Tradizioni solofrane

 

Tradizioni di Carnevale

 

 La Zeza solofrana

 

Un posto importante tra le attività carnevalesche spetta alla Zeza, l’antichissima rappresentazione popolare elaborata e fatta propria dal popolo irpino con il titolo di Canzone di Zeza, che viene rappresentata nelle vie da gruppi misti di solofrani e montoresi. È un vero pezzo di teatro popolare cantato ed accompagnato da strumenti come le nacchere, i triccheballacche, i tamburelli.

Le nacchere sono nominate anche castagnette. Entrambi i nomi appartengono alla tradizione campana. Un paio è detto maschio e l’altro femmina. Questo fatto ci riporta anche ad un’antica simbologia corporea, secondo la quale il corpo umano, doppio in tutti i sensi, è per metà maschile e metà femminile. I triccheballacche sono uno strumento campagnolo composto da due martelletti che battono contro uno centrale fermo.

I protagonisti sono quattro: Zeza, la madre, una popolana che ha come preoccupazione principale quella di far  “accasare la figlia e di farlo all’insaputa del marito, come succede in tante occasioni nella pratica della filosofia napoletana dell’arrangiarsi. La donna, quando non c’è il marito, riceve in casa l’innamorato della figlia, Vincinzella, un buon partito, un avvocato, Si’ Ronnicola.

Il marito di Zeza è Tate, un uomo gretto, chiuso in una falsa mentalità puritana, che tiene la figlia in casa impedendole di “praticare” con chiunque. Costui, ritornando a casa all’improvviso, scopre i due innamorati, allora si abbandona ad una sceneggiata minacciando di uccidere il giovane, ma alla fine si arrende e dà il consenso alle nozze, solo, però, dopo aver riscosso una capace borsa di denaro. Resta così il dubbio se sia stata tutta una messa in scena quella dei due, per ricavare un guadagno prima del consenso al matrimonio.

L’amore, comunque, vince e il giovane pur amare liberamente la sua Vincinzella.

Tutta la rappresentazione era condotta da soli uomini poiché alle donne non era permessa l’esposizione al pubblico. C’è un capozeza che guida la rappresentazione a mo’ di regista, mantiene rapporti con il pubblico e dà inizio, alla fine, alla sfrenata tarantella che completa la rappresentazione.

 

Confronti.

I personaggi della Zeza napoletana sono gli stessi della Zeza di Solofra per la diretta dipendenza dell’una dall’altra con poche varianti.

La rivista napoletana delle tradizioni popolari, il “Giambattista Basile”, riporta una definizione della Zeza napoletana e cioè “cantata vernacola... sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiche e, quindi, ai fescenini e alle satire. Trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella ...

La Zeza di Solofra è quella che si rappresenta in tutta la valle del Solofrana, da San Severino in su, e si chiama Zeza Zeza, anzi spesso erano gruppi di montoresi che si univano ai solofrani nel corteo carnevalesco. Nel testo solofrano è però un elemento che non si trova nelle altre rappresentazioni, né in quella di Montoro né in quella di Piazza di Pandola. In entrambe Pulcinella si convince a concedere in sposa la figlia solo dietro le minacce, mentre il Pulcinella solofrano riceve dal genero un capace portafoglio. Questo "elemento solofrano", che risponde alla realtà economica del paese per la quale il denaro risolve tutti i problemi, ha il valore di una firma.

In Irpinia la Zeza ha preso il nome di Canzone di Zeza subendo vari mutamenti. Quelle famose di Bellizzi e di Cesinali che sono le più vicine geograficamente hanno discordanze evidenti dalla presenza del coro, al numero dei personaggi, ai loro nomi (la ragazza, per esempio, si chiama Porzia), al giovane Zinobio (che è anche dottore e cura la ferita a Pulcinella), al finale.

Evidenti concordanze si trovano invece nelle Zeze di alcuni centri della pianura come la Zeza di S. Potito in provincia di Salerno e quella di Galluccio in provincia di Caserta. I nomi dei personaggi sono gli stessi con qualche piccola variante. Don Nicola si chiama ’0 si’ Ronnicola (il signor don Nicola) e Pulcinella Tate, però Vincenzella, nel dialogo chiama Tate il padre. A Solofra la rappresentazione inizia con Tate che parte e raccomanda alla moglie la figlia, invece nelle altre due l’inizio è diverso: a Galluccio entra in scena Don Nicola che si presenta, a San Potito invece inizia Pulcinella, che dice alla moglie di aver trovato sotto il letto don Nicola e questa risponde che era il padrone di casa che voleva i soldi della pigione arretrata e che la figlia li aveva salvati dalla galera. Nello stesso episodio, a Galluccio, Zeza si giustifica dicendo che sotto il letto c’era don Fabrizio, il padrone di casa. Questa stessa giustificazione e questo stesso nome si trova nella Zeza solofrana solo che l’alterco tra marito e moglie a Solofra è postecipato, cioè avviene dopo il ritorno di Pulcinella. Altro elemento comune lo si trova nella Zeza di Galluccio dove la moglie arrabbiandosi contro il marito, che vuole tenere in casa la figlia, dice, che vuole farla divertire con cento innamorati, principi, baroni, abati e anche soldati. Le stesse parole sono pronunciate dalla Zeza di Solofra. Inoltre a Solofra Vincinzella entra in scena consigliando alla mamma di entrare in casa a cucinare per non far arrabbiare il padre, la stessa cosa succede a Galluccio. A S. Potito invece questo episodio non c’è. Don Nicola a S. Potito entra in scena dopo essere stato visto da Vincenzella uscire dalla scuola, a Galluccio è già in scena, in entrambe però è molto volgare, diversamente da Solofra.

 

I presonaggi.

Tra i personaggi spicca la figura di Pulcinella, un padre patriarcale caratteristico della tradizione meridionale, che si pone come retto difensore dell' “onore della figlia.

Contro di lui c’è Zeza, la moglie, a cui è demandata la cura della figlia. È lei che segue il crescere la ragazza e che si avvede che ormai è in età da marito. La sua preoccupazione di accasare bene la figlia è espressione di una mentalità caratteristica, che vede nel matrimonio la "sola sistemazione" per una ragazza. Zeza è una popolana scaltra, ma anche ruffiana, che risolve i problemi, anche economici, in modo, sembra, non sempre pulito. Non si sa se sotto il letto ci fosse realmente don Nicola o don Fabrizio, ma quel “nascondere esprime sempre una situazione non corretta. Nella Zeza solofrana il dubbio si chiarisce, poiché la donna dichiara che se non era pe’o si’ Ronnicola jemmencarcerati quindi don Nicola avrebbe pagato il debito, ma certamente ad un prezzo non pulito se era nascosto sotto il letto. La superficiale moralità della donna è confermata da un’altra sua espressione, quando, volta al marito, che non vuole far uscire la figlia, ella dice ’a voglio fa’ scialane e cu cientonammurati, cu principi, baruni e cull’abati, ’nziemme cu e surdati. È vero che ella sta in opposizione al marito e, quindi, in questa ottica si potrebbe spiegare la frase, anche tenendo presente, che espressioni iperboliche non sono rare, quando si vuol creare il contrasto. Ad un marito eccessivamente retrograde si oppone una moglie esattamente l’opposto. Pur se così stanno le cose, l’aver scelto quell’iperbole è sempre segno di una morale superficiale.

Sulla personalità dei due, specie nella farsa solofrana, cala un altro dubbio e cioè che entrambi abbiano messo in scena l’alterco per costringere don Nicola, il buon partito, a sposare la figlia, a pagare ben bene Pulcinella e a tenere in casa i due suoceri. Il dubbio non si dissipa, sia pensando al carattere di Zeza, che tende ad uscire con un guadagno da ogni situazione, sia considerando il generale atteggiamento di Pulcinella dinanzi al denaro e alla prospettiva di n vitto assicvurato per tutta la vita. L’ipotesi della messa in scena viene avvalorata anche considerando la resa di Pulcinella. Nella Zeza solofrana l’uomo si arrende solo quando il giovane gli consegna un capace portafoglio. Nella altre Zeze è diverso il motivo di quella resa e cioè la paura del fucile che prende il giovane o la schioppettata tra le gambe o addirittura il ferimento (ma anche qui il dubbio del complotto non si scioglie). Considerando ancora la situazione della famiglia il complotto appare possibile: hanno la pigione arretrata, Vincenzella è senza dote, imparentarsi con un dottore, che frequenta la Vicaria, è un risolvere tutti i problemi economici, oltre che un salire di grado come prendere un terno al lotto.

 

Il terzo elemento di questa famiglia è la figlia, Vincinzella, che nella versione solofrana è solo una bella ed onesta ragazza innamorata. Un’ombra su di lei appare quando afferma che per non stare dinanzi al padre ella se ne fuggirebbe coll’innamorato, ma l’affermazione è giustificata dalla situazione in cui si trova la ragazza col padre ciecamente geloso di lei. La stessa spiegazione vale per le altre Vincinzelle (o Porzie) che sembrano però più desiderose di accasarsi e trovare un buon marito che fuggire dal padre.

Per le ragazze del sud, e non solo nei tempi passati, sposarsi significava uscire dalla schiavitù di genitori troppo possessivi, come trovare un mestiere, e, quindi, l’indipendenza. Ecco spiegata l’affannosa ricerca del buon partito. Però dalla dipendenza dal genitore la povera ragazza sarebbe passata a quella dal marito e, dopo i primi momenti, si sarebbe trovata nella stessa situazione di scontro della madre col padre. Anzi essa già si nota nella Zeza di San Potito, quando, siamo alla fine della farsa, Don Nicola con un salto nel tempo, si lamenta dei polsini e del collare sporco che la moglie non gli lava, cui Pulcinella risponde, difendendo la figlia.

Mentre sembra allora che alla fine della Zeza si concluda un contrasto tra Pulcinella e Don Nicola-Vincinzella con la resa di Pulcinella, invece se ne apre un altro in cui Pulcinella ha sempre contro Don Nicola, ma questa volta con Vincinzella. La resa di Pulcinella in effetti non è tale, poiché c’è una nascosta vittoria del popolano napoletano sul Dottore in legge che si vedrà esplodere nelle Zingarelle.

Nella logica dei mondo alla rovescia, di cui è espressione il Carnevale, il mondo popolare, con l’unica ricchezza gratuita che possiede, la bellezza delle sue giovani, vince sull’altro mondo, lo attira, lo sfrutta e ne trae profitto. Il sogno popolare può realizzarsi nei magici giorni di Carnevale.

Anche da questa via si può vedere il contrasto di Zeza contro Pulcinella e Zeza-Vincinzella contro Pulcinella solo apparente, cioè frutto di una finzione. Il vero contrasto è con Don Nicola ed esploderà a matrimonio avvenuto, come fa intravedere la Zeza di San Potito.

 

Le Zingarelle solofrane

 

Antonio Giliberti nella sua nota sul Carnevale solofrano parla di delicate zingarelle composte da poeti solofrani. Esse furono pubblicate da Michele Scherillo sul Giovanbattista Basile, la prima il 15 dicembre 1884, la seconda il 15 gennaio 1885, la terza il 15 marzo 1885. Lo Scherillo dichiara: pubblico qui alcune farse rusticali carnevalesche, raccolte a Solofra ed a me comunicate dalla cortesia dell’avv. comm. Luigi Landolfi, solofrano. Vanno sotto il nome di Zingare e sui manoscritti ch’io ho avuto tra le mani è indicato il nome del compositore e l’anno in che ciascuna farsa fu composta.

Appartengono al genere detto la zingaresca e sono rappresentazioni ispirate ai presagi d’inizio d’anno, infatti contengono un elemento importante dei riti d’iniziazione: la previsione del futuro. Inizialmente quindi facevano parte dei riti del Capodanno e la previsione non doveva essere affidata alle zingare che vennero in Italia più tardi, ma a qualche mago o indovina cui il mondo pagano spesso faceva ricorso. Poi nel processo di inglobazione che subì il Carnevale, anche questo tipo propiziatorio entrò a far parte della grande festa carnevalesca di cui ora è elemento costitutivo pur conservando il caratteristico metro proprio delle profezie in rirna. Fiorirono nel cinquecento e grande fortuna ebbero nel seicento. Venivano cantate ed anche ballate.

Le Zingarelle solofrane sono canti carnevaleschi molto brevi rispetto ad altre farse dello stesso tipo che venivano rappresentate più volte nello stesso giorno in diversi luoghi.

 

La zingara o le zingare (nella prima ce ne sono due) predicono il futuro amoroso ad una ipotetica signora dinanzi alla cui casa si ferma il corteo carnevalesco. La donna però non entra mai in scena, ma è idealmente presente. A lei si rivolgono anche gli altri due soli personaggi della farsa, un Dottore in legge e Pulcinella, che sono in contrasto tra di loro. Questi due personaggi collocano le Zingarelle solofrane nel filone drammatico. Inizialmente, infatti, la zingaresca aveva come unico personaggio, la zingara, che dopo aver tentato di commuovere l’ascoltatrice raccontando la sua storia, fa le lodi di lei e chiede l’elemosina. Poi furono introdotti nuovi elementi, in genere un villano in contrasto con 1a, stessa zingara e ciò generò il trapasso della zingaresca alla forma drammatica. Le Zingarelle solofrane inglobano in sé però, un altro elemento presente nelle rappresentazioni popolari e cioè il Contrasto per la mano di una ragazza.

 

Nel Contrasto ci sono due pretendenti che si scontrano per la mano di una ragazza, alla fine un personaggio autorevole (capitano, sindaco, notaio) assegna la giovane a quello dei due da lei preferito e quindi hanno luogo le nozze [...] Le variazioni ed amplificazioni [...] sono date dall’intervento di una seconda coppia (in genere i genitori di lei), dal buffone che inventa scherzi e intrighi (Toschi).

 

Esse hanno una struttura ben precisa nonostante la loro brevità, anzi questa le trasforma in un vero gioiello di commedia carnevalesca.

 

Analisi

L’apertura è affidata alla o alle zingare che dichiarano di essere venute da lontano spinte dalla fama della bellezza della donna di cui faranno le lodi. L’intervento degli altri due personaggi è immediato, per cui subito la farsa si trasforma in contrasto che subito appare particolare, poiché tra i due personaggi non c’è opposizione per-la-mano-di-una-ragazza, che è il tema ricorrente delle forme drammatiche di questo tipo.

Ma c’è di più: il contrasto nelle Zingarelle solofrane ha subito un’ulteriore trasformazione senz’altro dovuta alla realtà sociale in cui l’opera nasce, comunque esso è al centro della farsa. Subito appare chiaro, infatti, che il tema centrale è proprio l’opposizione tra il Dottore e Pulcinella. Così la maschera napoletana ha inglobato in sé il ruolo del buffone che inventa scherzi e intrighi, presente nei Contrasti, a cui s’è aggiunto il ruolo dell’altro pretendente con una variante poiché egli difende la ragazza dalle pretese del Dottore senza aspirare alla sua mano, con un significato ben diverso.

Le zingare intervengono di tanto in tanto nell’alterco poco partecipando direttamente, costituendo invece quasi una pausa per rompere la tensione, ma anche per creare un nuovo motivo di divertimento. Esse, infatti, esprimendosi in lingua lodano la donna mentre i due litigano con espressioni anche volgari. Si crea così un brusco stacco che provoca il riso, ma nello stesso tempo acuisce l’interesse per il prosieguo dell’alterco. Altre volte questi interventi servono a dare altro alimento al contrasto ma sono sempre in opposizione al dottore, per cui in questi casi il contrasto diventa di due persone (Pulcinella e Zingara) contro uno (dottore). Le zingare hanno, quindi, una precisa funzione strutturale: di aprire la farsa, di dividerla in parti con gli stacchi e di chiuderla. Infatti la zingara adducendo l’ora tarda (I e III Zingarella) o il cattivo tempo (II Zingarella), saluta gli astanti.

Nelle prime due Zingarelle il contrasto ha per argomento la richiesta di matrimonio da parte del dottore per la ragazza, richiesta contrasta da Pulcinella e dalle zingare, che dichiarano che il prescelto dalla ragazza non è il dottore. Nella terza il contrasto si sviluppa su di un altro tema: questa volta il dottore esprime tutto il suo disprezzo verso le donne, invece Pulcinella le difende. Questo elemento è un’altra prova del fatto che al centro delle Zingarelle solofrane c’è il contrasto Dottore-Pulcinella. Ma alla fine il tutto si compone nella prospettiva di una bella mangiata o di un invito alla festa di nozze della zagazza.

 

Significato e i ruolo dei personaggi

Nel contrasto, che è alla base delle Zingarelle solofrane c’è l’eterna opposizione tra il mondo dei poveri e quello dei ricchi tra il nobile ed il popolano. Pulcinella rappresenta il popolo ridanciano, oppresso da un’eterna fame, costretto all’ignoranza, in costante opposizione con la classe degli addottorati o dei ricchi divenuti nobili, come il Dottore in legge che frequenta la Vicaria. Egli ha il compito di metterlo in ridicolo, di disprezzare le sue nobili origini, di rifiutare la sua ricchezza, di difendere la bella popolana dalle mene di questi nuovi arrivati nella classe che conta.

Tutto questo è chiaramente riscontrabile nelle tre farse in cui si individua una sottile e penetrante satira al mondo dei paglietti, di quegli avvocati di ventura di cui si fregiavano le famiglie dei nuovi ricchi napoletani, che spesso non facevano carriera, ma che alimentavano un sottobosco di traffici, liti, imbrogli e sbrogli, che erano divenuti la piaga della società napoletana del sei-settecento. Lo stesso dottore sottolinea questa sua realtà quando dice:

 

’N corte se sta ’na cuccagna:

faje le carte ’mbrogliate

c’abbuschi li denari - e statte buono

 

 

al quale fa eco in altro loco Pulcinella:

 

Va facenno contratte - a scapizzare!

 

Più volte insultandolo

 

dottore alla moda

 

sottolineando questa realtà cosi diffusa a Napoli e così negativa da diventare un insulto.

 

Nella logica del mondo alla rovescia, che il Carnevale permette di realizzare, Pulcinella può mettere a nudo le magagne del un mondo che ha sempre vinto e che ora invece viene messo in ridicolo attraverso un personaggio, che è espressione della parte deteriore del quella società.

E il Dottore è uno che usa in modo volgare la sua nobiltà, la sua ricchezza, i suoi studi. Anche il linguaggio lo condanna, poiché mette a nudo la vera origine del paglietta. In effetti questo Dottore è un popolano che, arricchitosi, ha cambiato stato, passando dall’altra parte e tradendo la sua origine.

La satira diventa così sarcasmo feroce, espressione del risentimento di tutta una classe sociale, che si sente tradita.

Questa realtà era presente in larghe zone del Regno non solo a Napoli. In ogni luogo ove fosse un tribunale, lì c’erano paglietti, legisti, scrivani di Vicaria. Solofra aveva una lunga tradizione di uomini di legge che erano saliti ai più alti ranghi della magistratura e dell’avvocatura. A Solofra si conosceva l’evoluzione avvenuta in questa classe contaminata da una realtà che non certo le dava lustro.

Il contrasto Pulcinella-Dottore si configura così come un contrasto prettamente napoletano che non poteva trovare riscontro nei Contrasti di altre zone d’Italia e spiega come nelle Zingarelle solofrane esso abbia subito la trasformazione indicata.

Il disprezzo di Pulcinella è totale infatti egli rifiuta categoricamente le offerte di guadagno che il Dottore gli propone come intermediario con la ragazza:

 

Te tengo ’n casa mia

ed io farraggio Uscia - primo Decano.

0 puro pe’ scrivano

te porto ’n Curia Magna

Tabbusche la foragna e stai da ommo!

 

Il rifiuto non è compreso dal Dottore poiché deve molto costare a chi, come Pulcinella, è tormentato da una paurosa miseria. Ma in quel rifiuto si legge l’orgoglio di tutto un mondo che difende l’onore delle sue donne. Ecco l’altro ruolo ricoperto dalla maschera napoletana nel contrasto col dottore. Il ricco, il nobile crapulone, il dongiovanni per divertimento, non deve approfittare del suo stato per attentare al buon nome delle belle popolane. Quella bellezza è l’unica ricchezza che ha il popolo, una ricchezza gratuita che esso, però sa apprezzare, perciò preferisce soffrire la fame, che accondiscendere ai bassi desideri dei signori. Quanti don Rodrighi ci sono stati nel napoletano! Questo ruolo, così denso di significato sociale, che scopriamo in Pulcinella non viene tradito neanche nella Zeza come si è visto. Ma il paglietta della Zingarella è diverso da quello della Zeza, perciò da condannare più fortemente.

In questa azione si affiancano a Pulcinella le zingare le quali dichiarano:

 

Deh, sciocco, vanne altronde,

Non sei prescelto, il vago,

Altri è di quell’immago - il possessore.

 

e l’altra zingara:

Il sovran Facitore

per quanto io ben discerno

con suo decreto eterno

altri ha prescelto.

 

Nella seconda Zingarella essa dice:

 

Stolto! Deh! Vanne via

Tu l’eletto non sei

Altri scelsero i Dei - di lei ben degno.

 

Anche il Cielo scende in campo nella difesa della ragazza, anche gli dei sono contro il Dottore. Il destino, che non si può cambiare, che incombe su tutti ricchi e poveri, nobili e plebei, una volta tanto, nella finzione, si configura amico. Le zingare, quindi, esprimono il desiderio di sconfiggere il destino nemico e ribaltare dall’altra parte l’inimicizia. Esse aiutano la vittoria del bene sul male, che sono i due elementi presenti nei Contrasti, solo che nel napoletano il bene e il male sono di natura sociale.

L’analisi del personaggio Pulcinella non sarebbe completa se non si sottolineasse una caratteristica generalmente assegnata alla maschera napoletana che è presente anche nel Pulcinella solofrano e cioè la sua eterna fame. Non interessano a lui l’oro, l’argento del ricco, obolo chiesto dalle zingare ma:

pane e presutto

ca so’ proprio - allaccato da la famma

 

Più avanti Pulcinella dice:

Va curre a la respensa

ignice na credenza - e portancella

 

e poi:

Va, bella, a la despensa

pigliace robba assaje ...

e nella seconda Zingarella:

Va, curre, nun tricare

portame robba assaje

ca accussì stutarraje - la famma mia.

 

Pulcinella è anche un popolano non stupido, dalla risposta pronta, arguta e pungente. E pure questa caratteristica è presente nelle Zingarelle. Al Dottore che chiama in causa i grandi autori da lui studiati per giustificare la sua ricchezza e la sua posizione che gli permettono di avere ogni cosa:

Bartolo, Giustiniano,

Grozio, Ugone, Graziano, - anco Gravina,

de sera e de mattina

studeo pe’ corre ’ncorte.

E m’abbusco pe sciorte - li denari.

Perzò cosa me pare

degna de me chella

Date mihi poella e l’ avuto ’o riesto

 

egli, non lasciandosi intimidire da quei nomi e da quel latino, argutamente fa eco:

Cride ca co' sto tiesto

aje fatto lo negozio?

Tu saie che dice Grozio? - Oje cca nce abbusche!

 

Il suo linguaggio è quel dialetto napoletano pieno di immagini meravigliose, locuzioni bizzarre e frasi metaforiche, di espressioni pungenti che in bocca a Pulcinella non riesce volgare, lo diviene, invece, in bocca al dottore che lo usa di tanto in tanto e costituisce la rivelazione che egli a quel mondo appartiene da cui si è distaccato, e che di tanto in tanto appare soprattutto sotto la spinta dell’alterco quando si allentano i freni imposti dal suo nuovo stato.

I profondi significati che emergono sembrano non poter avere luogo in una farsa carnevalesca dove si scherza, si ride, si burla. Invece se si considera il vero ruolo del divertimento carnevalesco quel significati appaiono ancora più precisi e veri e quel riso si trasforma in smorfia. La battuta deve provocare il riso, le situazioni devono essere sollazzevoli altrimenti non si realizza la prosperità della vita sociale che il Carnevale si propone.

Queste farse sembrano finire in una situazione in cui si disincantano tutti i contrasti precedenti. Al dottore ch’ella sciamma d’amore ’mpietto: s’ha botata in affetto di mangiare (quella fiamma d’amore che aveva in petto s’è tramutata in desiderio di mangiare) e lo stesso succede, nella terza Zingarella, quando di punto in bianco cambia opinione e quell’odio contro le donne, che prima lo animava si tramuta in ammirazione per la ragazza tanto da chiederle perdono e da essere pronto a fare le lodi della donna. Così tutto finisce a taralluzzi e vino e ci si può abbandonare alla baldoria carnevalesca.

Questi bruschi cambiamenti non servono solo a trasformare il dramma in commedia a lasciare tutti a cuor contento, ma prendono un altro significato se si considera che è il solo dottore a subire queste mutazioni. Se allora nelle prime due farse egli sembra accettare il verdetto divino con rammarico, ma senza rancore così che piò strappare una qualche commiserazione, nella terza Zingarella egli appare proprio come Pulcinella lo aveva insultato, un votabannera. Qui troppo facilmente egli passa da una situazione ad una diametralmente opposta non facendo certo una bella figura. È vero allora che la farsa deve terminare in bellezza, ma che termini con un personaggio che diventa ridicolo è un’altra cosa, che ha il sapore di un’altra feroce presa in giro.

 

Bisogna accennare per concludere ad un confronto con alcune Zingarelle che si rappresentavano nelle zone limitrofe per individuarne le differenze e meglio delineare le caratteristiche delle farse solofrane. Prendendo in considerazione una Zingarella di Petruro ed una di Forino nel testo pubblicato da Modestino Della Sala si nota che i personaggi sono due, Pulcinella e la zingara, in contrasto tra loro per cui la farsa viene ad appartenere alla prima trasformazione avvenuta nella zingaresca con l’aggiunta di un villano che genera il Contrasto. Infatti Pulcinella risponde, con mordaci battute alle parole della zingara, creando proprio con esse il divertimento. La diversità con le farse solofrane è evidente.

In un altra Zingarella riportata da Fiorella Greco della tradizione orale di San Leucio del Sannio vicino a Benevento il ruolo di Pulcinella è solo quello di divertire e rompere negli spettatori l’incanto determinato dal contenuto del componimento con battute scherzose e talvolta licenziose.

 

 

Le Stagioni solofrane

 

Antonio Giliberti alla fine dell’ottocento dice che a Solofra si rappresentavano le Quattro Stagioni, che egli chiama una lunga pagina di mitologia, poiché accanto alla personificazione di queste ce n’erano altre quali il Sole, la Luna, la Morte e il Tempo, che faceva acquistare alla rappresentazione un carattere prettamente profano. 

La rappresentazione appartiene alle forme drammatiche popolari delle feste d’inizio del ciclo annuale, di cui fa parte tutto il Carnevale. Il Toschi le chiama, insieme ai Mesi, un almanacco drammatizzato in cui si fanno parlare i personaggi [...] tutti presenti nel giomo d’inizio del dramma che li avrà protagonisti […] come una profezia o previsione atemporale attuatasi nel momento che rinserra il futuro dell’intero ciclo. La tradizione, risalente all’antico Egitto, è presente in tutte le regioni italiane.

Questa originale forma drammatica era strettamente legata ai riti d’inizio di un Ciclo. Molto diffuse erano le rappresentazioni dei Mesi, mentre le nostre Stagioni escono un po’ fuori da quei moduli.

Tutta la mascherata si presta facilmente alla lettura. All’inizio del ciclo annuale l’uomo ha bisogno di trovare una conferma di tutto ciò che dovrà succedere nel quotidiano svolgersi del suo tempo in cui l’avvicendarsi delle stagioni, come un orologio, scandisce lo scorrere della vita legata alle sue necessità primarie, che sono quelle della sopravvivenza che il ciclo della natura assicura. In questo ciclo c’è bisogno del Sole e della Luna, elementi che permettono questo sviluppo, il tutto inquadrato nel perenne scorrere del Tempo, in cui la Morte è una delle tappe. Questi problemi esistenziali danno solennità alla farsa carnevalesca e mettono in risalto un valore tremendamente serio del tutto insospettato.

In questa luce bisogna seguire l’avanzare del corteo che si snoda per le vie lungo le quali il rito deve realizzarsi, che si ferma per ricevere, dalla partecipazione corale degli astanti, il segno della sacralità dell’evento e la sicurezza che esso si realizzi. Esso avanza sontuoso con i personaggi a cavallo e con altre maschere che fanno da guida ai destrieri, ognuno preso nella maschera che rappresenta come quella Morte cui avresti detto uno scheletro vivificato. La serietà del rito, non difficilmente compare sottolineata dall’essenzialità di quei lazzi e di quelle risa.

I coriandoli, i confetti gettati sulla gente sono segni di prolificità; e il fermarsi del corteo è l’inizio di un mistero come una tappa; e le parole dei personaggi, come parti di una preghiera, sono un richiamare su di se e sulla comunità i doni che quel dire promette; e la necessità di quei lazzi e di quel riso servono ancora una volta a suggellare la serietà del rito.

Pur avendo perduto attraverso i millenni il senso primitivo della funzione tutti sentono che quel divertimento ha un valore diverso dagli altri come se quel voluto dalla tradizione ne svelasse tutti i significati.

 

 

 

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