampi fondi, costantini
e castagnano, mentre a Cortina del cerro c’era
il fondo ad cerbitu,
né mancavano zone abitate nella parte bassa. Si può individuare anche un’essenziale
struttura viaria costituita da un asse principale da sud-ovest a nord-est
costeggiando a sud Cortina del cerro e attraversando il fiume al di sopra della
pieve (odierno Toppolo). S. Agata, anch’essa definita locum,
aveva nella zona pianeggiante due ampi territori dati a coltura che occupavano
quasi tutti il seno vallivo, il galdo e il
fondo a la selba, quest’ultimo diviso in due,
"selva grande" e "selva piccola"
che giungeva fino a Le cortine.
La "fara" longobarda insediata
nella conca solofrana non annullò il culto precedente a S. Maria del quindici
agosto, vi aggiunse invece quello a S. Michele, di cui i Longobardi
erano diventati fedeli (all’arcangelo fu attribuita la vittoria di Siponto, l’8
maggio del 625), perciò la pieve ebbe una doppia intestazione a "S. Maria
e al S. Angelo", ma il secondo culto diventò gradatamente più importante
soppiantando col tempo il primo. Intorno a questa chiesa si creò l’identità
della comunità solofrana perché essa non fu solo il centro religioso locale
(aveva il diritto di battezzare e di seppellire i morti) dove tutti i preti
delle campagne si riunivano per le celebrazioni solenni di Natale e Pasqua e
delle feste specifiche della chiesa (il quindici agosto e l’otto maggio), ma fu
centro economico perché permetteva alla comunità di porre sotto la protezione
religiosa i prodotti necessari per la vita e perché aveva campi, selve, luoghi
per le attività essenziali (panificazione, produzione del vino e dell’olio) e
le case per accogliere i forestieri, e fu centro civico, come sede della curia,
il tribunale locale, nucleo della vita comunitaria.
Con la venuta dei Normanni (fine XI secolo) e le devastazioni del guerriero Troisio la via di Castelluccia fu
abbandonata, mentre acquistò rilievo il passo di Turci, protetto dalle due
fortificazioni del Pergola e al quale si accedeva attraverso una strada detta
"salmentaria" che dalla zona del galdo (Consolazione) giungeva alla collina del
castello, passando dinanzi a questo. In questo periodo si ampliò la consistenza
abitativa sia di Solofra che di S. Agata, entrambe chiamate vico (una
comunità già definita) ed entrambe poi divenute casali di Serino. Solofra aveva
terre dipendenti da Cava e da Salerno ma anche possedute liberamente (un fondo
detto "Sasso" ed uno "Corneto") con attività
artigiano-mercantili legate all’industria armentizia e collegate a Salerno,
mentre
In questo periodo si ebbe una prima ristrutturazione ecclesiale in
seguito alla quale Solofra e S. Agata entrarono a far parte dell’archipresbiterato di Serino. Solofra vi apparteneva con la
pieve, diventata parrocchia e chiamata solo "S. Angelo" (era caduta
l’intestazione a S. Maria), e con la chiesa di S. Croce, invece S. Agata aveva
la chiesa di S. Andrea (1195), quella di S. Giuliano vecchio (un centro
religioso del casale Toro al di qua del vallone di Vellizzano,
in questo periodo non ancora di Solofra) e naturalmente la chiesa dedicata alla
santa di Catania. Però mentre S. Agata aveva come punto di riferimento civico
la "curia" di Serino e quella di Montoro, Solofra ne ebbe una
propria, in più aveva la chiesa, unica parrocchia della conca, che proteggeva
le attività artigianali intorno al fiume (l’arcivescovo di Salerno aveva avuto
importanti prerogative economiche nell’uso delle acque dei fiumi che scorrevano
nelle sue terre) dove già c’erano le fosse per la concia (attività esercitata
dalle comunità pastorali) che stava diventando una caratteristica locale. Data
questa realtà più autonoma il casale di Solofra fu staccato due volte dal feudo
di Serino e definitivamente assegnato (metà XIII secolo) a Giordana Tricarico
andata sposa ad Arduino Filangieri.
Con l’avvento degli Angioini (1266) il territorio solofrano subì un vistoso ampliamento
poiché Carlo I permise l’assorbimento di una parte del casale di S. Agata (la
parte alta con la collina del castello e col Toro) a spese di Serino che
determinò anche una ristrutturazione del punto fortificato (il castello
acquistò una più definita struttura), cosa che permise a Solofra di inglobare
molti più territori di quelli stabiliti e cioè gran parte delle zone
pianeggianti. Da questo momento si crearono i due casali di "S. Agata di
sopra o di Solofra" e "S. Agata di sotto o di Serino". Inseguito
alla guerra del Vespro Solofra subì inoltre un travaso di gente, proveniente
dalle zone del Cilento colpite dal conflitto, che andarono ad aggiungersi agli
altri cilentani già insediati precedentemente e che occuparono la pianura
individuata col toponimo celentane.
Nel XIV secolo, in seguito a profondi mutamenti avvenuti nelle
terre dell’episcopio salernitano, si ebbe la trasformazione di S. Angelo in chiesa
"ricettizia" per cui la chiesa passò alla comunità solofrana (la Universitas), cioè alle famiglie locali
che vi posero cappelle e jus patronali, a cui affidarono
le terre per proteggerle dalla erosione fiscale e che diventarono enti
economici a sostegno delle attività commerciali. Per queste esigenze sorse pure
il convento di S. Agostino (seconda metà del XIV secolo) ad opera di Francesca
Marra (madre del feudatario Filippo Filangieri) la cui costruzione apportò una
ristrutturazione viaria della zona del commercio, perché dal forum di S.
Croce nacque l’impianto di un’altra via, la via nuova, che scendeva
quasi parallela a quella esistente (da questo momento via vecchia) e che
accolse le botteghe di proprietà delle chiese di S. Croce e di S. Agostino.
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Dalla fine del periodo Angioino e poi per tutto il periodo
aragonese (1434-1503) Solofra, divenuta feudo della famiglia Zurlo, ebbe un tale sviluppo socio-economico che la portò ad una
vera esplosione urbanistica con ben 15 casali. Ai primitivi casali del Sorbo
e dei Balsami, si aggiunsero quelli introno al passo di Turci e al
vallone di Vellizzano: Caposolofra,
allora un piccolo insediamento verso il passo, Fontane soprane e Fontane
sottane, lungo il vallone e Vicinanzo, tutti di natura artigiano-mercantile
(già c’erano le apoteche de consaria). Questa
zona era collegata, nella parte alta, con S. Agata di sopra, che aveva
territori che giungevano fin sotto Turci ("santagati
a Turci") e, nella parte bassa, con il Toro diviso in Toro sottano e
Toro soprano. Al di là del vallone Vellizzano
c’era il casale Fratta che comunicava col casale dei Burrelli
lungo la discesa di S. Angelo. Al centro, il Sortito era diventato un
casale, si era formato quello delle concerie, detto Fiume, e quello
della Forna (dal forno della famiglia Giliberti intorno a cui si formò
il casale) lungo la via che andava ai Balsami. Dall’altra parte del fiume il
casale Cortina del cerro, ora chiamato Casate, si era esteso
nella parte bassa e intorno alla chiesa della Madonna di Costantinopoli (poi XII
Apostoli).
L’antico asse viario si era dunque arricchito di siti abitativi
che costituivano un tessuto complesso ed articolato con un fitto intrigo di vie
pubbliche e vie vicinali che è il chiaro segno di una spinta demografica che
portò il numero dei fuochi a 474 (più di 2500 abitanti). Elemento abitativo
principale era la "corte", un ampliamento dell’antica cortina di cui
conservava gli elementi di base. Punti centrali dei casali erano le chiese, in
genere di jus patronale delle famiglie dominanti in
essi, né mancavano vere e proprie cappelle private.
Oltre alle chiese citate c’erano ai Balsami una chiesa dedicata a Maria
SS. Assunta, al Sorbo S. Maria di Loreto e S. Maria delle Selve (poi S.
Francesco), sul passo di Turci,
In questa epoca S. Angelo subì
la trasformazione più significativa con la costruzione del nuovo Tempio, che
non fu un ampliamento del vecchio edificio, ma una riedificazione "a fundamenti" della vecchia chiesa che non rispondeva
più ai parametri della società solofrana e alle sue esigenze. Ci voleva infatti
una chiesa che esprimesse meglio ciò che la società aveva raggiunto, un luogo
ove il patriziato locale potesse essere concretamente rappresentato (
Questo periodo di grande esplosione economica è coronato da un
momento importante quando l’Universitas si riscattò
dal dominio feudale passando al regio demanio e godendo dei privilegi legati a
questo stato. Poi, non sostenuta dalla miope politica vicereale, tutta questa
realtà naufragò e l’Universitas fu costretta a
vendersi agli Orsini, che si insediarono nel feudo in
posizione di sfruttamento e di opposizione alle esigenze della comunità e che
dimostrarono con la costruzione e con la ubicazione del nuovo palazzo (di
fronte al tempio che la comunità stava costruendo) la sua indiscussa
preminenza. Fu una sorta di gara che vide l’Universitas
impegnata ad ottenere che il palazzo fosse costruito in modo da lasciare un
decoroso spazio dinanzi alla chiesa e a sistemare la parte bassa della via nova
(il tutto costatò 650 ducati) mentre l’Orsini in posizione di forza gestiva la
costruzione del suo palazzo come si vide quando usò le pietre delle mura di
cinta del castello, smantellate in questa occasione, per il basamento della
nuova dimora (ancora oggi visibili sulla facciata occidentale). Poiché in
genere il feudatario che si insediava in un feudo, imponeva anche un santo per
penetrare, attraverso questa via, nell’acquiescenza della popolazione, e poiché
questo non poteva avvenire per la comunità solofrana, che aveva già un santo
suo di antico impianto, cercarono gli Orsini di imporre, con la costruzione del
convento di Santa Chiara, questo culto ottenendo la trasformazione in tal senso
del nome della vecchia chiesa di S. Maria delle Grazie che dopo S. Croce e S.
Agostino era la più rappresentativa. Nella piazza Orsini deve dunque vedersi
questo contrasto (segnò tutta la storia vicereale solofrana) che si evidenzia
anche in un significativo mito solofrano (parla di un ponte che la prepotenza dell’Orsini
costruiva dal suo Palazzo alla chiesa e che S. Michele tagliava) e che ebbe il
momento più forte nella lotta tra il feudatario e una parte del patriziato
locale contro il primicerio Sabato Iuliani, sostenuto
dalla maggioranza della popolazione, che fu l’episodio più significativo del
rapporto comunità-feudalità.
In questo periodo però, nonostante gli ostacoli, la società ebbe
modo di crescere anche dal punto di vista culturale, crescita legata alla sua
antica tradizione medica e curiale e al rapporto con Napoli mantenuto dal
patriziato finanziario-mercantile che vi si era trasferito e che in loco
dovette dimostrare anche fisicamente la preminenza economico-culturale con la
costruzione dei palazzi signorili.
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La popolazione nel catasto del 1658 è distribuita in 16 casali: Fontane sottane, un casale già esistente
nel XVI secolo e che sarà chiamato Santa Lucia dalla chiesa ivi esistente. Caposolofra, un casale già esistente
nel XVI secolo e che aveva assorbito quello di Fontane soprane. Vicinanzo, ancora esiste come
casale autonomo. Sorbo, non si divide più in soprano e sottano. Balsami, ha conservato la
nominazione precedente. Forna, rimasto con lo stesso nome. Capopiazza, casale che ha inglobato
l'antica platea e il Sortito. Cupa, casale che comprende l'abitato intorno alla via che dal Toppolo
raggiunge la piazza di S. Agostino. Toppolo, nominazione che nel XVI secolo si riferiva
solo ad una località del casale Fiume di cui ha preso il nome. Strada vecchia, casale che comprende le
abitazioni intorno alla via che dalla piazza dinanzi a Santo Agostino giunge in
piazza San Rocco. Piedi S. Angelo, casale che comprende le abitazioni intorno alla via così
chiamata perché scende da S. Angelo verso i Volpi e che nel XVI secolo era
denominato Burrelli. Volpi, nominazione che nel secolo precedente si riferiva solamente ad
una località e che ora ha sostituito il casale delle Casate. Fratta, il casale conserva lo
stesso nome del secolo precedente. Toro soprano e Toro sottano, i due casali conservano la nominazione del
secolo precedente. Sant'Agata, questo casale ha la precisazione "di Solofra" per
distinguerlo da S. Agata di Serino che è la parte bassa dell'abitato intorno al
Pergola San Marco e che non appartiene a Solofra.
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A metà Settecento un documento di
grande importanza (il Catasto onciario) permette di delineare lo sviluppo
abitativo e sociale avuto da Solofra nel cinque-seicento. Il territorio di
Solofra risulta diviso in 10 casali costituiti dall’aggregazione dei nuclei
abitativi precedenti divenuti più intensamente popolati (circa 4000 abitanti).
L’aggregazione più sostanziosa era avvenuta intorno a Turci dove i
suoi quattro casali risultavano inglobati nel grande casale di Caposolofra
(705 abitanti e 119 fuochi con 63 abitazioni di cui 2 palazziate
e 25 medio-alte, tutte con giardino, orto e stalla), un casale commerciale ed
artigiano per la sua vicinanza a Turci (aveva un fondaco, 11 concerie e diversi
magazzini). In posizione isolata ma appartenente a questo casale c’era il Monastero
di S. Domenico, mentre Turci era definito "luogo di campagna
fuori di questa terra" (inglobato nello Stato di Serino con terreni di
proprietà sia dell’Orsini che del Principe di Avellino, feudatario di Serino)
dove
Il casale del Sorbo (299 abitanti e 46 fuochi) giungeva
fino a Capopiazza (la parte alta della piazza) e
attraverso le vie Afflitta (dalla Chiesa di S. Maria degli Afflitti) e Croce dei Cappuccini,
comunicava con Caposolofra (era attraversato dal traffico commerciale che dalla
Platea si dirigeva verso Turci). L’abitato, che aveva 40 unità abitative
di cui metà "palazziate", si configura come
un casale residenziale, che nella parte alta aveva il Monastero di Santa Teresa
e il Convento dei Cappuccini, c’era poi
Il casale Balsami (171 abitanti e 34 fuochi), toccato
dall’alto corso del fiume (lungo il quale c’erano 15 botteghe di conceria) e
comprendente i monti a sud fin quasi a Passatora,
aveva 50 abitazioni di cui metà medio-alte, numerosi magazzini per il deposito
di pelli e lana, una bottega lorda e la chiesa dell’Ascensione.
Il casale Forna (274 abitanti e 51 fuochi con 60 abitazioni
di cui 1/3 palazziate) si sviluppava lungo l’asse
viario (Balsami-zona delle concerie) costituito da due tronconi (via L.
Landolfi e via Forna) spezzati da uno slargo (piazza del Popolo) in cui sorgeva
la chiesa del casale dedicata a S. Maria del Popolo ed aveva, verso il vallone,
4 concerie.
Un grosso casale era quello denominato Toppolo-Cupa-Capopiazza (405 abitanti con 73 fuochi) che comprendeva
l’ex casale del Fiume (ora Toppolo con 15 abitazioni), la via di accesso
alla zona di S. Agostino, detta Cupa (ora via Abate Giannattasio) con 41
abitazioni di cui 16 palazziate e 3 sedili, e la
piazza (Capopiazza) con 13 abitazioni tutte palazziate ed un comprensorio di case. Si sviluppava
trasversalmente, da sud a nord (torrente Solofrana-vallone di S. Domenico), al
servizio dell’attività principale della concia e della mercatura con 34
concerie (di cui 28 al Toppolo-Fiume, 5 alla Cupa ed una a "le
roselle"), 50 botteghe (tutte a Capopiazza,
molte erano corpi autonomi appoggiati alle abitazioni), delle quali 20
appartenenti al monastero di S. Agostino,
Altro casale era S. Angelo e Strada vecchia (473 abitanti
con 100 fuochi), che comprendeva due zone ben distinte. Col termine
"Strada vecchia" (60 abitazioni di cui 20 grandi) si indicava
l’odierna via della Fortuna fino alla Chiesa
di S. Rocco dove c’era verso il fiume una conceria, poi 18 botteghe
(4 di proprietà dell’Orsini) più una "casa della corte" e la via
nuova (via Gregorio Ronca) con 13 botteghe e un sol
"comprensorio" di case, una bottega "vicino al portone di S.
Agostino", altre due in località "alla volta di S. Agostino" e
infine una bottega con camera per scuola. Col termine "S. Angelo" (85
abitazioni, 10 case sottane ed una conceria) si indicava tutta la via chiamata piè’
S. Angelo (ora Regina Margherita) con il Convento e chiesa dell’Addolorata.
Il casale Volpi (358 abitanti e 63 fuochi, 80 abitazioni, 3
comprensori di case, 6 magazzini, 1 bottega lorda e 11 concerie) si sviluppava
intorno all’asse viario che cominciando dalla chiesa dello Spirito Santo
giungeva al confine con Montoro (via Michele Napoli-via Dodici Apostoli-via
Consolazione), dove c’era
Il casale Fratta (395 abitanti e 75 fuochi) andava da S.
Angelo al confine con Montoro in un ampio territorio che comprendeva la zona
abitata intorno alle chiese di S.
Giuliano e Misericordia (100 abitazioni di cui 12
comprensori e diverse botteghe) e una zona a coltura con seminativi e masserie
(tra Toro, S. Agata e Montoro).
Il casale Toro (284 abitanti in 49 fuochi, 70 abitazioni di
cui alcune palazziate) si estendeva tra Caposolofra,
S. Andrea, S. Agata e
Il casale di S. Agata di Solofra (ora S. Andrea) verso
ovest giungeva fino al passo di Castelluccia e ad est
fino alla località le vene, ma i confini tra i due casali non erano ben
distinti poiché uno stesso territorio era detto appartenente indifferentemente
all’uno e all’altro casale. Aveva abitazioni nella maggioranza di media
grandezza (440 abitanti in 88 fuochi) con molte vigne e selve, non c’erano
concerie mentre molti abitanti erano trasportatori ("viaticali").
S. Agata di Serino (567 abitanti in 100 fuochi) aveva 6 concerie
e la famiglia più ricca di tutta la zona (6000 ducati impegnati nella
mercatura) ed altre poche famiglie facoltose.
In tutto il tessuto urbano di Solofra abitavano 660 conciapelli in
127 fuochi, 348 battiloro e battargento in 70 fuochi,
579 mercanti in 85 fuochi, 912 bracciali in 188 fuochi, 594 artigiani vari in
113 fuochi, 202 individui impegnati in attività varie in 38 fuochi, 509
individui che svolgevano attività liberali e, come si diceva allora
"viventi del proprio" in 77 fuochi. C’erano poi 104 vedove e vergini
in 39 fuochi, 44 forestieri abitanti in loco in 11 fuochi, per un totale di 748
fuochi e 3952 individui.
Il quadro urbanistico, che emerge dal catasto onciario soprattutto
con
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Questa floridezza però subì un arresto in seguito alla Rivoluzione del 1799, dalla quale Solofra
subì i maggiori contraccolpi di carattere economico con la perdita di
"500.000 ducati di partite di arrendamenti e fiscali", "con
molti beni assegnati ai Monteverginisti e alla mensa
vescovile di Salerno", con la perdita di molte "fedi di credito nei
Banchi napoletani" e soprattutto dell’arte del battiloro, divenendo
"il paese più miserabile del Regno". Perfino le strade subirono un
pauroso degrado e se prima della rivoluzione l’Universitas
di Solofra nel progetto del rifacimento ed ampliamento della strada, che da
Montoro, passando per Solofra e per Turci, portava ad Atripalda, aveva impegnato
oltre la metà del contributo, inseguito agli infausti eventi di quella
rivoluzione vide abbandonato il progetto che sarà ripreso solo molto più tardi.
Si ebbero solo pochi interventi nel primo ottocento, invece bisogna arrivare al
Regno d’Italia per vedere in loco una ristrutturazione viaria che arrecò anche
dei danni. Siccome la strada, che da Montoro portava a Turci, era diventata
provinciale, dovette subire un ampliamento che portò all’abbattimento della
chiesa di S. Agostino, la cui ubicazione creava una strozzatura nell’antica platea.
Nonostante la fiera opposizione di Giuseppe Maffei junior, rappresentante
locale all’Amministrazione della Provincia di Avellino, non si riuscì a salvare
quella che era una delle chiese più rappresentative della comunità anche perché
accoglieva i monumenti funerari di molte famiglie del patriziato locale, le cui
pietre sepolcrali furono trasferite in S. Domenico.
Nello stesso tempo si definirono i due viali di tigli: quello che
dalla piazza giungeva dinanzi alla chiesa di S. Domenico e l’altro quello che
dal palazzo Ducale Orsini giungeva in località Toro (via Giuseppe Maffei) e
alla ferrovia che Solofra ebbe, sempre per interessamento del Maffei, dopo una
lotta non indifferente perché, date le difficoltà del traforo del Pergola, se
ne era abbandonata la costruzione per optare per un altro tracciato.
(anche
su “Il Campanile”, gennaio e febbraio 2000 (anno XXXI, nn.
1 e 2)
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M. De Maio, Alle
radici di Solofra, Avellino, 1997
Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, Solofra, 2000
La storia della
toponomastica solofrana
Per prelievi totali o
parziali citare il sito o le fonti indicate
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